Andrea Malaguti
Tenere vivo il senso dell'orrore
La Stampa, 24 agosto 2025
In redazione guardiamo i filmati e le fotografie che arrivano a centinaia da Gaza. Le lasciamo scorrere sul video dei computer in silenzio. «Sono quadri di Caravaggio», dice una collega. Le macerie, la sabbia, la luce violenta, un formicaio di esseri umani spinti verso il nulla. Gli occhi senza espressione, i vestiti a brandelli e i corpi scheletrici di chi vive in fuga, senza cibo, senza acqua, senza elettricità. Senza.
Ecco, i palestinesi sono un popolo senza. Derubati di tutto. Dall’anima alla dignità.
A La Stampa temiamo il giorno in cui quelle immagini smetteranno di farci effetto. Di scandalizzarci. «Oportet ut scandal eveniant», «È necessario che gli scandali avvengano», recita il vangelo di Matteo. Dobbiamo tenere vivo il senso dell’indignazione, mentre vaghiamo come sonnambuli in cerca di rimedi. «Non si può ricordare qualche cosa a cui non si è pensato e di cui non si è parlato con sé stessi», dice Hannah Arendt, indicando un piccolo dovere da assolvere quotidianamente. Gaza e Kiev, dove saltano in aria le vite e i palazzi. Dove i missili di Putin distruggono uomini e cose senza sosta, per poi permettere al Dittatore russo di presentarsi in posti come Anchorage a spiegare quanto sia «addolorato per quello che succede a un popolo fratello». Come se non fosse lui a premere il grilletto.
E fa sorridere, se si è capaci di sorridere anche delle tragedie, pensare alla tronfia goffaggine con cui Donald Trump, dopo aver invocato per sé il Nobel per la pace, dice alla radio: «Netanyahu è un eroe di guerra, perché lavoriamo insieme. E credo di essere un eroe anch’io».
Eroi di guerra indifferenti agli strascichi granguignoleschi delle loro scelte.
Certo, si possono fare analisi più raffinate di questa, che è piuttosto una riflessione-sfogo. Un modo per tenere gli occhi su chi paga i costi della follia e non su chi la produce. Ma è difficile trattenersi dopo avere scoperto da un’inchiesta del Guardian che l’83% delle vittime della Striscia sono civili. Dopo che il portavoce dell’Onu ha implorato il governo israeliano di entrare a Gaza dove c’è una carestia «indotta», parola gelida che significa voluta, scelta, imposta, calcolata. E dopo che la miliardesima agenzia ci dice: «Raid israeliano a Gaza, 61 morti, 4 bambini». A decidere per tutti è la furia sterminatrice del primo ministro di Israele e delle sue Menadi assetate di sangue, Smotrich, Katz, Ben-Gvir. «Distruggeremo Gaza City». Come può non esserci vergogna in chi pronuncia la parola distruggere?
«Lo scorso anno Netanyahu citò un passo dell’Antico testamento. Mentre il popolo scappa dall’Egitto, donne e bambini che sono in fondo alla carovana sono assaliti e uccisi dagli amalechiti. Allora la voce di Dio chiede di distruggere tutti i discendenti di Amalech: donne, bambini, anziani, pecore, asini, villaggi. Se questo è il tuo punto di riferimento è inutile che ci stupiamo di ciò che accade».
Per schiarirmi le idee ho chiamato al telefono Gustavo Zagrebelsky (a cui devo buona parte delle riflessioni di questo articolo), intellettuale, giurista, già presidente della Corte costituzionale, una delle poche coscienze critiche di questo Paese. «Penso a me stesso e so che a Gaza non resisterei un giorno. Mi ammazzerei. La lotta per il cibo, i trasferimenti continui, le umiliazioni di ogni genere. La violenza peggiore è la sottrazione del futuro. Purtroppo, sappiamo che la storia umana è dominata dall’uso della forza. Quando questa produce orrori troppo grandi c’è una sorta di risveglio. È successo anche dopo la Seconda guerra mondiale. Poi, piano piano, ci si riaddormenta. La crisi delle grandi istituzioni internazionali è generata dal riemergere di forze non controllabili dal diritto». E dunque? «Dobbiamo mantenere vivo il senso dell’orrore, domandandoci contemporaneamente quali sono le condizioni che rendono il Diritto efficace». Avere valori condivisi? «Ad esempio. E poi io faccio l’elogio delle anime belle. Che rispetto alle anime brutte hanno un grande vantaggio morale: non servono a niente ma non aumentano il dolore del mondo». Il Diritto internazionale sepolto con i gazawi e gli ucraini. Umiliato dal mancato rispetto degli ordini d’arresto per Putin e Netanyahu, dalla restituzione di Almasri alla Libia. Ma rivendicato quando si è trattato, giustamente, di riconsegnare alla Germania l’agente segreto ucraino accusato del sabotaggio dei gasdotti russi Nord Stream.
«L’Europa e l’Italia belano ma non fanno. D’altra parte, l’esigenza è quella di non disturbare l’alleato americano. Io però scommetto ancora su questa opinione pubblica scandalizzata. Non può essere lasciata senza risposte e di certo non si metterà a tacere di fronte a proposte demenziali come quella di agire entro 24 ore per difendere gli ucraini dopo una pace eventuale. In guerra gli automatismi sono solo prova di infantilismo». Lei ci crede alla pace, professore? «Sarebbe un discorso molto lungo. Mi limito a dire questo: il soffocamento di una guerra non è necessariamente pace. Più spesso è sopraffazione».
Citando Bobbio, siamo tornati ad una fase ferina della storia. È nel 1600 che gli uomini, con Ugo Grozio e il suo De iure belli ac pacis, scoprono la necessità del Diritto internazionale come strumento di regolamentazione dei rapporti tra Stati. E poi, dopo la carneficina delle grandi guerre novecentesche, persino il bisogno della difesa dei diritti umani, di limiti che non si possono superare.
In questa nuova era barbarica l’unica regola che conta è quella della violenza, spacciata per soluzione rapida delle controversie. Siamo tornati a prima del 1600.
Ma non era la diplomazia “trumputinana”, dopo l’oscura presidenza Biden, che ci doveva tirare fuori dalla fossa dei serpenti in cui ci aveva trascinato il delirio buonista-progressista del mondo woke? Si continua a morire. Più di prima. Peggio di prima. Ma a Mar-a-Lago e alla Casa Bianca si ingrossa la fila dei bacia-terga. Eppure lo stato delle relazioni transatlantiche è al minimo storico. L’Europa si lascia strangolare. Accetta di comprare in tre anni 750 miliardi di risorse energetiche che non è in grado di sfruttare e dice sì a 600 miliardi d’investimenti strategici che serviranno alle industrie belliche e al debito pubblico statunitensi. Siamo sotto ricatto. Ma diciamo che sono accordi. Che è la Realpolitik. Che non si può fare diversamente. Probabilmente non si può. Allora, per ricominciare da zero, bisognerebbe avere il coraggio di dirlo assieme a Mario Draghi: «Per anni l’Unione europea ha creduto che la dimensione economica, con 450 milioni di consumatori, portasse con sé potere geopolitico e potere nelle relazioni commerciali internazionali. Il 2025 sarà ricordato come l’anno in cui questa illusione è evaporata».
Lo ha scritto su queste colonne Gabriele Segre: l’egemonia è la capacità di dettare il ritmo del tempo e l’Occidente, per decenni, ha imposto il proprio all’intero pianeta. Oggi non è più così, ma la politica ha il dovere di cercare strade (sanzioni, accordi tra Paesi omologhi, debito e difesa comune, fisco condiviso), prima che svanisca l’indignazione dell’opinione pubblica, unico custode del residuo valoriale che ancora ci unisce. Prima che le foto di Gaza e i morti di Kiev smettano di farci effetto. Prima che i nostri occhi e le nostre menti diventino cieche. La politica o è progettualità o è danno. «Libertà, democrazia e pace vanno continuamente rigenerate», ha spiegato il presidente Mattarella al Meeting di Rimini. Ha ragione. Il senso pratico deve accompagnarsi a quello morale. Non esiste l’uno senza l’altro. Al momento, latitano entrambi mentre gli esseri umani diventano solo fuoco e ferro.

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