Esiste l'architettura fascista? L'Italia e il travaglio della modernità
Esiste una “architettura fascista”, ossia un linguaggio e spazi che possano essere identificati in modo univoco con il Ventennio? O, meglio ancora, esiste una architettura che incarni l’ideologia fascista? Si sente spesso parlare di “stile littorio”. E ci sono siti web che, con il pretesto di raccogliere un repertorio del costruito finiscono per tradursi in una apologia del committente.
Gianni Biondillo, architetto di formazione e scrittore di professione tra libri e tv, sul tema ha pubblicato per Marsilio (pagine 320, euro 19) La costruzione del potere. Il titolo, in tutta onestà, è fuorviante. Molto meglio il sottotitolo “Perché l’architettura fascista non esiste”. Si tratta di un saggio narrativo, scritto in prima persona con uno stile piacevole – che tende a scivolare nell’ammiccante (“E Piacentini che sta facendo? Be’, come al solito, sta tramando nell’ombra, come Darth Vader”) – e con due limiti: mancano le note e un apparato fotografico, al quale non possono sopperire le abbondanti ecfrasi. Per fortuna, il libro ha ben più numerose virtù. A parte qualche figura sottorappresentata, come Moretti, è un racconto ampio, articolato e appassionato dell’avventura – e della tragedia – dell’architettura italiana in decenni cruciali. Biondillo costruisce il discorso per temi e problemi, con un andirivieni cronologico che invece di frastornare rende ben chiara la densità e la complessità di un’epoca che ha prodotto capolavori, tanta buona architettura e anche molta mediocre. Terragni, Pagano, Piacentini sono i veri protagonisti (geniale e ingenuo il primo, tragico il secondo, meschino il terzo), attorno a cui ruota tutta la vicenda, ossia il volo di Icaro del razionalismo. Ma soprattutto è in grado di far emergere un’intera generazione irripetibile, comprese figure minori o quasi sconosciute: bellissimo, ad esempio, il capitolo su Angiolo Mazzoni, una sorta di Zelig dell’architettura che forse meglio di tutti chiarisce cosa significasse costruire durante e per il fascismo. Così come sono riuscite le pagine dedicate alle città di nuova fondazione e l’Eur (smontandone i miti) o sulle case popolari, osservando quanto il fascismo fosse stato nemico dell’urbanesimo, salvo conversioni di facciata utili alla propaganda. O ancora quelle sulle colonie marine e montane.
In sintesi, Biondillo dimostra che non c’è “architettura fascista” ma solo architetture realizzate durante il fascismo, il quale non promosse né produsse mai uno stile proprio o preferenziale. Almeno fino alla sbornia imperiale: ma anche allora non costruì davvero in modo diverso dal resto d’Europa. Il razionalismo fu accettato quasi controvoglia, ma soprattutto fu apertamente osteggiato da settori della gerarchia alla lunga vincenti. Il fascismo costruì in tutti gli stili possibili, senza un metodo e ponendosi forse solo un problema di registro che investiva tipologia di edificio e vistosità del cantiere, come bene racconta la triste storia della casa littoria di Roma, vera caporetto del razionalismo. Perché il fascismo non sviluppò un gusto (come invece, osserva Biondillo, seppe fare il modernismo) ma pensò solo in termini di stile. Come in un catalogo di mobili a basso costo.
Alla base del libro, naturalmente, c’è il problema dello status di questi edifici all’interno del nostro paesaggio. Una eredità che l’Italia democratica e repubblicana, in realtà, ha saputo gestire bene – Biondillo conclude in modo esemplare con il caso Bolzano – ma che resta comunque scomoda perché pronta a essere manipolata da una parte e dall’altra in un’epoca che fatica a gestire serenamente l’idea di storia. In ogni caso, questa architettura resta un oggetto perturbante. Forse, ciò che rende così ostico guardare in questo specchio opaco, è che l’Italia si è trovata ad affrontare il travaglio della modernità per opera dell’ostetrica del fascismo. Possiamo scegliere? Dobbiamo prendere tutto? Il fatto è che lo stesso regime per anni non ha scelto, proprio perché il primo a non scegliere fu il Duce, il quale non amava per nulla l’architettura. Il fascismo, opportunista e utilitarista, non si appoggiò a un manifesto o a una teoria che obbligasse a una ortodossia estetica. Questo ha fatto sì che ci fosse spazio per tutti. Convinti, conniventi, carbonari. C’è chi cavalcò in sella, chi si nascose nel ventre del cavallo, chi pensò di poterne deviare e rettificare il tragitto. La forza ambigua del fascismo è stata a lungo quella di contenere molte anime e altrettante illusioni. Forse noi, più che fare una cernita, possiamo solo discernere.


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