Angela Calvini
La vita di Etty Hillesum affronta l'Olocausto di oggi
Avvenire, 2 settembre 2025
Moderna, misteriosa, contraddittoria, coraggiosa e sfuggente, affascinante per milioni di lettori dei suoi Diari pubblicati solo nel 1980: Etty Hillesum è un personaggio complesso da adattare nella sua profondità ad un’opera filmica e nella titanica impresa si è cimentato il regista israeliano Hagai Levi presentando oggi alla Mostra del Cinema di Venezia la sua Etty, serie tv in sei puntate di un’ora circa ciascuna.
Occorreva uno sguardo diverso dal solito e contemporaneo, ha spiegato il regista e sceneggiatore della serie oggi al Lido, per avvicinare il pubblico di oggi al tema dell’Olocausto trasportando l’azione dalla Amsterdam del 1941 ai giorni nostri, come se la Seconda Guerra Mondiale si svolgesse ora e i nazisti dominassero adesso l’Europa (ma è così poi lontano questo spettro?) e oltre agli ebrei se la prendessero pure con gli immigrati. Per questo fa ancora più impressione vedere una studentessa come Etty (l’espressiva Julia Windischbauer), maglietta, jeans e zainetto, cacciata da una farmacia perché ebrea in una spirale sempre più claustrofobica che porta cittadini come noi alla perdita dei diritti e alla deportazione nei campi di concentramento. «Le immagini dell’Olocausto sono risultate molto vivide a partire da 7 ottobre, quando improvvisamente abbiamo visto famiglie nascoste in un armadio, famiglie uccise. E due mesi non si poteva non rivedere l’Olocausto nelle immagini da Gaza. I temi della serie sono collegati a quanto sta accadendo, con i discorsi di Etty contro l'odio, ma racconta anche la disumanizzazione delle persone, della vita umana, per vederle solo come nemico» dice Levi che attacca il “regime” di Nethanyau e difende i tanti israeliani che manifestano contro di lui nella «speranza che le cose possano cambiare».
La serie ha un taglio psicanalitico (d’altronde la serie HBO di successo In Treatment nasce dalla sua serie israeliana BeTipul): questa Etty ha il passo lento di una lunga seduta psicanalitica all’inizio quando si sviluppa il suo rapporto di profonda comprensione e amore con lo psico-chirologo e mentore Julius Spier (l’intenso Sebastian Koch). Sceglie lo stile bergmaniano Hagai Levi, (che ha rifatto per la tv Scene da un matrimonio di Bergman) per raccontare il risveglio dell’anima di Etty riversato in un flusso di coscienza sui suoi diari. La ragazza che non sapeva inginocchiarsi, come si definiva, inizia un viaggio mistico nei suoi paesaggi interiori resi visivamente attraverso immagini poetiche di campi di grano, immense praterie o ghiacciai, «il cielo dentro di me» scriveva, che accompagnano le sue parole. Talora a contrasto con la durezza delle sue scelte di vita (vedi il disperato aborto alla vigilia dell’entrata nel campo di smistamento nazista). I diari da sfogo terapeutico diventano man mano autentica ricerca di senso per trovare la forza necessaria a superare tempi sempre più cupi e terribili, rivolgendosi a un misterioso Dio interiore. «Il libro mi è stato consigliato dal mio terapeuta, stavo attraversando un periodo difficile della mia vita, e quel libro mi ha aiutato e cambiato la vita» ha spiegato Levi raccontando una gestazione durata 12 anni. «Ho intravisto come si può affrontare un momento di difficoltà guadagnando autonomia forza interna. Ti consente di avere l’idea che nulla ti può essere tolto anche se ti tolgono tutto».
Ma chi è questo Dio? Glielo chiede dritto nello scambio più intenso nella quinta puntata l’amico Klaas Smelik che tenterà per anni di far pubblicare i suoi diari. Etty gli risponde che non è il Dio della religione ma un “buco” dentro di se che la porta ad elevarsi dalla paura e dalla sofferenza per dedicarsi all’altro. Uno scambio potente, ma sarebbe limitativo ridurre alla mera psicanalisi quel coraggio di Etty, ebrea non praticante che rifugge il Dio degli eserciti della Bibbia per avvicinarsi a un Dio che è dentro l’uomo, un Dio di misericordia che l’ha fatta così amare anche dal mondo cristiano. Solo così possiamo meglio comprendere il suo sacrificio d’amore quando sceglie di farsi mandare a lavorare nel campo di smistamento di Westerbork come membro del Comitato ebraico per confortare i deportati, consapevole di essere a rischio della vita. Da lì, infatti, nel 1943 fu mandata nei campi della Polonia con tutta la famiglia, morendo a Auschwitz il 30 novembre 1943 alla vigilia dei suoi trent’anni. Nelle note di regia Levi però rivela e chiarisce: «Sono cresciuto come devoto ebreo ortodosso. A vent’anni ho lasciato quel mondo con forza, con violenza, abbandonando le domande su Dio, la fede e il senso della vita. Ho cercato di colmare il vuoto e la depressione che ne sono derivati con lavoro, ambizione, successo; per lo più invano. Hillesum offriva un’altra opzione: una religiosità diversa, un nuovo senso della fede, al di là della religione istituzionale».
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