sabato 23 agosto 2025

Servabo


Gianluigi Simonetti
Nella vita di tutti c'è sempre una riga di troppo

La Stampa Tuttolibri, 23 agosto 2025

Quando ero adolescente mio padre aveva l’abitudine di portare a casa ogni giorno quattro o cinque quotidiani; uno di questi era Il manifesto, su cui scriveva regolarmente Luigi Pintor. Diventò presto il mio corsivista preferito, non solo o non tanto per le idee che difendeva, quanto per lo stile, inconfondibile e elegantissimo, come raramente si dà in un giornalista. Mi colpiva soprattutto l’estrema precisione e concisione delle frasi, insieme marmoree e scabre, antiretoriche, sintatticamente perfette (Guglielmi le definì «povere e sontuose»); poi avrei scoperto che la sobrietà espressiva Pintor la esercitava non solo in proprio, negli editoriali e nelle note, ma anche, da redattore, sugli articoli degli altri (accusata dal dirigente di una commissione operaia di aver tagliato le frasi più importanti del suo articolo, Ritanna Armeni fu rassicurata da Pintor con l’ironia, «se erano le più importanti, perché allora ha scritto il resto?»). Fondatore e direttore del Manifesto, dopo lunghi anni di lavoro all’Unità, Pintor aveva capito che nel suo mestiere e forse nella vita «c’è sempre una riga su tre di troppo», arrivando alla conclusione che due pagine bastano a esaurire qualsiasi argomento. E infatti - come avrebbe poi detto di lui l’amico e collega Valentino Parlato - i suoi editoriali «non giravano mai in un’altra pagina». O quasi mai.

Quando nel ’91 uscì il primo memoir di Pintor io avevo appena iniziato l’università: i giornali li leggevo meno, ma Servabo (questo era il titolo: «può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile») me lo procurai subito. Non mi stupì che Pintor fosse passato alla letteratura - anche se allora i giornalisti e i politici non erano ancora diventati tutti romanzieri, come oggi - ma mi impressionò constatare che i suoi libri erano ancora più belli dei suoi articoli. «In quel suo messaggio dall’oltretomba, che avrei preferito non ricevere, mio fratello racconta come la guerra gli mostrò il mondo in un’altra luce e decise della sua vita»: già l’attacco di Servabo bastava a chiarire che per Pintor brevità, esattezza, rapidità e senso del ritmo non erano solo virtù giornalistiche, come si poteva logicamente pensare; erano virtù letterarie tout court, mediate dall’esempio del fratello Giaime (che gli raccomandava di tenersi lontano dalle «effusioni dell’anima romantica»), messe al servizio di una visione del mondo dura e poco amabile, ma completa, profonda e convincente. Non dovrei dirlo, l’autore stesso mi disapproverebbe, ma Servabo mi fece spuntare più di una lacrima; mi sarebbe ricapitato, nella mia vita di lettore, solo con Morante e Dostoevskij. Ma mentre si sa che questi due geniali furbacchioni non hanno mai avuto paura di buttare le trippe sul piatto, tirare fortissimo e scorticare i propri personaggi per sconvolgere i lettori, in Pintor la commozione nasce sempre da un pudore assoluto, meticoloso e quasi assurdo. Accostare un giornalista sia pure bravissimo a due classici del romanzo potrà far sorridere qualcuno, non sarà che a straparlare è una passione di ragazzo? Io, per me, ho sempre pensato che Servabo avesse la tempra del piccolo classico di fine Novecento; e continuo a pensarlo, ora che Bollati Boringhieri lo ha ripubblicato, col titolo di La vita indocile, insieme agli altri bellissimi volumi che Pintor ha fatto in tempo a scrivere prima di morire (La signora KirchgessnerIl nespolo e I luoghi del delitto).

Se provate a leggerlo, Servabo, può darsi che quel sorriso vi si spenga sulle labbra.

Quel che è certo è che chi invece lo rilegge, a distanza di trentacinque anni dalla sua prima apparizione, si trova oggi di fronte a un meraviglioso controesempio di quasi tutto ciò che in narrativa è successo nel frattempo. Innanzitutto, come dicevamo, in termini di stile. Mentre in Italia si apriva la fase del racconto in cui ancora ci troviamo - in cui dominano il modo melodrammatico e il patetismo della forma (e spesso anche dei contenuti) - Pintor ha proposto una scrittura asciutta e antisentimentale. Mentre quasi tutti si sforzavano di velocizzare la trama ricorrendo all’azione, moltiplicando le scene-madre e velocizzando il montaggio, lui è andato più veloce ancora, ma in forza di brevitas morale e sintattica. E mentre molti imparavano a infiorare la pagina di sentenze a effetto, prelevate da un atlante massmediatico e scodellate in contesti frammentari e semplificati, Pintor scolpiva aforismi mozzafiato, omogenei alla forma che aveva scelto: organicamente ellittica e fortemente semantica («Ci sono medaglie che hanno soltanto il rovescio»). Voleva un lettore partecipe, intellettualmente attivo, collaborativo, mentre i suoi colleghi cominciavano a sottotitolare e spiattellare tutto.

Ma Servabo è stato anche un controesempio nell’uso del genere (letterario). Tutti i libri di Pintor sono testi autobiografici di andamento riflessivo (Davide Di Falco ha notato che in Servabo autore empirico e io narrante si identificano, negli altri tre libri l’autore è riconoscibile dietro diverse maschere); e sappiamo che la scrittura del sé, che all’inizio degli anni Novanta era un’opzione minoritaria, è diventata nel frattempo una moda. Ma se l’attuale tendenza al memoir assume spesso una sgradevole dominante narcisistica, in Pintor serve a una scarnificazione implacabile dell’io. Non che la vita di Pintor fosse priva di tratti romanzeschi e di episodi eroici (basti pensare alla sua dolorosa esperienza partigiana, o a quella tragica del fratello e di tanti suoi amici). Lui sì che ne aveva di cose da raccontare, e di cui farsi bello. Ma aveva anche un grande senso di colpa, e credo sia quello che l’ha spinto a scrivere, e a scrivere così. A distanziare Storia e autobiografia, invece che a dilatarle; fino a tradurle «in un’amara favola enigmatica». Attraverso l’abolizione dei nomi propri e delle peripezie, la riduzione all’essenziale di ogni vicenda privata, il trattamento allegorizzante di tutti i dati personali, Servabo riesce a darci solo il succo, il significato universale e malinconico della ricca esperienza umana, storica e politica di chi l’ha scritto. «Nella realtà non è rimasto in piedi nulla delle cose che mi stavano a cuore. (…) La ruota della storia gira benissimo all’indietro o su se stessa, come una trottola. Ne concluderò che le tenaci passioni, i nobili ideali, le generose intenzioni, le fatiche e gli errori sono una favola folle? No di certo, sono in ogni tempo il sale della terra e così è stato anche in questi decenni. Ma basta una pioggia a lavare la terra e il sale si scioglie in acqua». Il succo, purtroppo, è questo qui.

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