Senza
idee né identità, la scuola ascolti Cacciari
Gianni Oliva, La Stampa, 4 agosto 2025
Mali aggrovigliati di una scuola senza identità. Massimo Cacciari ne ha tracciato un profilo giustamente severo su La Stampa di ieri, descrivendo un sistema oppresso dalla burocrazia e ingessato in un metodologismo astratto, dove il successo formativo si misura solo sulla percentuale di coloro che finiscono il corso negli anni previsti e dove lo Stato abdica alla sua funzione politica essenziale, quella di investire nella formazione. Difficile non concordare con il pessimismo che emerge dalle sue riflessioni.
Nella deriva della nostra scuola ci sono tuttavia passaggi che richiamano a precise responsabilità politiche. Il primo, di carattere generale, è il “sessantottismo”, cioè la riduzione di ciò che erano state le rivendicazioni del ’68 a “volgarizzazioni” sin troppo semplicistiche. Contestare il classismo del sistema, la selezione fondata sulle origini sociali, l’algida distanza tra “cattedra e “banchi”, così come fece don Milani nella Lettera a una professoressa, significava porre al centro dell’attenzione il tema della “scuola e del “sapere” per lanciare la sfida di un modello di istruzione nuovo: i figli bocciati dei contadini appenninici, raccolti a Barbiana, studiavano in una dimensione di gruppo anziché nella competizione per il voto più alto; imparavano l’italiano attraverso il linguaggio della Costituzione o dei quotidiani, anziché nelle pagine del Manzoni; applicavano la matematica calcolando le voci delle buste-paga, il valore d’acquisto dei salari, l’andamento dei prezzi. Barbiana non poteva e non voleva essere una risposta ai problemi, ma era uno spunto per cominciare a porsi domande e cercare soluzioni al modello gentiliano, che allora era vecchio di mezzo secolo (e oggi di ben 102 anni, visto che fu varato nel 1923). I movimenti che in quella stagione occuparono università e istituti superiori erano l’espressione di un disagio che proprio Lettera a una professoressa aveva reso esplicito.
La politica non seppe o non volle rispondere: anziché una riforma del sistema formativo, furono via via “tolti dei pezzi” all’esistente, sgomberando il campo dai motivi di maggiore frizione. È nata così la liberalizzazione degli accessi alle università, con il risultato di facoltà all’improvviso investite da numeri decuplicati di iscritti, costrette ad immettere in cattedra senza selezione docenti giovanissimi, spesso privi della preparazione necessaria (e destinati a “bloccare” le carriere universitarie alla generazione immediatamente successiva); è nata così la maturità con due scritti e due orali (su quattro materie sorteggiate), con il risultato che nell’ultimo anno nessuno studiava le discipline non caratterizzanti; è nata così la progressiva sostituzione delle interrogazioni orali o degli elaborati scritti con i test a crocette, che hanno come effetto immediato la disabitudine all’elaborazione organica del pensiero. Colpa del ’68 e delle sue degenerazioni? O non piuttosto colpa della classe dirigente della Prima Repubblica, incapace di essere davvero “classe dirigente” e, dunque, di elaborare un progetto nuovo anziché smantellare l’impianto vecchio? Inutile ripercorrere le conseguenze di tutto questo: sono sotto l’occhio di chiunque abbia dimestichezza con la scuola (come docente, studente o genitore).
Un secondo passaggio chiave è stata la riforma delle “tre i” (inglese, impresa, informatica), o riforma Moratti, varata nel 2003 (anche se i ritardi nei decreti attuativi e i cambi di maggioranza hanno impedito che il percorso si realizzasse per intero). L’idea di fondo era preparare i giovani in funzione del loro inserimento nel mondo del lavoro: tanta informatica, perché è il fondamento della nostra contemporaneità tecnologica; tanta impresa, con i suoi valori di efficientismo, tagli degli sprechi, flessibilità, crescita; alternanza scuola-lavoro, per abituarsi alla realtà verso la quale ci si prepara. Si trattava di etichette buone per la campagna elettorale, inventate senza fare i conti con la realtà (dove sono i laureati in informatica pronti ad andare ad insegnare a 1.400 euro al mese? Perché un imprenditore dovrebbe organizzare in modo serio l’alternanza, distaccando a sue spese qualche dipendente come formatore? Che cosa significa, nel concreto, educare all’efficientismo o alla flessibilità?). A parte ogni considerazione tecnica, è questo lo scopo della scuola? Preparare al lavoro? Non è invece quello di preparare i giovani a inserirsi nella società, che certamente è fatta di lavoro, ma prima ancora di conoscenze, di consapevolezze, di curiosità intellettuali, di responsabilità sociali? Che, cioè, è fatta di “cultura”? Anche in questo caso i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la riforma delle “tre i” ha smantellato l’istruzione umanistica senza sostituirla con altro. Meno storia, meno filosofia, meno italiano, «un’infarinatura di impressioni generiche» (come la chiama Cacciari). E l’unica “i” davvero essenziale, l’inglese, continua ad essere lingua straniera, anziché essere insegnata sin dalle elementari come “lingua 2”. Semplicemente, oggi si fa “meno” quello che prima si faceva “un po’ di più” (al netto delle doverose eccezioni, perché, nel marasma della scuola, ci sono ancora docenti che mantengono la “barra dritta”!).

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