sabato 2 agosto 2025

Una sentenza fuori stagione


Flavia Perina
Cpr in Albania, riparte lo scontro tra diritti e propaganda

La Stampa, 2 agosto 2025

L'emergenza immigrazione, quella con la grancassa, è ormai un ricordo abbastanza lontano perché la sentenza della Corte europea sui cosiddetti Paesi sicuri suoni come l’eco di un’altra epoca, una vecchia questione di principio irrisolta – chi ha il diritto di stabilire le regole delle espulsioni? – più che un verdetto legato alle cronache dell’attualità. Il sito del Viminale aggiorna quotidianamente il bollettino degli sbarchi, anche se nessuno lo guarda più. Nel 2025 sono stati poco più di 36mila, quota modesta rispetto alla stagione del grande allarme, il 2023, quando furono 90mila: una cifra utile alla destra, che aveva appena vinto le elezioni cavalcando quel tema, per decretare l’avvio di un nuovo corso. Fu subito stato d’emergenza nazionale, e poco dopo il protocollo Italia-Albania suggellò l’idea di rimpatri immediati dei clandestini, senza nemmeno una sosta sulle coste italiane. Due anni dopo si può dire senza tema di smentita che l’operazione è finita male. Ma insieme ad essa sembra affondato anche l’oggetto della contesa, quella sensazione di urgenza e catastrofe legata al tema immigrazione che ha dominato il dibattito italiano per un decennio.

Oggi l’occupazione e il benessere del Paese hanno altri nemici, dall’apparenza ben più solida di qualche migliaio di clandestini comunque destinati al rimpatrio, anche se con le consuete lungaggini della procedura. Due guerre, i dazi americani, la probabile perdita dello 0,5 del Pil, impegni enormi da prendere per la difesa europea, un disastro umanitario a un’ora di volo da Roma che turba le coscienze dell’intero Occidente. Nessun sondaggio pone più l’immigrazione in cima alla classifica dei problemi che angosciano l'opinione pubblica. I tentativi dell’estremismo di rilanciare la nostra piccola guerra tra poveri con la bandiera della remigrazione sono finiti in convegno con qualche centinaio di mezzi matti in platea. La stessa destra non ha più alcun interesse a trasformare ogni sbarco in allarme rosso: ora che è al governo preferisce mostrarsi padrona delle cose.

Senza l’impianto semi-carcerario di Gjader, insomma, gli italiani come ogni altro europeo avrebbero potuto attendere senza perdere il sonno l’entrata in vigore dei nuovi protocolli europei sulle espulsioni, che in teoria potrebbero “riabilitare” l’operazione del governo. Ma Gjader c’è. La sua costruzione va giustificata. È la scelta di un altro momento politico, di un’altra fase e di un’altra storia, e tuttavia è stato costruito, è stato aperto, si è provato a farlo funzionare con ostinazione in un andirivieni di disperati, e poi lo si è chiuso e di nuovo e riaperto e trasformato in Cpr fuori dai confini nazionali. Gjader è un guaio di cui non ci si libera, e il solo modo di esorcizzarne il fantasma di filo spinato è dire: colpa dei giudici (nazionali ed europei) se non funziona come dovrebbe.

Questo è il punto a cui siamo. Un punto in cui l’emergenza sbarchi non è più in graduatoria ma se ne continua a litigare perché serve da bandiera identitaria delle parti, e forse da piattaforma polemica per il futuro scontro referendario sul tema della giustizia. I tifosi di destra e di sinistra sugli spalti diranno: è così che si fa politica, difendendo le proprie bandiere e infangando quelle degli avversari. Magari è vero. Ma resta il dubbio di una faida per inerzia, ultima coda della stagione in cui milioni di italiani furono indotti a credere che la mancanza di lavoro, di case, di ospedali e di asili, la precarietà e gli stipendi miserabili fossero colpa di quelli là, dei clandestini invasori.

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