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| Il monumento dell'indipendenza in piazza Maidan a Kiev |
Francesco Strazzari
Russia, l’Europa scelga il realismo
il manifesto, 17 agosto 2025
Il Donald Trump della pace come risultato della forza, quello che minaccia sanzioni e lancia ultimatum, non si è presentato in Alaska. A scendere la scaletta dell’aereo, zigzagando incerto sul tappeto rosso, si è affacciato l’altro Trump, quello che chiama Putin «boss» e «uomo d’acciaio». Poco prima, Lavrov aveva indossato una felpa con la scritta CCCP: per quasi tre ore, in una sala tutta al maschile, i russi si sono impegnati a vincere l’ultima guerra, la Guerra Fredda, ragionando dell’Ucraina e del mondo a partire da come furono umiliati, quando i repubblicani Usa gettarono le nuove fondamenta della sicurezza europea e dell’ordine globale. Evidentemente, per passare da paria a pari, e arrivare all’applauso di benvenuto di Trump, Putin ha ritenuto giustificate le cataste di cadaveri e l’esaltazione della passionarietà patriottica della nazione russa.
Trump era tornato alla Casa Bianca sostenendo che per la pace fosse necessario esercitare pressioni sull’Ucraina e Zelensky, coltivando le relazioni con la Russia e Putin. Nel giro di poco, però, si era reso conto che bisognava rovesciare la strategia, lanciando ultimatum a Mosca, minacciando sanzioni e persino muovendo sommergibili nucleari, mentre si coltivano le relazioni con Nato ed europei.
Si dirà che per i contenuti del summit di Anchorage sarebbe bastata una e-mail. Ciò che resta, però, è la teatralità strumentale dell’evento, che ci ha regalato un Putin gongolante e un rublo rivalutato, mentre il leader Maga, cultore dell’arte del deal, è tornato a Washington con in mano nient’altro che l’invito a un nuovo incontro. Prigionieri delle riedizioni autoritarie delle proprie guerre al crimine e alla droga, in casa come in America latina, gli Usa di Trump guardano alla Cina e hanno fretta di disimpegnarsi dalle guerre in Europa.
La fascinazione per il Cremlino non è certo una novità: risale all’edizione russa di Miss Universo 1987, quando nacque persino il desiderio di una Trump Tower a Mosca. Si dice che dopo l’assalto a Capitol Hill ci siano state diverse telefonate tra Putin e Trump. Ad Anchorage, Putin ha piazzato la propria narrazione sul palcoscenico globale: la Russia è superpotenza e l’unico modo per uscire da una guerra rispetto alla quale non si concede nulla è ridisegnare il quadro complessivo: ucraini ed europei vanno subordinati alla normalizzazione delle relazioni Usa-Russia.
Parlando di dazi con il ministro di Oslo Jens Stoltenberg, che Trump aveva conosciuto alla guida della Nato, il presidente Usa ha nuovamente esternato il proprio interesse per il Nobel per la Pace. Per blandirlo ulteriormente, in Alaska Putin ha dichiarato che, se Trump fosse stato presidente nel 2022, la guerra in Ucraina non sarebbe iniziata. Un trionfo di gratuita retorica: quando Putin lanciò l’invasione su larga scala, Trump lo definì «un genio».
Insomma, non c’è stato nemmeno bisogno di mettere al centro gli affari economici, per iniettare un po’ della sintonia politica che solitamente anima i grandi businessmen. L’adesione al copione è stata tale che Trump ha persino esaltato la telefonata con il dittatore bielorusso Lukashenko, al potere dal 1994 e pronto ad accogliere i nuovi missili russi puntati sulle capitali europee.
Il primo summit di Anchorage era stato con i cinesi: correva il 2021 e governava Biden, che definiva Trump «killer». Nel giro di un quarto d’ora, Pechino fece capire agli Usa che il mondo correva verso il multipolarismo e che loro non erano venuti a prendere lezioni. In questa «seconda Anchorage», Trump ha dovuto scegliere fra Europa e Russia. Ha deciso di continuare a trattare gli europei come vassalli: viene chiesto loro un tributo (spesa militare), non certo un contributo a definire le questioni strategiche. Peccato che, per quanto sia importante per gli equilibri globali, la guerra in Ucraina si consumi sulla frontiera europea. Gli europei, inclusi i britannici, non hanno alternative se non quella di cercare di rispondere congiuntamente.
Per Putin lo scambio, magari all’ombra della ripresa del dialogo strategico e nucleare, deve riguardare territori come l’intero Donbas che oggi non sono nemmeno conquistati dalla Russia: la contropartita sarebbe la cessazione delle ostilità. Ma davanti a una Russia che non vuole nemmeno parlare di cessate il fuoco, che (con la Casa bianca) scommette sulla vittoria delle destre nazionaliste in Europa, e ha già usato territori occupati come base per lanciare nuove offensive, cosa potrà fungere da deterrente domani?
Nel 1996, Mosca firmò la pace con i separatisti di Grozny, ponendo fine alla sanguinosa guerra di Cecenia. Nel 1999, Vladimir Putin cavalcò il deterioramento di quella pace per accendere la seconda guerra in Cecenia. Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, così come del Sahara occidentale quale parte del Marocco, sono già oggi tributi all’uso della forza da parte della presidenza Trump.
Forse, invece che impartire lezioni sui principi, illudendosi che gli Usa forniscano garanzie dove non vedono un loro interesse vitale e rinfocolando politiche belliciste che scardinano il proprio patto sociale, gli europei potrebbero impegnarsi in opzioni più realistiche: fra queste, oltre a quelle che riguardano gli aspetti umanitari, la democrazia e la società civile, il diritto di Kiev a un esercito sufficientemente grande da potersi difendere, l’accettazione russa di una presenza militare europea regolamentata sul suolo ucraino, l’impegno a mantenere scorte di armi da consegnare in caso di nuova invasione.

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