Nel
corso della Grande Guerra, al fronte, in prima linea, la morte era un
evento banale. Non parliamo del primo soldato caduto, che suscitava
una particolare emozione tra i suoi compagni. Parliamo di ciò che
accadeva quando la permanenza al fronte era diventata un fatto
abituale. Nel caso di un assalto, i morti in un solo giorno potevano
anche essere centinaia o addirittura migliaia; furono 22mila i
soldati britannici caduti il primo luglio 1916, nella battaglia della
Somme. Si sa che i grandi numeri alla fine lasciano sussistere un sentimento di indifferenza; commuove di più l'evocazione di un singolo dramma che non lo snocciolamento di cifre che racchiudono e cancellano al tempo stesso una molteplicità indistinta di storie individuali. Tuttavia anche i morti a migliaia della Somme hanno trovato uno storico capace di restituire la gravità del massacro. Nel suo fondamentale saggio Il volto della battaglia, John Keegan ha scritto: "Si era però trattato di una enorme tragedia umana. I tedeschi che avevano schierato contro gli inglesi sul fronte della Somme una sessantina di battaglioni [...] avevano avuto seimila perdite tra morti e feriti. Certo non erano poche, ma l'entità della tragedia va vista nell'enorme disparità tra le loro e le perdite inglesi [...]. In totale, gli inglesi avevano perso circa sessantamila uomini, di cui ventimila uccisi durante la prima ora di attacco, fors'anche durante i primissimi minuti. "Le trincee", scrisse Robert Kee cinquant'anni dopo, "furono i campi di concentramento della Prima guerra mondiale"; e benché l'analogia sia di quelle che un accademico definirebbe "antistoriche" è indubbio che in quasi tutte queste testimonianze sul 1° luglio vi sia qualcosa che ricorda Treblinka: le lunghe, docili file di giovani infagottati nelle divise, gravati di fardelli, con un numero al collo, che avanzavano in un paesaggio sconvolto verso lo sterminio che li attendeva tra i reticolati. I resoconti della battaglia della Somme risvegliano, nei lettori e negli ascoltatori, emozioni assai simili a quelle destate dalla corsa alla morte ad Auschwitz - fascino frammisto a senso di colpa, incredulità, orrore, disgusto, pietà e collera -, e ciò non soltanto nel pacifista dal cuore tenero, e neppure soltanto nello storico militare [...], ma anche nei militari di professione". Libro pubblicato nel 1976. Sessant'anni dopo il terribile evento. Il tempo non ha cancellato lo scandalo.
Detto questo riguardo ai massacri, resta il fatto che la morte dei singoli nelle memorie e nelle testimonianze di guerra come nei romanzi lascia le tracce più impressionanti. Più che le distese di cadaveri, la visione di un singolo corpo straziato e repellente. Più che l'anonima scomparsa di tanti, la perdita di una persona cara o di un riferimento prezioso.
Uno scrittore che si segnala per la sua rappresentazione atroce della morte è Henri Barbusse. Egli non è mai tenero nel descrivere i cadaveri, c'è in lui un certo compiacimento nel soffermarsi sul tema. Il suo voleva essere un romanzo di denuncia, egli voleva sicuramente mostrare la guerra in tutto il suo orrore. Certamente ha esagerato. Quello che ha prodotto è una visione espressionistica della realtà, non una descrizione attenta e consona. Prendiamo un esempio. Il soldato Poterloo sta andando alla ricerca del suo villaggio e della sua casa dietro le linee tedesche. A un certo punto si imbatte in due cadaveri:
E quello cos'è? Una pietra miliare? No, che non lo è: è una testa, una testa, una testa nera, conciata e spelacchiata- La bocca è tutta storta, e ai lati si vedono i resti dei baffi: sembra la testa di un grosso gatto carbonizzato Il resto del cadavere - un tedesco - è sottoterra, sepolto in verticale.
"E questo?". È una lugubre composizione, formata a un capo da un cranio tutto bianco e all'altro, a due metri di distanza, da un paio di anfibi: in mezzo c'è una catena di cinghie sfilacciate e di stracci cementati da fango scuro.
L'intento polemico o la provocazione appaiono più chiari quando il morto è un personaggio noto del romanzo e non una figura anonima incrociata di sorpresa. ll caporale Bertrand nel romanzo rappresenta un decisivo punto di riferimento, la guida spirituale. Esprime tra l'altro il punto di vista dell'autore, è un suo alter ego: "Queste cose le ho sempre pensate", mormoro. "Ah!", fa Bertrand. Il caporale viene raffigurato come una sorta di monumento in carne ed ossa: "se ne sta sempre un po' appartato, ritto e zitto, la bella faccia volitiva dallo sguardo penetrante". [...] La posa tranquilla di quell'uomo che guarda davanti a sé e pensa, è statuaria e mi colpisce".
Ed ecco ora l'immagine dell'eroe morto:
E così [Volpatte] va e viene, spinto verso i morti da una strana curiosità. Indifferenti, quelli se lo rimpallano l'un l'altro, e lui guarda per terra a ogni passo. All'improvviso lancia un grido d'angoscia. Ci chiama con la mano e si inginocchia accanto a un morto.
"Bertrand!".
Siamo colti da una commozione profonda, acuta. Ah!, è stato ucciso anche lui che con la sua energia e la sua lucidità riusciva a dominarci meglio di chiunque altro. Si è fatto uccidere, ha finito per farsi uccidere, a furia di far sempre il suo dovere. [Un personaggio così esemplare non può morire contro la sua volontà, osservazione mia]. Ha finito per andare incontro alla morte!
...
Il trauma della sua scomparsa è aggravato dallo spettacolo offerto
dalle sue spoglie. È una vista abominevole. La morte ha dato un aspetto grottesco a quest'uomo così bello e pacato. Con i capelli sparpagliati sugli occhi, i baffi spioventi in bocca, la faccia gonfia, ride. Ha un occhio spalancato, l'altro chiuso e la sua lingua fuori. Le braccia sono stese e incrociate, le mani aperte, le dita discoste. La gamba destra è stesa di lato; la sinistra, spezzata da una scheggia dalla quale è uscita l'emorragia che lo ha fatto morire, è girata ad arco, slogata, molle, disossata. Una lugubre ironia ha conferito agli ultimi soprassalti della sua agonia l'aspetto di una posa da pagliaccio.
Il profeta, la voce della verità sul significato della guerra e del sacrificio imposto alla truppa si converte in una figura comica, ridicola. Forse è un modo per sottolineare il carattere improprio di una guerra destinata nelle intenzioni dell'autore come in un sentimento allora diffuso tra i soldati ad essere l'ultima delle guerre: la der des der, la dernière des dernières, l'ultima delle ultime, un mito che doveva rivelarsi ingannevole e fallace.
Un altra orribile morte nel romanzo si incontra qualche pagina più in là. È quella del soldato Poterloo. Viene richiamata a cose fatte per via di una scena successiva. Il narratore vede passare dei portaferiti che reagiscono a una esplosione deponendo una barella e sollevando qualcosa di inerte: "mi rievoca - nota - l'indimenticabile visione della notte in cui il mio compagno d'armi Poterloo, con il cuore pieno di speranza, s'è come involato, a braccia spalancate, nella fiammata prodotta dal proiettile di un obice". Una sorta di crocifisso proiettato in aria. Ancora una immagine portatrice di un messaggio simbolico.
Cambiamo registro. Nella letteratura francese di guerra c'è un'altra morte che interrompe il corso del racconto e configura un episodio di grande risonanza emotiva. Il personaggio colpito è l'amico più caro del narratore. Qui non ci vengono offerti particolari sullo stato del cadavere. Prevale di gran lunga la manifestazione piena del sentimento. Per tutto un tempo, la morte sospende ogni cosa, esclude ogni altra preoccupazione, producendo l'effetto di una distruzione totale:
La cosa non mi ha afferrato che molto tempo dopo, nel cavo di argilla dove ero tornato a sedermi, tra Lardin e Bouaré: una freddezza dura, una indifferenza disgustata per tutte le cose che vedevo, per l'ignominia del fango e la miseria dei cadaveri, per la luce triste sulla cresta, per l'accanimento degli obici... Non sento nemmeno più la mia stanchezza; non temo più nulla, neppure lo schiacciamento delle mie ossa sotto uno di quegli enormi crolli, né la lacerazione della mia carne sotto il morso delle schegge di acciaio. Non ho più pietà dei vivi, né di Bouaré che trema, né di Lardin prostrato, né di me stesso. Nessuna violenza mi solleva, nessuna ondata di dolore, nessun soprassalto di indignazione virile. Non è neppure disperazione, questa aridità del cuore di cui sento in gola il gusto... È solo questo: una freddezza dura, una indifferenza disseccata, simile a una contrazione dell'anima. Cadete ancora, quanto a lingo vorrete, grosse granate, torpedini e bombe! Schiacciate, tuonate, sollevate la terra in zolle mostruose! Ancora più in alto! Più in alto! Come è grottesco, mio Dio, tutto questo! Nell'imbuto 7: va bene. Nella piccola trincea di Souesme: va bene [...]
Il brano continua sul tono dell'indignazione furiosa e poi si placa nel richiamo ai paesaggi della loro vita precedente: la Beauce, la Loira. Infine, la rabbia per una vita che in modo assurdo prosegue: "la cosa non mi stupisce, tutto è assurdo".
La morte nonostante la sua banalizzazione seriale restava un evento tragico e brutale, capace di alterare lo sguardo dei sopravvissuti determinando la comparsa di visioni da incubo. Naturalmente l'immaginario dei singoli scrittori presenta grandi differenze che la durezza del colpo accentua. In Barbusse il grottesco e lo strazio investono i cadaveri abbandonati in giro, mentre in Genevoix si ripercuotono moltiplicati nello spettacolo stesso della devastazione.
Il quadro non sarebbe completo se non aggiungessimo a quelle finora considerate le pagine di un autore tedesco. Non uno qualsiasi. Il più illustre tra quanti hanno offerto della guerra una rappresentazione che si può definire simpatetica: Ernest Jünger. In Tempeste d'acciaio, la vista e l'odore stesso dei cadaveri sono considerati con puntuale, sobria esattezza:
Mi svegliai sull'erba umida di rugiada. Sotto la raffica di una mitragliatrice tornammo di corsa nella nostra trincea e occupammo una posizione abbandonata dai francesi ai margini del bosco. Un odore dolciastro e un ammasso attaccato alla rete del filo spinato attirarono la mia attenzione. Saltai fuori dalla trincea nella nebbia del mattino e mi trovai davanti al cadavere rattrappito di un soldato francese. La carne putrefatta, simile a quella di un pesce, spiccava con il suo colore bianco sull'uniforme a brandelli. Nel voltarmi feci un balzo indietro, inorridito; accanto a me una figura umana era appoggiata ad un albero. Portava gli accessori in cuoio lucido dei francesi e aveva ancora sulle spalle lo zaino pieno, sormontato da una gavetta rotonda. Le orbite vuote e qualche ciuffo di capelli sul cranio nerastro mi rivelarono che non avevo a che fare con un uomo vivo. Un altro era seduto, il busto reclinato in avanti sulle gambe, come se fosse caduto in quel momento. Tutt'attorno giacevano cadaveri a dozzine, putrefatti, calcificati, mummificati, in una sorta di terribile danza macabra. Tutto faceva supporre che i francesi avevano resistito per mesi accanto ai loro compagni caduti, senza avere la possibilità di seppellirli.
Questo per quanto riguarda i morti. Jünger ha poi un suo modo di rendere omaggio al sacrificio della vita nei soldati. Non una esaltazione della ferocia, il rispetto per la sottomissione al destino:
In quei giorni ebbi l'occasione di rendermi conto dell'altissimo valore degli uomini con cui avrei fatto due anni di guerra. Si era trattato di una operazione inglese, appena menzionata nei bollettini, che impegnò i nostri uomini in un settore estraneo alla grande offensiva. Tutto dipendeva in quel caso dai pochi passi che i nostri soldati dovevano fare per percorrere il breve spazio che separava il posto di combattimento dall'entrata nelle gallerie. Questi passi, però, andavano fatti in quell'attimo in cui il fuoco più intenso preparava l'assalto e che si coglie soltanto per intuizione. L'ondata di uomini che in quelle notti buie, senza che si potesse gridare loro un ordine, si gettava nel fuoco furioso e spariva dietro i parapetti, mi è rimasta nel cuore come segno di assoluta lealtà umana.
Testimonianza insostituibile, questa, che aiuta a capire l'adesione della truppa alla logica inesorabile della guerra. Da mettere accanto allo spettacolo dei soldati inglesi docilmente allineati sul fronte della Somme il 1° luglio 1916.
Quella di Emilio Lussu, infine, è una rappresentazione assai singolare della morte che colpisce una persona cara. Il tenente Avellini si trova in ospedale e non ne ha più per molto. Il suo amico Lussu accorre al suo capezzale e cerca di consolarlo: "Sei stato proposto per la medaglia d'argento al valor militare sul campo. E sei stato anche proposto per la promozione a capitano per merito di guerra". L'altro reagisce sollevando le mani scarne e lasciandole ricadere con una espressione d'impotenza: "Sembrava volesse dire: a che serve tutto ciò?".
Qui scatta nel racconto una sequenza ben diversa. Avellini che non è in grado di vedere chiede all'amico di leggere una lettera a lui indirizzata da una "signorina bionda" che entrambi avevano corteggiato: "Una donna non può scrivere parole più tenere di quelle che io lessi quel giorno". Si rende necessaria una seconda lettura. Il messaggio finale di Avellini è rivolto alla sua innamorata: "Va' tu personalmente. Dille che il mio ultimo pensiero è stato per lei. Che io non ho pensato che a lei... Dille che io muoio felice". Che cosa conta davvero per un uomo, per un giovane in uniforme. La medaglia, una promozione: vanità delle vanità, tutto è vanità, come dice l'Ecclesiaste. L'amore invece continua a splendere alto nel cielo. Come in Hemingway. Come in Stendhal, o in Tolstoj.
John Keegan, Il volto della battaglia, edizione italiana a cura di Francesco Saba Sardi, Mondadori, Milano 1978 [1976]
Henri Barbusse, Il fuoco, traduzione di Lorenzo Ruggiero, Milano, Kaos edizioni 2007, Corriere della Sera 2016 [1916]
Maurice Genevoix, Ceux de 14, Les Eparges, Paris, Seuil 1984 [1923]
Ernest Jünger, Tempeste d'acciaio, traduzione di Gisela Jaager-Grassi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1990 [1920]
Emilio Lussu, Un anno sull'altipiano, Einaudi, Torino 1986 [1938]

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