Giorgio Ferrari
Dalla grandeur al tracollo: perché il sogno di Macron è finito
Avvenire, 10 settembre 2025
«Potete rovesciare il governo, ma non potete cancellare la realtà». È l’amarissima ma altrettanto realistica chiosa con cui il dimissionario François Bayrou si è congedato dall’Assemblea Nazionale, riponendo simbolicamente quella scure di cui il suo governo stava affilando la lama, predisponendo drastiche misure di bilancio e una austerity per il 2026 che puntava a 44 miliardi di euro di tagli alla spesa e nuove imposte. Ma tutto è naufragato nella Francia di Emmanuel Macron: la fiducia, la grandezza, la grandeur, la speranza in un domani migliore. Le nude cifre corredano la sfiducia che è calata sul governo: 3.415 miliardi di debito pubblico e un bilancio che non raggiunge il pareggio da 51 anni, «una nave - come si è sentito dire durante il dibattito – che imbarca acqua da mezzo secolo».
Al di là delle decisioni che prenderà il presidente – difficile che accetterà di farsi da parte considerato il contesto internazionale che vede la Francia attiva in prima persona sue due fronti caldi, l’Ucraina e il riconoscimento dello Stato palestinese – il macronismo è finito. La spinta propulsiva di En Marche!, il guizzante tecnocrate con lampi di spartachismo socialista che si muoveva spavaldo sull’onda di un riconoscimento popolare che lo aveva traghettato con un balzo dalla sinistra di Hollande all’Eliseo, oggi sono solo un ricordo. Il ragazzino che amava sopra ogni cosa Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, che leggeva Gide, suonava il pianoforte e si commuoveva ascoltando Charles Aznavour e a 12 anni aveva deciso di battezzarsi («Per scelta personale»: i genitori se n’erano scordati...), oggi è una figura teatralmente impopolare, sfigurato nelle ambizioni personali e in crisi di ispirazione.
Attorno a lui si muovono vermicolanti legioni di pretendenti al trono, sia dall’opposizione (Marine Le Pen chiede le dimissioni immediate del presidente, forte dei sondaggi che danno il Rassemblement al primo posto, mentre il veterocomunista Mélenchon vuole nuove elezioni legislative e nuove presidenziali) sia dai ranghi stessi della destra liberale e di quello che fu il gollismo. Già, de Gaulle… che con la Quinta Repubblica aveva creduto di aver messo in sicurezza il potere con un semipresidenzialismo che aveva inghiottito e sopportato di tutto, comprese le stravaganti cohabitations, come quella tra Mitterrand e Chirac, poi fra Mitterrand e Balladur e infine tra Chirac e Jospin. Ma anche la Quinta Repubblica mostra ormai la corda. Ai confini del consenso che Macron aveva addensato attorno alle classi più abbienti si staglia oggi un malcontento che la Francia storicamente conosce bene da sempre. Dopo i Gilet Gialli, oggi la protesta si preannuncia ancora più radicale. Il frastagliato movimento di piccoli borghesi e giovani proletari che assedia l’Eliseo si fa chiamare bloquons tout, “blocchiamo tutto” e davvero intende farlo: treni, aerei, bancomat, carte di credito, uffici pubblici, una jacquerie che dal medioevo si ripresenta ogni volta in forme diverse. Come quando i francesi boicottarono il referendum sulla costituzione europea promosso da Giscard D’Estaing o quando i portuali trotzkisti di Calais votarono per protesta Jean Marie Le Pen affondando il più civile e lungimirante governo che la Francia avesse avuto dal dopoguerra, quello dell’ugonotto socialista Lionel Jospin, inventore dell’invidiato welfare d’oltralpe, delle 35 ore, del sistema sanitario – all’epoca - migliore del mondo.
Lo scenario di oggi mostra una Francia délabré, acciaccata e sofferente, attraversata da inaccettabili diseguaglianze sociali e da altrettanto inaccettabili privilegi di casta riservati agli elettori ad alto reddito. Quel “macronismo in un solo Paese” che ha portato alla disfatta di tre governi in un solo anno e la caduta di credibilità di un presidente. In queste ore si ama dire che la Francia si sta italianizzando, che dovrà imparare quel gioco di alleanze e di precarietà che consente alle fragili coalizioni di governare che è proprio dello spirito italiano. Ma evitiamo per favore quei sorrisi di divertita commiserazione di fronte alle inconfutabili difficoltà dei cugini francesi. Già a suo tempo li spesero malamente Nicolas Sarkozy e Angela Merkel sbeffeggiando pubblicamente il presidente dimissionario Berlusconi, e non fu certo un gesto di eleganza politica. Meglio continuare a guardare alla Francia non come l’avversario di un derby ma come il grande Paese senza il quale l’Europa non ci sarebbe. E con il quale bisogna rimboccarsi insieme a tutti gli altri le maniche per ricostruirla dalle fondamenta.
Francesca De Benedetti
Macron sceglie un altro fedelissimo: il suo "clone" Lecornu diventa premier
Domani, 10 settembre 2025
Ci risiamo: Emmanuel Macron si è di nuovo nominato premier. Questa volta il prescelto si chiama Sébastien Lecornu. Rispetto a Michel Barnier e François Bayrou – a loro volta individuati con l’obiettivo di portare avanti le politiche macroniane – presenta due tratti che lo caratterizzano. Il primo è che Lecornu è dichiaratamente un fedelissimo di Macron.
Ministro delle Forze armate, grazie al legame d’acciaio con il presidente è sopravvissuto a tutti i cambi di stagione degli ultimi tempi: ha conservato la stessa delega quando a Matignon c’era Élisabeth Borne, poi sacrificata dal presidente per l’insofferenza generale sulla riforma delle pensioni. È rimasto in quell’incarico quando premier è diventato Gabriel Attal, incaricato ufficialmente di far risorgere il macronismo del 2017 e crollato sotto questa missione come un soufflé al voto delle europee (ma tuttora capogruppo e uomo di punta del partito del presidente).
Sébastien Lecornu ha resistito quando premier è diventato Michel Barnier e mentre lui, l’ex negoziatore di Brexit con sempiterna vocazione presidenziale, si bruciava come meteora, invece il ministro no: eccolo di nuovo allo stesso incarico con Bayrou, col quale già si era conteso la nomina; o perlomeno, c’era già, Lecornu, nel toto premier. Ma cos’avrà mai di così speciale, si dirà? Anzitutto il portafoglio, perché per il sempre più impopolare presidente della Repubblica (ancora martedì il 64 per cento di francesi ne auspicava le dimissioni) la cornice di guerra è una chiave per mantenere intatta la propria influenza.
Non a caso esibisce protagonismo coi volonterosi, ci riferisce di scambiar messaggi quotidianamente con Trump, e già da mesi ha preannunciato ai francesi in tv che tutto con la guerra cambierà: l’economia, le dinamiche sindacali, ovviamente la politica. Di speciale agli occhi della Macronie il nuovo prescelto ha il carattere – si dice – rotondo, non a caso è considerato l’altra faccia della luna rispetto al suo strettissimo amico Gérald Darmanin, che si è costruito come ministro dell’Interno il volto duro.
A ridosso della nomina, i due si sono incontrati, come fanno almeno ogni due settimane: Lecornu di Darmanin è stato persino testimone di nozze, ha fatto da padrino a uno dei suoi figli. Insomma esiste un legame strettissimo tra gli stretti di Macron, e in questo caso il legame conta doppio, se si pensa che almeno uno dei due scommette sulla propria corsa all’Eliseo.
Un altro Macron è possibile
«Presidente, lei fa l’arbitro o il giocatore?», aveva chiesto provocatoriamente Marine Le Pen in Assemblea nazionale nel giorno del voto di sfiducia a Bayrou. La scelta sfacciata di un macroniano doc fa da risposta, del resto lo stesso Rassemblement National – la cui leader aspetta il processo a gennaio e febbraio 2026 per vedere se la propria ineleggibilità è confermata – aveva annunciato che non avrebbe sostenuto la mozione di destituzione presentata dalla France Insoumise contro il presidente; il che deve aver rafforzato Macron nel piano di giocare, e di giocare il tutto per tutto.
Questo beffando totalmente i socialisti: dopo averli sganciati dal Fronte Popolare lasciando che tollerassero i primi mesi del governo Bayrou, ha totalmente ignorato la rivendicazione di Olivier Faure, il leader del Partito socialista, il quale rivendicava la nomina. E non solo: ha nominato Lecornu proprio mentre Raphaël Glucksmann, volto centrista del socialismo, si buttava in avanti, offrendo di trattare con la Macronie.
Dopo aver sciolto l’Assemblea, indetto elezioni parlamentari che hanno lasciato la Francia senza maggioranza assoluta (com’era già ai tempi di Borne) ma con il blocco di sinistra in testa, il presidente non ha ceduto né al blocco in testa né alla negoziazione parlamentare la scelta della guida. E dopo che questa operazione ha portato al fallimento a catena di Barnier e Bayrou, che almeno facevano teatro di autonomia, davanti all’ennesimo fallimento il presidente cala la maschera: già che ci siamo – avrà pensato – tanto vale metterci la faccia. Non proprio la sua, ma è come se fosse.
«Blocchiamo tutto»
Mercoledì in Francia scende nelle strade il movimento «Bloquons tout» («Blocchiamo tutto»), aggregatosi anzitutto su internet su istanze come lo stop a un bilancio austeritario, l’insofferenza per il macronismo, l'attenzione a Gaza. L’insoumis Jean-Luc Mélenchon ha sùbito piazzato la bandiera su questo movimento di “gilet rossi” e prima ancora che questi ultimi iniziassero con scioperi e proteste, centristi e destre di ogni conio puntavano in anticipo il dito contro Mélenchon per «disordine e caos»: il cordone contro l’estrema destra è archiviato, è in voga quello contro la sinistra. Invece di offrire uno sbocco istituzionale all’insofferenza popolare, di dare ascolto alle organizzazioni sindacali che pure il 18 andranno in piazza, il presidente della Repubblica sfida tutti portando nel palazzo di governo il suo ministro della guerra. Ed è in effetti una dichiarazione di guerra, perlomento ai partiti di opposizione.

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