venerdì 15 agosto 2025

Québec, i francesi d'America


Domenico Quirico
2004 - Québec, quel pezzo di Canada che non parla inglese lungo le amare sponde del San Lorenzo
La Stampa Tuttolibri, 15 agosto 2025

Le Plaines d’Abraham sono intirizzite dalla neve e dal vento che si arrampica dalle gole del San Lorenzo, violando le mura spesse e grigie della cittadella di Québec eroicamente eretta su una rupe. Solo i podisti ciabattano felici per i sentieri trascinando piccole macchie di colore. Nel 1759 quello che oggi è uno dei parchi pubblici più belli del mondo risuonava di pifferi e tamburi, i cannoni brontolavano impazienti, i sergenti che ancora impugnavano le picche, smoccolando, mettevano in fila belle schiere in tricorno. Le giubbe rosse inglesi e i “blue” del re di Francia si scontrarono per decidere chi era il padrone dell’America.

Fu la prima guerra mondiale della Storia. Vinsero gli inglesi. La frase che il colonizzatore francese Champlain aveva pronunciato guardando per la prima volta il promontorio su cui avrebbe costruito Québec, «Farò valere questo dono di Dio!», finì malinconicamente nei libri. La grandiosa fortezza che i soldati di sua Maestà costruirono per difendere la preda punta ancora i vecchi cannoni sul San Lorenzo che sta pigramente ghiacciando. Lungo uno dei sentieri del parco il vincitore delle Plaines d’Abraham, James Wolfe, morto sul campo come gli antichi eroi di Omero, riposa sempre sotto un epitaffio da re: «Qui giace Wolfe, vittorioso».

Un viaggio nell’America dove batte ancora, forte, coraggiosa, irriducibile, l’anima di Francia deve cominciare qua, nell’unica città murata a nord del Messico, con le sue stradine, le piazze lastricate, costruita alla rinfusa, pittoresca; meditando lungo la passeggiata un tempo riservata alla gioia dei governatori, a strapiombo sul San Lorenzo. Il Québec, famoso per i boschi, le montagne, gli orizzonti così scandalosamente infiniti per i nostri avari paesaggi d’Europa, conserva la storia di una nazione spodestata e tenace. La fedeltà alla Francia ormai è un ricordo pallido, gli ultimi fremiti risalgono a quando De Gaulle portò oltreoceano modesti fremiti di una “Grandeur” al tramonto. Gli eredi dei coloni di Champlain sono maggioranza, ma sono francesi come non ce ne sono più, che parlano un dialetto arcaico, rannicchiati per due secoli nella grotta della loro cultura antica dove gli inglesi, astuti, non sono venuti a disturbarli. E pensare che uno dei governatori inglesi, Lord Durham, per disprezzarli li definiva «un popolo senza storia!».

Erano contadini devoti e obbedienti ai loro preti e tenacemente affezionati alle loro usanze che non hanno mai conosciuto i fremiti della Grande Rivoluzione, e intrepidi cacciatori che si inoltravano nei boschi alla ricerca di pellicce e di indiani disposti a fare affari. Se volete conoscerli imbarcatevi su un traghetto per Lèvis risalendo un poco una delle grandi vie d’acqua del mondo. Ecco sulle alture i villaggi presidiati dalla chiesa a campanile con la casa del prete vicina, le strisce sottili dei campi, perché qui la primogenitura non aveva vigore e le proprietà con le generazioni si facevano sempre più piccole, qualche rudere di castello di stile normanno ultimo ricordo di nobili che non trovarono nella nuova Francia una storia meno intricata e benigna, vecchie locande con i prosciutti appesi al soffitto, e i reliquiari della santità cattolica. Oggi la fedeltà cattolica è in declino, il Canada è l’unico paese dove molte chiese vengono vendute e trasformate malinconicamente in condomini. Ma alla loro cultura gli habitants continuano a abbarbicarsi come a una scialuppa per non annegare nel mare anglosassone.

Sbarcate di nuovo a Québec, imboccate Rue Sainte-Anne o sfilate lungo i tetti variopinti di Rue Saint-Paul, passando sotto archi presidiati da antiche mitre episcopali: dai cortili dove si annidano le locande escono fragranze di zuppa di cipolle e di coq au vin. Sbucate nella magia quadrata della Place Royale presidiata dal busto sussiegoso di Luigi quattordicesimo. Entrate nella navata di Notre Dame des Victoires dove appeso al soffitto c’è il modello del veliero che nel Seicento portò qui un reggimento di piemontesi arruolati dal re di Francia per combattere contro la «Lega dei veri serpenti», le tribù irochesi. Erano indiani scandalosamente diversi, un popolo di agricoltori che viveva in villaggi fortificati, con una sofisticata organizzazione politica federale dove le donne avevano un ruolo importante.

Incombe sulla città la massa arzigogoluta e ingombrante dello Chateau Frontenac. Prende nome dal governatore che in uno dei tanti assedi inglesi rispose con alterigia a chi gli proponeva la resa: farò tuonare i miei cannoni. Ma non fatevi ingannare: nonostante il nome francese questo albergo lussuoso è immenso e inglesissimo. Anche nelle sue suites lussuose è passata la Storia: ammirando il paesaggio del San Lorenzo, Roosevelt e Churchill decisero le sorti della seconda guerra mondiale. Ben altre emozioni sono nascoste in una severa costruzione che trasuda semplicità cartesiana. E l’antico seminario di Québec dove Laval, il primo vescovo della Nuova Francia, cominciò a allenare con giansenistico rigore le leve di un esercito della fede. In queste camerate spoglie, nelle navate della chiesa che invece è tutto un trionfo barocco, sfilarono compunti e confusi anche alcuni giovani uroni che dovevano costituire il nucleo di un clero indigeno. Ma i rigori della disciplina e il richiamo dei boschi immensi li indussero presto a fuggire. Non al loro crudele destino: la estinzione uccisi dal morbillo e dalle diaboliche malattie portate dai “selvaggi” d’Europa. Le sale ospitano ora i tesori e le memorie dell’America francese, oggetti, opere d’arte, libri, storie di uomini che raccontano i passaggi di una gloriosa sconfitta.

Fermatevi a rileggere l’epopea dei “coureurs des bois”. Erano le pellicce il petrolio della nuova Francia, grazie alla moda dei cappelli di castoro che impazzava a Parigi e all’aumento del prezzo delle pellicce russe che avevano riscaldato i ricchi d’Europa fino dai tempi del medio evo. Erano avventurieri scorbutici e animosi che conoscevano alla perfezione questi boschi sterminati e le tribù indiane. Come loro si vestivano di pelli, sapevano usare le racchette da neve, risalivano i fiumi in canoa, partivano con un fucile, un po’ di viveri o il “contrat d’engagement” dalla potente compagnia che aveva ottenuto da Versailles il monopolio del lucroso commercio. Spesso cedevano al fascino delle giovani indiane e nascevano meticci: uno di loro, Louis Riel, guidò l’ultima grande rivolta dei mezzosangue contro sua maestà. Non voleva il ritorno della Francia, solo poter continuare a vivere libero, come corridore della prateria: fu impiccato nel 1885. Le prime parole di una poesia che qui scrivono anche sulla targa delle auto dice:« Noi non dimentichiamo...».

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