Claudio Magris
Metti una sera a spiegare Nietzsche in dieci minuti
Corriere della Sera, giovedì 13 luglio 2000
In un caffè, a Torino. Nella sala, già in penombra, ci sono poche persone; è quasi l'ora di cena, il pubblico del pomeriggio se n'è andato, più tardi i tavoli saranno occupati, anche sotto i portici. La sera, fuori, è di un blu terso e ventoso, di una trasparenza struggente; una di quelle giornate dalla bellezza perfetta e insostenibile, che fanno sentire come una ferita ciò che la vita potrebbe e dovrebbe essere, ciò che manca. Non è male allora starsene all'interno, in un'aria un po' stantia, guardarsi un po' intorno e leggere con indifferenza i giornali o un libro, frapporli come un paravento tra i propri pensieri o sentimenti e la vita, proteggendosi così dalle promesse non mantenute. Lasciarsi andare a una benevola noncuranza fa bene; non si chiede nessuna felicità e si avverte meno la sua assenza. Se quel paravento tiene, si possono godere, nei giorni che ci sono dati, numerosi piaceri, anche più vivaci dell'ottima birra servita al tavolo; è che ogni tanto arriva uno spiffero dal cuore e allora i conti non tornano, ci si sente per un attimo come i bambini della favola sperduti nel bosco. Un signore fra i quaranta e i cinquant'anni mi si avvicina, chiedendo, garbatamente, se può disturbarmi.
Mi dice che sta leggendo Nietzsche ma che non capisce quasi niente. "Potrebbe spiegarmelo? Ma così, in poche parole - e stringe il pugno - in dieci minuti. Il caffè è un'aula adatta a Nietzsche che, proprio a Torino, amava tanto il Fiorio. Gli rispondo che se mi offre un bicchiere di bianco, ci proverò. Lui ordina due calici di Sauvignon e si siede. Gli dèi mi sono propizi e, diversamente da lezioni o conferenze faticose tenute in altre circostanze, mi accorgo, senza falsa modestia, di riuscire a tracciare, in quei dieci minuti, un accettabile condensato del pensiero nietzscheano, a spiegargli come Nietzsche avesse previsto - esaltandosene e soffrendone - quella trasformazione che oggi sta cambiando la fisionomia millenaria dell'uomo, il nostro essere e la nostra natura, e sta quasi creando una nuova specie, diversa e inquietante. Lui ascolta, prende qualche appunto, annota i libri che gli consiglio (i capolavori sobri e asciutti quali Aurora o La gaia scienza) o di lasciar perdere (l'enfatico e liricheggiante Zarathustra), paga i due bicchieri, ringrazia e se ne va, discreto e, mi pare, soddisfatto. Lo sono abbastanza anch'io. Sono perfino riuscito a parargli del desiderio di Nietzsche di essere un animale marino fra gli scogli; forse, anzi, sui dieci minuti complessivi, ne ho dedicati troppi a questa sua immagine. Chi non vorrebbe essere un animale marino, beato dell'acqua e delle onde, al di qua o al di là del bene e del male, ignaro di nostalgie e appagato del bagliore della luce e delle spume? Certo Nietzsche sapeva esserlo meno di ogni altro e la sera che calava sul mare gli riempiva l'anima di una malinconia indicibile, così come non reggeva alla vista di una bestia che soffriva, nonostante predicasse la spietatezza e dileggiasse la compassione.
Quando non si è capaci di essere quel beato e indifferente animale marino e si soffre quindi il morso della coscienza e della mancata felicità, se si è un genio come Nietzsche si può esprimere questa nostalgia e se invece si è un professore qualsiasi si può commentarla, magari spiegarla al primo che passa, provando una piccola soddisfazione. Ma anche sdottorare serve a tirare avanti, a sopportare una sera. Mi sento grato al mio occasionale allievo e penso che avrei dovuto pagare io i due bicchieri; del resto non c'è insegnante che si rispetti che non senta il dovere di dichiararsi in debito verso i suoi allievi.

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