I comunisti della Resistenza: valorosi, ma da tenere a bada
Decisivi per la Liberazione, fedeli al partito e a Stalin: lo studio diCorriere della Sera, 1 Sep 2025
È destino che in un Paese chiacchierone e rissoso come il nostro dei fatti non importi molto a nessuno. E così non stupisce che spesso i libri degli storici — che per l’appunto si occupano di fatti, di ricostruirli, raccoglierli, e metterli insieme in un ordine significativo — passino inosservati nell’indifferenza generale. È quanto mi pare sia capitato — nonostante una puntuale, precisa segnalazione fattane proprio su questo giornale da Antonio Carioti — al libro di Gabriele Ranzato Eroi pericolosi. La lotta armata dei comunisti nella Resistenza edito da Laterza. Un libro invece importante, molto importante, e dirò subito perché.
Nel nostro Paese, nonostante gli sforzi profusi in questi decenni, la Resistenza non è mai riuscita a diventare realmente il mito fondativo della Repubblica. Anche perciò l’antifascismo, che della Resistenza fu l’ispiratore e il protagonista, non è mai riuscito a guadagnarsi quell’indiscusso prestigio storico-politico che altrimenti avrebbe potuto/dovuto ricavarne divenendo l’anima di una nuova religione civile del Paese. Viceversa in ampi strati della nostra opinione pubblica è sempre rimasto nei confronti della lotta di Liberazione e dei suoi attori un fondo di scetticismo, un’inespressa riserva, non raramente un’aperta diffidenza. Eppure — si dice spesso — non presero forse parte a quella lotta monarchici e liberali, cattolici, socialisti e azionisti, cioè tutto l’ampio spettro ideologico del Paese di allora e dei decenni successivi? Perché mai dunque quella non identificazione di cui dicevo sopra?
Dopo la lettura del libro di Ranzato la risposta non è difficile. Perché è vero che alla guerra di Liberazione presero parte tutti, dai monarchici agli azionisti, ma a dare alla Resistenza il maggior numero di partecipanti (e di caduti, non va dimenticato), soprattutto a definirne i modi della lotta e i contenuti, e dunque a formarne l’immagine pubblica, quella destinata a rimanere stampata nella memoria di tanta gente comune, furono i comunisti. È perciò sacrosanto ricordare l’audacia cospirativa e il martirio del colonnello del Regio Esercito Giuseppe di Montezemolo o l’eroismo senza macchia del cattolico sottotenente Ignazio Vian, ma in realtà, alla fine, la sola cosa che conta è che furono altri i maggiori protagonisti della Resistenza, altri, in misura ben maggiore, a rappresentarne ogni giorno davanti alle popolazioni le idee e i fatti.
Furono appunto i comunisti. Grazie a uno straordinario scavo nelle fonti d’archivio (principalmente la mole di materiale conservato dall’istituto Gramsci) e a una perfetta conoscenza della vasta bibliografia fin qui accumulatasi, Ranzato mette a fuoco per la prima volta con simile documentazione e chiarezza i molteplici aspetti dell’egemonia di fatto che il Partito comunista seppe guadagnarsi nella Resistenza. Ma di conseguenza anche i gravi problemi e le contraddizioni che allora e poi tale egemonia produsse.
Tra le diverse formazioni politiche i comunisti furono quelli che dopo l’8 settembre per primi e con una determinazione che nei due anni seguenti non venne mai meno sostennero la necessità della lotta armata a ogni costo. Anche a costo — specie fino alla primavera del ’44, quando la consistenza delle bande in montagna era ancora troppo debole — di puntare soprattutto sul terrorismo urbano dei Gap (Gruppi di azione patriottica: una formazione unicamente di comunisti e rispondente in pratica solo a quel partito) provocando così le più crudeli rappresaglie da parte di tedeschi e fascisti. Un tema, questo delle rappresaglie, rimasto spesso in secondo piano ma che Ranzato è tra i pochi storici ad affrontare in modo approfondito cogliendone con grande equilibrio la portata drammatica per la popolazione civile (ciò di cui peraltro anche molti dirigenti comunisti si resero conto con preoccupazione, come qui è documentato). E che ancora oggi, come si sa, costituisce uno dei temi centrali per il giudizio di molti sulla Resistenza. Quello del nostro autore è che comunque il terrorismo urbano servì non solo a coinvolgere i centri urbani nella lotta ma anche a mostrare agli Alleati la volontà di riscatto a qualsiasi prezzo che animava il Paese. Pure la scelta di dar vita ai Gap e la loro stretta dipendenza dal partito sono una conferma della principale tesi interpretativa del libro, vale a dire la sostanziale autonomia operativa e strategica che il Partito comunista intese dare fin dall’inizio alla propria partecipazione alla Resistenza, pur curando attentamente di mostrarsi esteriormente ligio alle direttive del Cln.
Un’ennesima conferma, dunque, delle divisioni, delle diffidenze e dei forti contrasti tra i vari protagonisti — dei cui esempi queste pagine abbondano — che
punteggiarono la guerra di Liberazione rimanendo nella sua memoria successiva come un’inevitabile contraddizione rispetto a qualsivoglia patriottica narrazione unitaria di maniera.
La verità, con la quale si può ben capire che l’Italia ufficiale abbia difficoltà a fare i conti — ma non è certo compito degli storici compiacere qualunque ufficialità e il libro di Ranzato ne è una prova —, la verità, dicevo, è che sia gli Alleati che tutti gli altri partiti nutrivano una profonda diffidenza nei confronti dei comunisti. Che nella lotta non si risparmiarono, non risparmiarono abnegazione e sacrifici, si mostrarono appunto degli «eroi». Come qui non si manca mai di ricordare, ma «pericolosi». Pericolosi perché, almeno fino al 25 aprile, quei «ragazzi con il fazzoletto rosso» e i loro capi avevano in mente, sì, di liberare l’italia da tedeschi e fascisti ma al tempo stesso, contando sul potere dei fucili nelle loro mani, anche di cercare in qualche modo di prendere il potere come parte del grande movimento rivoluzionario agli ordini di Stalin. Proposito recondito ma non troppo, condiviso, si badi, non solo da Secchia e da Longo, da «quelli del Nord», ma pure da Togliatti a dispetto del celeberrimo «discorso di Salerno».
Questo libro ce ne offre un’ampia, indiscutibile, documentazione: dal continuo invito a mettere in campo sempre e dovunque la «pressione democratica delle masse», «il potere degli organismi di massa» come ovvi strumenti dell’influenza comunista ogni volta che fosse possibile, all’«impegno dei vertici del Pci rivolto a favorire l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia», alla disobbedienza delle direttive del Cln quando non condivise (vedi il ruolo di comandante militare di Cadorna, in pratica una finzione), alla direttiva sinistra impartita da Togliatti ai suoi il 3 aprile ’45 di attuare «un’epurazione integrale dei fascisti, un’epurazione eseguita dai partigiani e non da una commissione (del Cln) permanentemente in crisi» (con conseguente «epurazione selvaggia» opera quasi sempre di formazioni comuniste), fino all’invito della direzione Nord del partito, dal significato politico fin troppo chiaro, a «fare attiva propaganda nelle formazioni partigiane perché gran numero dei migliori combattenti a Liberazione avvenuta si arruolino nelle file dell’esercito Italiano». Che ne sarebbe stato insomma della Resistenza e di tanti suoi combattenti non comunisti se nella Penisola non ci fossero stati gli eserciti alleati? È lecito chiederselo?
Solo chi non ha un’idea di come funziona una società e la sua memoria può credere che tutto l’insieme di fatti e di propositi di cui è così ricco questo libro non abbia lasciato un traccia profonda nel vissuto e nella memoria degli italiani. Una traccia tanto più profonda quanto più il Paese ufficiale e i suoi corifei si affannavano a rimuoverla. Si spiega così come il rapporto della Resistenza e dell’antifascismo con la causa della libertà e della democrazia — pur così volenterosamente esibito a ogni occasione sulla scena pubblica del Paese — continui però a essere circondato da quelle perplessità e da quella diffidenza che dicevo all’inizio e che il trascorrere del tempo non riesce a cancellare.
Article Name:I comunisti della Resistenza: valorosi, ma da tenere a bada
Publication:Corriere della Sera
Author: Ernesto Galli della Loggia
Start Page:32
End Page:32
Claudio Vercelli
Una liberazione in cerca di identità Novecento «Eroi pericolosi» di Gabriele Ranzato, pubblicato da Laterza. Un’analisi del ruolo e del senso della partecipazione dei comunisti alla lotta armata della Resistenza il manifesto, 18 febbraio 2025
Ci sono urgenze, dettateci dal tempo corrente, che non possono essere eluse. A rischio, altrimenti, non solo di rimanere marginali ma, anche e soprattutto, di risultare anacronistici. In ciò ragionando, non ci riferiamo solo ai rimandi rispetto a quello che fu. Semmai ci richiamiamo al modo in cui si utilizza il passato per trovare qualche riscontro, un addentellato, qualsivoglia confronto o paragone, quindi raffronto, per comprendere il tempo presente.
PER CHI LEGGE QUESTE RIGHE, la Resistenza – le sue speranze, le sue opportunità, soprattutto le sue delusioni – costituisce una sorta di paradigma che da tre generazioni separa quel che si sperava di ottenere dalla rigenerazione generata dalla catastrofica guerra nazifascista ad oggi. In quest’ultimo caso, un’amara considerazione. Partiamo quindi da questa istanza di fondo, a tutt’oggi – come tale – condivisa da molti. Poiché non ci riconduce solo all’antifascismo bensì all’idea di una possibilità, plausibilità, praticabilità di un diverso modo di intendere la società.
Nel copiosissimo profluvio di libri che stanno per colonizzare la nostra attenzione, nell’ottantesimo della Liberazione, si segnala da subito, a modo suo, il vivace testo di Gabriele Ranzato, Eroi pericolosi. La lotta armata dei comunisti nella Resistenza (Laterza, pp. 404, euro 29). Per capirci immediatamente: è un volume impegnativo, pieno di documenti e di rimandi, di riscontri come di analisi. Si tratta quindi, per parte dell’autore, di un esercizio non solo intellettuale, e ancora meno dettato da una qualche immediata esigenza politica. Semmai lo anima il bisogno di dare corpo ed interpretazione a fenomeni storici altrimenti destinati a cristallizzarsi in improvvide rappresentazioni di mera circostanza.
Dietro un tale sforzo, infatti, c’è un lavoro ciclopico. A prescindere dal fatto che se ne accetti i risultati così come li si possa semmai rigettare. Gabriele Ranzato, già docente di storia contemporanea all’Università di Pisa, da sempre si contraddistingue per un approccio non apologetico, celebrativo o liturgico rispetto al passato. La qual cosa non sempre gli ha procurato assensi. Per nulla, posto tutto ciò, è un iconoclasta. In quanto non intende in alcun modo sovvertire, ribaltare, tradire alcunché. Ovvero, qualsivoglia soggetto, tema e quant’altro. Semmai, si pone da sempre il problema del pluralismo di interessi e di attori che animano la storia. Senza per questo stabilire inesistenti equivalenze. Solo per capirci, una volta per sempre: siamo e rimaniamo appieno nel campo antifascista. Che, come tale, è al medesimo tempo composito e complesso. Composito in quanto entrano in gioco, dal 1936 in poi (con la guerra di Spagna), soggetti altrimenti del tutto inediti.
Nella «nazionalizzazione» del Partito comunista durante quella fase, si iscrivono anche le premesse per una prima rielaborazione del legame con Mosca.
IN UNA TALE CONFIGURAZIONE, destinata a variare fino al 1945, conta sempre di più la componente, da sé inizialmente minoritaria, dei «comunisti». Variamente definibili, nel loro essere prodotto non di un’unica matrice bensì di un’evoluzione dei fatti storici. Al pari di un conglomerato di interessi, accomunato dal celebrare la morte di quello che, sulle ingloriose ceneri del 1914, era rimasto della Seconda Internazionale. Tale quindi, poiché non riposava solo ed esclusivamente nell’egemonia bolscevica, come tale destinata a sopravvenire nel mentre. La complessità, invece, ancora una volta, ci richiama all’obbligo di contemperare più variabili in gioco.
Le Resistenze nazionali, a partire da quella italiana, furono nel medesimo tempo molte cose. Tra di loro anche assai contraddittorie. Lo stesso rimando al «comunismo», tra il 1943 e il 1945, aveva significati molto diversi da quelli, a guerra conclusa, altrimenti poi intervenuti. L’autore, partendo anche da questi presupposti, si adopera in una difficile indagine, supportata da una nuova analisi di una miriade di fonti, dell’identità comunista resistenziale. In franchezza, nulla scopre che già non si sappia. Non ci sono, in questo come in altri casi, documenti e depositi omessi. Semmai conta la capacità di comprendere, e reinterpretare, gli echi del passato rispetto alla condizione del presente. Ossia, di capire non tanto quel che fu ma quanto può contare, ad oggi, per ognuno di noi. Ranzato si muove appieno in tale senso. Posto che riconosce all’allora Partito comunista, fino a quel tempo altrimenti soggetto clandestino, una primazia organizzativa, culturale e politica rispetto al resto del partigianato come tale. Così come del campo politico antifascista.
È questo un punto molto delicato. Poiché richiama non solo gli equilibri tra le diverse forze in campo contro il nemico nazifascista bensì l’oggetto stesso della lotta resistenziale. Si tratta di lotta di «liberazione nazionale» oppure anche di altro? Claudio Pavone, a modo suo, ha già risposto ad un tale quesito. Per ciò che gli compete, Gabriele Ranzato aggiunge altre considerazioni. Del tutto verosimili.
Il libro, infatti, si articola su più piani tematici, non a caso distribuiti in dieci capitoli. Ci sono diversi passaggi che si intersecano ripetutamente. Il primo di essi rimanda al problema del ricorso alla violenza, ossia alla lotta armata. Non è solo un persistente dilemma morale, che peraltro accompagna tutta la lotta di Liberazione, bensì un rimando alla questione – in sé già allora chiara alla dirigenza comunista – del transito dalla clandestinità ad una «illegalità di massa» che avrebbe dovuto spezzare il monopolio della forza detenuto dai residui del vecchio regime. Segnatamente, non solo quello fascista ma anche ciò che risultava legato a quel che rimaneva del potere regio.
Centrale il tema del ricorso alla violenza: il transito dalla clandestinità ad una «illegalità di massa» che spezzasse il monopolio della forza detenuto dai residui del vecchio regime
La questione del ricorso collettivo alle armi, al di là delle suggestioni di circostanza, era quindi piena di conseguenze. Poiché era chiara la consapevolezza che qualcosa di nuovo, in quelle circostanze, sarebbe comunque nato. Ma la piena egemonia sui transiti di sovranità – il comunismo storico demanda da sempre a questo transito cruciale, dal 1917 in poi: quel che sopravviene, sarà più capace e abile di ciò che, nel mentre, si inabissa? – costituiva un vero punto interrogativo. Non a caso, ed è il secondo passaggio da prendere in considerazione, il rimando è a quanto richiama l’azione politica clandestina, che aveva comunque garantito ai comunisti un qualche radicamento, sia pure ancora in parte marginale, nell’Italia altrimenti fascistizzata. Tutto ciò in un irrisolto connubio, che attraversa i novecenteschi movimenti di liberazione nazionale: quello che intercorre tra esercizio politico e attività militare.Il tema del «partito armato», come tale suggello di una nuova società
a venire, si integra, surclassando i nazionalismi borghesi, con le suggestioni, all’epoca comunque assai diffuse, di una rottura dell’ordinamento liberale. Beninteso, non è una questione dei soli comunisti: è semmai la sponda che permette di andare oltre i clamorosi fallimenti della Seconda Internazionale, sospesa tra sterile legalitarismo, oggettiva inanità, sopravvenuta impotenza come anche, e soprattutto, di una completa mancanza di intenzione rispetto ad un plausibile, nonché potenziale, progetto politico a venire. I nazionalismi radicali, a quel punto, non a caso si trasformano in fascismi oppure in bolscevismo. Punto e a capo. Poiché c’è un’irrisolta linea di continuità tra l’identitarismo nazionale e (quel che ad oggi, in maniera fallace, si ripresenta dinanzi ad ognuno di noi) rivendicazionismo sociale. Quest’ultima, beninteso, non un’affermazione che appartenga a Gabriele Ranzato. Semmai è quanto deriva al suo recensore. In quanto l’antinomico ed irrisolto nesso tra internazionalismo proletario e identità soggettiva, sia nazionale che sociale, costituisce un conflitto a tutt’oggi irrisolto. Il comunismo storico, suo malgrado, non è mai riuscito a trovare, rispetto ad essa, una soluzione accettabile. Anche per ciò, precipitandovi e quindi estinguendosi. A conti fatti, allora, si tratta comunque di un problema che rimanda anche al nostro oggi. Poiché oltre ad essere una questione bellica, ossia di armi, la Resistenza diveniva per Togliatti, ed i suoi uomini, l’occasione per uscire non solo dalla clandestinità ma soprattutto dalla minorità politica che aveva invece connotato l’intera traiettoria del Partito comunista d’Italia fino al 1943.
ANCHE IN UN TALE QUADRO di «nazionalizzazione» del comunismo italiano si inscriveva quindi la rielaborazione del legame con Mosca.Non era ancora, per nulla, un’autonomizzazione, all’epoca del tutto impensabile. Ma poneva alcune premesse che sarebbero poi, nel mentre, sopravvenute. Per quindi imporsi, nei fatti. In Italia e non solo. Togliatti e la Resistenza comunista condividono pertanto una consapevolezza fondamentale (allora come nell’oggi): il lavoro politico non è l’omologazione ad un canone ma la comprensione dicome si possa far transitare le intere collettività dalla passività, e dall’omologazione, ad una qualche forma di consapevolezza di sé. Valeva per il tempo che fu. Vale, a conti fatti, per l’oggi. Oltre tutto ciò, altrimenti, c’è la morte civile. Il vero campo del
fascismo di sempre.

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