Luigi Manconi
Se la premier non parla a tutti gli italiani
la Repubblica, 17 settembre 2025
C’è stato un tempo in cui per le proprie idee si poteva cambiare scuola e città e persino perdere la vita, uccisi da carnefici in una spirale di violenza trascinata per troppi anni”. Queste le parole che Giorgia Meloni non ha pronunciato in occasione dell’anniversario dell’assassinio di Valerio Verbano. Il 22 febbraio del 1980 tre uomini con i volti coperti da passamontagna si introducono nell’abitazione della famiglia Verbano, nel quartiere romano di Montesacro. Mentre aspettano il ritorno da scuola di Valerio, legano e imbavagliano i genitori che, poco dopo, sentiranno le grida del figlio e i colpi di pistola che lo uccideranno. Ecco, per uno dei diversi giovani di sinistra assassinati da militanti neo-fascisti, Meloni non ha saputo trovare altrettanti accenti di verità quali quelli prima ricordati a proposito di Sergio Ramelli, ucciso da appartenenti a un gruppo di estrema sinistra.
No, la premier non ha fatto considerazioni ugualmente sagge in ricordo di Mario Lupo, Claudio Varalli, Alceste Campanile, Walter Rossi, Roberto Scialabba, Lorenzo Iannucci, Fausto Tinelli e altri ancora: giovani, e talvolta giovanissimi, stroncati dalla violenza di membri di formazioni neo-fasciste. E non vi ha fatto riferimento nessuno dei suoi sodali, tantomeno il ministro Luca Ciriani, uomo non raffinatissimo che ha paragonato l’attuale clima politico a quello dei “tempi di Sergio Ramelli e delle Brigate Rosse”. Ciriani, evidentemente, è talmente obnubilato da non ricordare che esattamente un anno dopo l’aggressione contro Ramelli, e non troppo distante dal luogo dell’agguato, veniva accoltellato a morte da una banda di estrema destra il ventunenne Gaetano Amoroso; e che, mentre le Brigate Rosse e Prima Linea mietevano vittime, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, i Nar e Terza Posizione commettevano crimini altrettanto efferati e operavano, talvolta come comprimari, talvolta come protagonisti, nell’organizzazione di quelle stragi che avrebbero insanguinato il nostro paese. Di conseguenza, per comprendere “da che lato stanno la violenza e l’intolleranza” (Giorgia Meloni dopo l’omicidio di Charlie Kirk) serve uno sguardo più lucido e non deformato dalla menzogna politica.
La sintetica ricostruzione qui riportata della “guerra civile simulata” degli anni Settanta è sorretta da una imponente documentazione scientifica: eppure, riproporla ancora una volta non ci preserva da una sensazione avvilente. Quella di dover ricorrere alla cupa contabilità dei morti, rigorosamente ripartiti per appartenenza politica e per identità partitico-culturale. Dicevo, è mortificante e si prova vergogna nel sentirsi costretti a ricorrervi per “legittima difesa”, dal momento che quel funereo bilancio segnala, tra l’altro, la debolezza del nostro sistema democratico e dei suoi principi ispiratori. Ma è esattamente questo che sembra intenzionato a perseguire il discorso pubblico di Giorgia Meloni e del suo gruppo dirigente. Un caso malinconico di lottizzazione della memoria e una deprimente toponomastica dei morti ammazzati. Dietro tutto questo c’è la manipolazione della storia e l’alterazione del ricordo collettivo e c’è un uso privatistico (di comunità, di setta, di fazione) del lutto e del dolore. C’è, ancora, una politica discriminatoria che seleziona tra vita e vita e tra il peso e il valore dell’una rispetto al peso e al valore dell’altra.
In questo si può rintracciare anche una responsabilità della cultura e della politica di sinistra? Certamente sì, ma giova ricordare che dal 1978 — e da quell’“Album di famiglia” evocato da Rossana Rossanda — la sinistra ha intrapreso un percorso, spesso assai doloroso, di autoanalisi e di autocritica sui fondamenti ideologici della propria visione del mondo. Da qui un processo che ha portato alla cancellazione dell’omicidio politico e della mostrificazione e dell’annientamento dell’avversario dall’orizzonte morale della sinistra (con trascurabili eccezioni, successivamente esauritesi). Ne consegue un giudizio oggi pressoché unanime sulla inviolabilità della vita umana e sul valore supremo di qualsiasi esistenza nel perimetro della lotta politica.
È questo che mi induce a scrivere qui di seguito: Sergio Ramelli, Miki Mantakas, Angelo Pistolesi, Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Stefano Cecchetti, Paolo Di Nella. Davanti a ciascuno di questi nomi mi inchino, provo sofferenza e sento di dover dichiarare la mia corresponsabilità in quanto partecipe e, in una qualche misura, coautore di quel clima politico e di quella “guerra fratricida” (Umberto Saba). Ma perché, nell’arco di mezzo secolo, non mi è mai capitato di sentire parole simili da parte anche di un solo intellettuale o di un solo esponente politico della destra? Perché non ho letto qualcosa del genere nei quotidiani filogovernativi, dove si coltivano il più torvo rancore e la più tetra rivalsa? Perché una premier che gode di consensi tanto estesi si mostra incapace, sul piano storico-ideologico, di parlare a tutti gli italiani? Perché non riesce a emanciparsi da questa sindrome vittimistica da “esule in patria”? Proporsi come underdog quando si è capa del governo è una mediocre civetteria che può incuriosire i cronisti stranieri, ma che finisce per rivelare un persistente complesso di inferiorità.
Certo, non compromette il suo potere, ma ne limita irreparabilmente l’ambizione di esercitare un’egemonia culturale. Suvvia, Giorgia Meloni, pronunci il nome di Valerio Verbano e di Walter Rossi e ne onori la memoria. Vedrà che si sentirà più libera.
https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/politica-e-violenza-lo-strabismo-di-giorgia-meloni-cvk2uo0o

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