Giacomo Giossi
Claudia Cardinale è stata ciò che il cinema italiano poteva essere
Domani, 25 settembre 2025
Claudia Cardinale dovette aspettare cinque anni e 20 film (praticamente il corrispondente della carriera di una star contemporanea) per poter finalmente rivelare agli spettatori la sua voce, fatto che avviene grazie a Federico Fellini che la sceglie per 8½ del 1963. Quella di Claudia Cardinale, morta il 23 settembre a 87 anni, è una voce roca, bassa, a tratti afona.
Un timbro che diviene subito riconoscibile e che in qualche modo l’avvicina e la mette in relazione – e in competizione – con Monica Vitti, l’altra star italiana emergente negli anni Sessanta. Monica Vitti e Claudia Cardinale andranno infatti negli anni a scalzare le cosiddette maggiorate da Sofia Loren a Gina Lollobrigida, da Sylva Koscina a Silvana Pampanini, tutte attrici – in alcuni casi – realmente straordinarie, ma troppo legate e imbrigliate dentro personaggi sempre uguali, spesso monotoni e dai medesimi vestiti come dalle medesime acconciature.
Ma soprattutto segnate da ruoli maledettamente legati ad una bellezza sempre e solo giovanile e prorompente e in buona parte subalterna alla figura maschile.
Divismo inedito
Claudia Cardinale invece – come anche Monica Vitti – rompe gli schemi e si rende disponibile a ruoli che vadano al di là del suo aspetto fisico. Parti e ruoli capaci di restituirle un’aura di volta in volta sorprendente e inedita, un’idea di cinema coraggiosa e sempre apprezzata dal suo pubblico.
Cardinale si spende senza pudori o pigrizia per i suoi personaggi e lascia spazio ai registi d’intervenire su di lei e sul suo corpo. Dal trucco fino al colore dei capelli, Claudia Cardinale si sottopone spesso a estenuanti tour de force come avviene nel 1963 quando in contemporanea gira Il Gattopardo di Luchino Visconti e 8 1/2 di Federico Fellini, due film che mettono in scena una figura femminile opposta all’altra.
Quello dell’attrice nata a Tunisi è un divismo inedito, d’autore che le permette di lavorare con i più grandi del Novecento, Federico Fellini e Luchino Visconti, ma anche Werner Herzog e Sergio Leone, Marco Bellocchio e Claude Lelouch.
L’elenco completo sarebbe praticamente infinito e la porta inevitabilmente e più volte a incrociare il proprio percorso con Monica Vitti con un movimento in parte opposto e curioso perché se in fondo Cardinale ha iniziato proprio con i maestri della commedia all’italiana per poi trovarsi sempre più affine nei ruoli del cinema d’autore ecco che Vitti compie il percorso inverso: da Michelangelo Antonioni ad Alberto Sordi. Ed è in questo movimento che si ritrovano entrambe protagoniste in un film tutt’altro che scontato e che oggi appare ancora purtroppo ancora fortemente sottovalutato, Qui comincia l’avventura girato da Carlo Di Palma (con la sceneggiatura di Barbara Alberti).
Già assistente alla regia di Luchino Visconti e storico direttore della fotografia di Woody Allen, Carlo Di Palma dà vita con Qui comincia l’avventura a una specie di Thelma e Louise ante litteram, con protagoniste Monica Vitti e Claudia Cardinale che a bordo di una motocicletta attraversano l’Italia dalla Puglia a Milano in cerca di un uomo amato.
All’arrivo nel capoluogo lombardo si scoprirà che non c’è nessun uomo e nessun amore, ma solo una grande avventura femminile, gioiosa e liberatoria che prende in giro i vizi maschilisti di un’Italia ancora estremamente provinciale e beghina. Un film dunque che coglie pienamente la delicata disperazione di una condizione femminile che sconta un’esistenza ancora fortemente limitata. Là dove anche l’avventura più ingenua assume per le protagoniste il triste sapore di un’utopia o di un sogno ancora molto lontano dal vero e dal possibile.
Nello stesso anno le due attrici si ritrovano anche in un’altra pellicola, A mezzanotte va la ronda del piacere di Marcello Fondato, già collaboratore di Luigi Comencini. Con loro Giancarlo Giannini in una tipica pellicola anni Settanta, un triangolo amoroso che recupera in parte gli stilemi del cinema di Lina Wertmüller pur appiattendolo in un discorso dalla cifra meno eclettica e decisamente più conformistica.
Ma il trionfo al botteghino decreterà il successo più che del film dei suoi stessi interpreti, riferimenti assoluti del cinema italiano di quegli anni.
POPOLare e d’autore
Claudia Cardinale ha rappresentato così un grado possibile del fare cinema in Italia che però in verità non è del tutto stato inseguito dal sistema cinematografico. Un cinema popolare, ma anche d’autore e che fosse capace di andare oltre le dinamiche della commedia all’italiana ponendo al centro con una diversa leggerezza tematiche sociali, di genere e politiche che fossero rilevanti e d’attualità.
Una chiave che lei trovò infine più attinente nel cinema francese e che la portò così a lavorare nel 1985 con Nadine Trintignant in L’eté prochian. Un film corale che la vide al fianco tra gli altri di Philippe Noiret, Marie Trintignant, Jean-Louis Trintignant, Fanny Ardant.
Cardinale interpreta Jeanne Severin, matriarca di una famiglia a guida fortemente femminile. Un film capace di mostrare sia le contraddizioni che i limiti dell’istituzione famigliare ormai in crisi alla fine del Novecento, ma anche la sua capacità di potersi reinventare, nonostante tutto, come un rifugio possibile. Un luogo affettivo dentro al quale trovare spazio per sé stessi.
Il film racconta inoltre anche una dinamica di collaborazione tra paesi e cinematografie diverse e di cui Claudia Cardinale è stata l’ultima testimone e interprete insieme a una brigata di straordinarie attrici e attori che seppero non solo offrire personaggi e storie meravigliose, ma stabilire relazioni tra culture che solo quarant’anni prima avevano scelto la via dello scontro e della guerra il cui esito aveva lasciato non solo morti e disperazione, ma anche molta reciproca diffidenza.
Il cinema fatto da Claudia Cardinale seppe abbattere quei muri e costruire un’identità nuova che oggi appare quanto mai necessaria, un’idea di Europa e di europei fortemente urgente.
sedotti da un altrove ambrato e corvino
Claudia Cardinale. Regalò al cinema italiano la chance di cambiare dopo le maggiorate con la malinconia e la carnalità che nascevano dalle origini siculo africane e si prestavano all’autorialità
Andrea Martini
Il Sole 24ore, 28 settembre 2025
Star senza system. Claudia Cardinale lo è stata per destino e per natura. Ebbe la fortuna di nascere qualche anno dopo la vague delle maggiorate battezzate da Salsomaggiore e di crescere abbastanza lontano da Cinecittà. Un’italiana a Tunisi. La più bella, secondo un concorso improvvisato durante un festival del nostro cinema. Era il 1957: l’anno prima aveva partecipato al cortometraggio Les anneaux d’or, premiato a Berlino; l’anno dopo sarà Claudia sorella di Ferribotte nei Soliti ignoti. La sua bellezza ambrata e corvina, trattenuta e quindi più intensa, capace di conservare inizialmente un che di monellesco, le apre le porte del cinema italiano attraversate dal vento del rinnovamento. Ne diverrà l’interprete ideale maturando, film dopo film, un’espressività propria, efficace in ruoli opposti: ai personaggi porta in dote il riflesso di una coscienza problematica e malinconica. La sua presenza implica il senso di verità indispensabile per chi vuole portare sullo schermo la vera vita. Anche per questo divenne in poco tempo necessaria al cinema d’autore che alle dive già celebri, almeno in attesa di una loro palingenesi (Mangano con Pasolini), non poteva rivolgersi.
La prima parte, decisiva, del suo itinerario si dipana sotto l’egida di Franco Cristaldi, produttore colto che ambisce a diventare parte integrante del nuovo cinema italiano. Produce in proprio, è a fianco dei nuovi registi, collabora con le major italiane, acquista diritti letterari pensando sempre a Claudia Cardinale. È il giusto Pigmalione che al sodalizio con l’attrice riesce a dare un’aura di nobiltà superiore a quelli instaurati da De Laurentis e Ponti con le loro mogli: non si tratta d’imporre la diva ma di costruire con oculatezza una carriera. Processo che avviene in tempi rapidissimi. Il felice incrocio tra esuberanza fisica e ritrosia mediterranea che illumina trasversalmente i primi film (Monicelli e Zampa) diventa via via insostituibile, anche perché Cardinale scivola con sensibilità e pudore nei personaggi, ancor prima di indossarne i costumi.
Dal ’58, in un solo quinquennio, una ventina di pellicole le aprono la strada del successo. Colpisce Zampa e Germi (la volubile cameriera di Un maledetto imbroglio attira l’attenzione di Pasolini che esalta «gli occhi che guardano solo con gli angoli» e «il viso di gatta selvaggiamente perduta nella tragedia»), incanta Bolognini (la vuole protagonista con Mastroianni nel Bell’Antonio) con cui girerà altri quattro film, cattura Zurlini (è l’ingenua ballerina sedotta e respinta in La ragazza con la valigia) che la cercherà ancora più volte. Il sodalizio che l’attrice stabilisce ripetutamente con i registi appartiene alla modernità: prevede uno scambio d’empatia opposto al mito dell’obbligata seduzione. In questo lasso di tempo ha l’occasione di farsi conoscere oltralpe grazie alla lingua madre e alla politica delle coproduzioni. Dà vita a Paolina Bonaparte nella Battaglia di Austerlitz di Abel Gance e recita a fianco di Brialy e Belmondo, già partner nella Viaccia, in film popolari come Cartouche e I leoni scatenati. Ma soprattutto incontra Visconti che in Rocco e i suoi fratelli le affida un ruolo minore sapendo già che uscirà dallo sfondo.
Il ’63 assegnerà alla venticinquenne attrice l’alloro della maturità. Nei mesi precedenti si è divisa tra il set di Visconti e di Fellini (una vicenda dagli aspetti caramboleschi ben raccontati da Francesco Piccolo in La bella confusione). Luoghi di creazione di due capolavori opposti che si manifestano complementari anche attraverso la sua presenza.
Nello sfolgorio dei colori del Gattopardo è Angelica sposa del principe Tancredi/Delon, figura impreziosita, destinata a rappresentarla in una indelebile iconografia. Nell’autobiografico bianco e nero di 8 1/2 è l’infermiera delle terme, donna angelicata estranea all’harem del maestro. A suo modo anche Fellini arricchisce l’attrice: paradossalmente nel suo film che più esalta l’artificio ne svela la vera voce sottraendola al doppiaggio. La phoné rauca, come arrochita al vento del deserto, poco modulata, s’adatta al carattere non ombroso ma schivo della Cardinale. Anche se non sempre questa ricomposizione di volto e voce sarà accuratamente sfruttata.
Da allora Cardinale è l’attrice più ambita. Proprio dal ’63 le si dischiude l’orizzonte anglofono in cui l’attrice è garanzia di italica eleganza, non proprio la qualità delle colleghe che l’hanno preceduta a Los Angeles. Blake Edwards ne fa la principessa Dala nella commedia ironica La pantera rosa; è sofisticata acrobata accanto a John Wayne nel Circo e la sua grande avventura (Henry Hathaway), è sposa di un magnate rapita da Pancho Villa ne I professionisti di Richard Brooks. Ma Hollywood nonostante tutto non è polo sufficiente a strapparla alla calamita del cinema italiano dove Pietrangeli e Comencini e i più giovani Ferreri e Maselli (è Carla ne Gli indifferenti) sembrano trovare in lei l’equilibrio di carnalità (celebre l’intervista fattale da Moravia in esclusivo nome del suo corpo) e spiritualità. Sono comunque anni fertili in cui l’attrice è una sorta di moderna Elettra carica di travolgente sensualità in Vaghe stelle dell’orsa e ex prostituta indomita alla brutalità maschile in C’era una volta il west. Due ruoli uniti da un sottofondo matriarcale.
Nei primi anni 70 si consuma la rottura con Cristaldi che credeva d’aver forgiato ad aeternum la sua Galatea.
L’aveva sposata, aveva dato il nome al figlio nato da una violenza subita in gioventù, aveva edificato il piedistallo per la sua grandezza. Ma l’attrice esce dal recinto costruitole intorno con lo spirito di ribellione che le è proprio. Tanto più che si lega nella vita e nell’arte a Pasquale Squitieri, personaggio controverso, regista di talento grezzo, anarchico nello spirito, metà a destra, metà radicale, molto lontano dalle chiuse stanze del cinema italiano. Scelta che le vale anche una iniziale freddezza dell’ambiente. Al primo loro film comune, I guappi, ne fecero seguito comunque altri otto, spesso iscritti a una meridionalità rivendicata dal regista napoletano con ardore e interpretati con amorevole passione da Cardinale, pronta a accampare coraggiosamente le ragioni del suo entusiasmo.
La seconda carriera di Claudia Cardinale poggia su un’ acquisita serenità: la sensualità animalesca si stempera in armonia e raffinatezza. Libera di scegliere compie qualche errore. S’azzarda senza eccessiva fortuna a calcare il palcoscenico (Pirandello e Williams), ma è l’occasione per divenire poi Matilde nell’Enrico IV di Bellocchio. All’inizio degli anni 80 ricorre a lei Herzog, il cui universo non potrebbe esserle più distante, che l’affianca a Kinsky nella folle grandiosità di Fitzcarraldo. Si rinfranca tornando a fianco di Mastroianni e Burt Lancaster, chiamata da Liliana Cavani ne La Pelle, anche se in seguito i registi con cui lavora non hanno l’allure di quelli dei decenni precedenti. Garantisce ai personaggi grazia e respiro in film diretti da Fondato, Sordi, Bevilacqua, Salvatores, che scadrebbero senza la sua presenza. Negli ultimi anni, nel nuovo secolo, pur rispondendo alla chiamata di De Oliveira, Lelouch, Trueba, il cinema diventa per lei quell’altrove in cui di tanto in tanto le piace rituffarsi per sfuggire alla noia del riposo.
L’altrove è stato, a guardar bene, la chiave della sua esistenza. Uno spaesamento compiaciuto che ha origine nella sicilianità tunisina e che l’ha accompagnata fino ai dintorni della capitale francese dove si è spenta.
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