venerdì 22 agosto 2025

Salvini al Leoncavallo


Alberto Piccinini
Le posse, Fausto e Iaio... gli anni perduti 

il manifesto, 22 agosto 2025

Il primo sgombero del Leoncavallo fu il 16 agosto 1989, sindaco Pillitteri giunta socialista. C’è qualcosa di profondamente irrispettoso e sleale nel fare la guerra a ferragosto, pensando che i tuoi avversari siano in vacanza sull’isola dei figli di papà.

Il blitz fallì. E quello sarebbe stato l’inizio dell’Iliade spaghetti che arriva fino ai nostri giorni. Decine di occupazioni in tutte le città italiane, in quegli anni si fecero ispirare dalle fotografie scattate a ferragosto in un fortino tutt’altro che sguarnito. Nella foto più celebre tre ragazzi col passamontagna, dal tetto, buttano di sotto qualcosa; la scritta sul poster dirà: «Quando ci vuole, ci vuole».

Militant A, del gruppo Onda Rossa Posse, guardando la foto scrisse così: «Ma intanto io li vedo in armi/ che ci stanno cercando/ Guarda al Leoncavallo assassini al soldo/ Maiali, qual è la ricompensa/ La vostra ricompensa per il Leonka morto». Alzi la mano chi di noi più grandicelli non li ricorda. Avevamo negli occhi quell’altro poster di Malcolm X che sbircia da una finestra con un mitra in mano, che nel frattempo era stato tirato fuori dall’hip-hop radicale americano, e altri simboli che graffiavano la realtà. Anche il Leonka aveva la sua posse, Lion Horse, famosi per il pezzo che gridava «pacco pacco papa polacco/ di merda sei un sacco». E i suoi martiri, Fausto e Iaio, caduti anni prima nella guerra dell’eroina in cui era già tutto chiaro tipo film di Spike Lee: chi vendeva l’eroina, chi avvelenava il quartiere, da che parte stava la destra neofascista che svezzò ministri e intellettuali oggi al governo.

Nel 1993-94, il sindaco leghista Formentini – che aveva innalzato le cancellate e accese le telecamere al Parco delle Basiliche e tra le promesse elettorali aveva quella di chiudere il centro sociale più famoso di tutti – ebbe una risposta. I 99 Posse cantavano «curre curre guagliò», Gabriele Salvatores li mise tutti in un film intitolato Sud, metafore delle posse, dello sgombero, che all’epoca sembrò parecchio imperfetto oggi col tempo chissà. Il film fu presentato con un grande concerto al Leonka.

In quei giorni Matteo Salvini, 21enne consigliere comunale, disse una volta sola che lui al Leoncavallo ci era andato a «discutere, bere una birra, confrontarsi e divertirsi»: un intervento in consiglio comunale, pare. Aggiunse: «Penso che potrebbe convivere col quartiere», ignaro del fatto che ancora nel 2025 gliel’avrebbero ancora tirata fuori, giustamente. Di Salvini esistono altri slogan, più in linea col personaggio, tipo «Leoncavallo lavorare» (2006), facilmente doppiato dall’afuera di ieri, gonfio di odio social e anni di Bestia. La leggenda di Salvini leoncavallino, brutterello e guardato di traverso dai compagni radical-chic, lancia il centro sociale milanese nel cielo dell’immaginario.

È il tempo che è passato da allora, gli anni perduti, che raccontano davvero il Leoncavallo. Non le mura di un castello che forse non esiste più davvero, nella città dei grattacieli costruiti sugli scheletri dei centri sociali che prima furono fabbriche, persone vive, e prima ancora i prati della via Gluck, nella geografia sociale e sentimentale della metropoli più moderna che abbiamo avuto in Italia. In questo deserto di cristallo e acciaio sopportiamo le ossessioni di un tempo circolare, invecchiato, vendicativo. La destra social e dei suoi bot che azzannano Ilaria Salis, l’okkupante, resa meme da una delle campagne più ridicole e schifose della tv di propaganda che abbiamo. Resta il graffio della memoria. Il Leoncavallo come colpo di coda, mappa delle uscite di quando tutto è perduto, gatto delle sette vite, malapianta comunarda, ciò che potrebbe ancora essere, nei secoli dei secoli.

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