Hannah Arendt
Denkentagebuch, agosto / settembre 1953
Heidegger dice, fierissimo: “La gente dice che Heidegger è una volpe”. Questa è la vera storia della volpe Heidegger. C’era una volta una volpe, ma così priva di scaltrezza che non solo cadeva continuamente nelle trappole, ma non era in grado di percepire la differenza tra una trappola e ciò che non lo è. Questa volpe aveva un altro difetto, qualcosa non andava nella sua pelliccia cosicché era del tutto sprovvista della naturale protezione contro gli inconvenienti della vita da volpe. Questa volpe, dopo aver girovagato per tutta la giovinezza nelle trappole di altra gente e non essendole rimasto sano per così dire neanche un pelo della sua pelliccia, prese la decisione di ritirarsi del tutto dal mondo delle volpi e si diede alla costruzione di una tana da volpe. Nella sua raccapricciante ignoranza su cos’è una trappola e cosa non lo è, e con la sua incredibile perizia in trappole, pervenne a un’idea nuovissima, e tra le volpi, inaudita: si costruì come tana una trappola, vi prese dimora, la diede ad intendere come una normale tana (non per scaltrezza, bensì perché da sempre aveva preso le trappole altrui per le loro tane), ma decise di diventare, a suo modo, scaltra e di trasformare la sua trappola, che si era costruita da sé e che andava bene solo per lei, in trappola per le altre volpi. Il che attesta di nuovo una grande ignoranza in materia di trappole: nella sua trappola nessuno poteva entrare davvero perché ci stava già dentro lei. Questo la irritava; alla fin fine è pur cosa nota che tutte le volpi, nonostante la loro furbizia, cadono di tanto in tanto nelle trappole. Perché mai una trappola da volpi, per giunta costruita dalla più esperta in trappole di tutte le volpi, non avrebbe potuto competere con le trappole degli uomini e dei cacciatori? Era certo perché la trappola non era riconoscibile come tale con sufficiente chiarezza. Quindi la nostra volpe incappò nella bella trovata di addobbare la sua trappola nel più elegante dei modi e di munirla ovunque di chiari segni che inequivocabilmente dicessero: venite tutti qui, qui c’è una trappola, la più bella trappola del mondo. Da quel momento in poi fu chiarissimo che in questa trappola mai nessuna volpe avrebbe potuto introdursi per errore senza volerlo. E tuttavia ne vennero molte. Perché questa trappola alla nostra volpe serviva da tana. E se si voleva farle visita nella tana dove abitava si doveva di necessità entrare nella sua trappola. Da cui certo chiunque poteva uscire e andarsene, tranne lei stessa. La trappola le era stata letteralmente costruita addosso. La volpe che abitava la trappola però diceva, tutta fiera; entrano in così tanti nella mia trappola, sono diventata la volpe migliore di tutte. E anche in questo c’era qualcosa di vero: nessuno conosce le trappole meglio di chi passa tutta la vita in una trappola.
Riccardo Pozzo
Nella casa divenuta trappola
Il Sole 24ore, 23 giugno 2013
Racconta Hannah Arendt in un apologo acutissimo, a metà tra l'ironia e il dramma, la grandezza e insieme il pericolo di un pensatore come Martin Heidegger. E considerando la conoscenza ravvicinata, teorica e affettiva, che aveva di lui, possiamo ritenere assai affidabile il giudizio. Heidegger, spiega Arendt, è astuto come una volpe, animale intelligente e astuto, il cui pensiero e la cui fama continuano ad attirare da ogni parte visitatori ammirati e seguaci devoti nella sua tana. Ma - ecco il problema - questa tana è una trappola, e non tanto perché egli stesso ha scelto - per sé - la trappola come casa. Quando vi si entra, non si riesce più a uscirne: e lui stesso è come incastrato nella sua dimora. Il pensiero heideggeriano, insomma, se da un lato possiede fascino e attrattiva innegabili, dall'altro è una specie di stanza chiusa da cui non ci si può (e addirittura non ci si vuole) più liberare, perché porta inevitabilmente coloro che vi si addentrano a intenderlo come un orizzonte insuperabile, nel quale l'uomo è in certo modo appellato dalla verità dell'essere, e al tempo stesso è irrimediabilmente consegnato all'impossibilità che tale verità gli si possa dare effettivamente.
A questo si riferisce evidentemente Costantino Esposito nel suo nuovo libro apparso da poco nell'Universale Paperbacks del Mulino e intitolato semplicemente Heidegger, quando afferma che non possiamo più continuare a ritenere, nel bene e nel male, Heidegger come il nostro destino (dopo Heidegger, insomma, non sarebbe più possibile pensare questa o quest'altra cosa, perché cadrebbe sotto la sua interdizione eccetera). E ciò per il semplice motivo che dietro tale carattere destinale si nascondono - come sa bene chi si dedica alla ricostruzione storico-critica della filosofia - scelte ben precise, opzioni determinate che segnano tutto lo svolgimento del suo pensiero.
Il suo buon senso ermeneutico permette a Esposito, conoscitore di lungo corso del pensiero di Heidegger, di contestualizzarlo e verificarlo più liberamente di quanto non si faccia di solito, contestando chi pensi di "dover essere devotamente heideggeriani per poter capire Heidegger" oppure "fieramente anti-heideggeriani per poterlo mettere criticamente in questione". Il libretto, che si presenta come una nuova ricostruzione complessiva e rigorosa dell'autore tedesco, riapre le questioni poste da Heidegger in un lunghissimo arco di tempo, dagli anni Dieci ai Settanta del Novecento. E lo fa puntando innanzi tutto sulla messa a fuoco delle radici del pensiero heideggeriano, in primo luogo la radicalizzazione della fenomenologia husserliana, non più come analisi dei vissuti della coscienza ma come l'interpretazione che la vita stessa compie del suo essere, vivendo (assumendo in questo l'impulso dato da Dilthey all'ermeneutica); in secondo luogo la riscoperta del cristianesimo primitivo di Paolo e di Agostino, per il senso dell'esistere umano come finitezza, temporalità e storicità: e infine la nuova interpretazione del pensiero aristotelico, inteso come descrizione di quella motilità strutturale che costituisce l'essere della vita umana come comprensione dell'essere.
Heidegger ha sostenuto che la nostra tradizione metafisica si è compiuta e consumata nell'epoca della tecnica e del nichilismo; e che per cominciare un nuovo pensiero filosofico si deve continuare a pensare quello che resta, impensato, al fondo nascosto della metafisica stessa. Di cosa si tratta? Del fatto che l'essere si ritrae da noi, si rifiuta, si congeda in un'impossibilità che noi dobbiamo assumere come inizio di una nuova donazione, però irrealizzabile. In fondo, un paradosso tipico di una volpe intelligentissima che rischia continuamente di restare intrappolata nella sua genialità.

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