Günter Gaus / Hannah Arendt
"Archivio Arendt 1930-1948", a cura di Simona Forti, Feltrinelli, Milano 2001
Intervista collocata in apertura del volume
HA Perché non si dovrebbe dire la verità?
GG Forse perché vent'anni sono troppo ancora troppo pochi?
HA Sono in molti a sostenerlo; altri dicono che dopo vent'anni è impossibile stabilire la verità.
In ogni caso, vi è un interesse a sbarazzarsi dei panni sporchi. Ma questo non è un interesse
legittimo.
GG Nel dubbio, lei privilegerebbe la verità.
HH Preferirei dire imparzialità, che fece la sua prima comparsa con Omero...
GG Anche per i vinti...
HH Esatto! "Se le voci del canto tacciono / Davanti all'uomo sconfitto / Sarò io a testimoniare
per Ettore". Giusto? Così Omero. E poi è venuto Erodoto, che parlò delle "grandi gesta dei
Greci e dei barbari. Tutta la scienza trae origine da questo spirito, anche la scienza moderna,
e anche le scienze storiche. Se uno è incapace di una simile imparzialità, perché sostiene di
amare il proprio popolo a tal punto che gli è impossibile non ossequiarlo a ogni pie' sospinto,
allora non c'è niente da fare. Non credo che individui del genere siano dei veri patrioti.
La libertà nella storia: il nuovo inizio
L’iniziatore di nuovi inizi: una riflessione su Hannah Arendt
Antonella Argenio Dipartimento di Scienze Giuridiche Seconda Università di Napoli antonella.argenio@virgilio.it
L'uso di un gergo filosofico non facilita la lettura. Tuttavia il testo, una volta superate le difficoltà lessicali, risulta molto istruttivo.
... L’oblio: invisibile filo spinato confitto in colui che si pretende non sia mai esistito. «David Rousset ha intitolato il suo racconto sul periodo trascorso in un Lager tedesco Les Jours de Notre Mort ed invero è come se si fosse spalancata la possibilità di rendere permanente lo stesso morire e di ottenere una situazione in cui vengono impedite con altrettanta efficacia sia la morte che la vita. È la comparsa del male radicale».
Si giunge, così, al termine della discesa negli inferi del regime totalitario, intrapresa per un’esigenza profonda di comprensione, di riconciliazione col mondo. Eppure questa non è l’ultima parola pronunciata dalla Arendt. Ideologia e Terrore si chiude con l’agostinano «initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit», il medesimo passo del De Civitate Dei che ritorna in Vita activa e non perché il testo del ’58 sia consolatorio o meno intransigente nella sua portata critica. Spietata è la decostruzione del processo di spoliticizzazione che taglia trasversalmente l’occidente fino al trionfo dell’animal laborans. Contrapporre pluralità a omogeneità indifferenziata, imprevedibilità a predeterminazione, potere a potenza, condivisione a estraneazione vuol dire, per un verso, dissipare ogni fraintendimento sul carattere anti-politico di un’esperienza di dominio rispetto alla quale non si dà forma alcuna di mediazione praticabile, e, per l’altro, denunciare un progressivo prosciugamento della dimensione politica. Se con il totalitarismo non si può coesistere, il crollo delle sue incarnazioni storiche non mette al riparo definitivamente né garantisce dai risvolti insidiosi del recuperato orizzonte della liberaldemocrazia. Non qualsiasi composizione del tessuto sociale è terreno fertile su cui può attecchire un esperimento totalitario irriconducibile a forme tradizionali di aggregazione comunitaria. Pur essendo l’isolamento cosa diversa dalla solitudine estraniante, nondimeno entrambi hanno in comune il presupposto della massificazione, intesa nella specifica accezione di jobholder society, simmetrica al rule of nobody.
Riprendere Agostino significa legare natalità e libertà, quasi una professione di fede laica nella capacità propria soltanto dell’uomo di trascendere il vincolo della zoe e introdurre l’inaspettato entro il flusso di una vita altrimenti prigioniera dell’infinita ripetizione del produrre per riprodursi. Arendt riconosce in ciascun singolo colui che può spezzare sequenze e imprimere al «corso del mondo» direzioni insospettate, dimostrando l’incrollabile convinzione che la libertà potenziale trovi il suo radicamento nel fatto stesso del nascere. «Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono l’iniziativa e sono pronti all’azione». Ecco il doppio vettore che percorre le pagine arendtiane: libertà come possibilità sempre risorgente e dinamiche che la rendono sempre più rara. Possibilità senza garanzie di traduzione e di riuscita, ma comunque patrimonio immenso di cui si resta portatori, consegnata all’ipotetico e al condizionale. Questa fiducia rischiara il futuro nella medesima maniera disincantata che contraddistingue l’analisi dei fenomeni rivoluzionari — autunno ungherese, ’89 francese, founding fathers americani sulle due sponde dell’Atlantico, testimoniano le irruzioni del nuovo, rappresentano non mere liberazioni ma altrettante manifestazioni di quel tesoro depositato sul fondo del mare. Lo spazio dell’apparire «esistendo solo potenzialmente, non necessariamente e non per sempre» per ciò stesso non consente di essere irrevocabilmente distrutto una volta per tutte. Attende attualizzazioni. Che riesca a riemergere ancora dipende dalle scelte di ognuno. Si giudica da soli, in comune si agisce.
La categoria della nascita assume, dunque, ruolo portante in una riflessione che non pretende di sollevare la domanda sulla natura umana — anche contro l’aberrazione totalitaria di conoscerla fabbricandola. All’interrogativo riguardante l’essenza, cui può rispondere solo la verità rivelata, si sostituisce una disamina della condizione umana a cominciare dal venire al mondo e ci si chiede quali e quanti tipi di vita siano annunciati nell’evento stesso del vedere la luce. La riconsiderazione di lavoro, opera e azione — le «articolazioni più elementari» della human condition – richiama, infatti, la distinzione tra birth e second birth, tra zoe e bios, tra il ritrovarsi ad abitare la terra e l’atto di accedere allo spazio condiviso dell’apparire, tra il dato e l’iniziativa. Si tratta della scissione fondamentale di esistenza come mera sopravvivenza e vita specificamente umana che separa la fisicità biologico-naturale dall’individualità in quanto identità distinta. Dicotomia irriducibile che si tende fino alla presenza simultanea di un grumo corporeo di funzioni organiche che continuano a svolgersi e di una vita «letteralmente morta per il mondo» quando si rinuncia all’inter homine esse: privarsene è perdere la propria umanità. Questa sinonimia concettuale forte costituisce il perno intorno al quale ruota un ragionamento che procede per differenze — di sfere, di attività, di gerarchie loro relative — in cui il referente greco si rivela cruciale non per il tentativo di riproporre modelli di antica memoria, ma per lo sforzo di adottare un punto di vista che faccia risaltare meglio lo scarto tra il polites e l’homo oeconomicus con la sua imperante logica banausica. Del rievocare il Pericle tucidideo può dirsi molto tranne che sia ricetta pronta ad uso dei moderni. L’Atene periclea viene privata di topos esclusivo, diventa immateriale città sottratta a qualsiasi latitudine. L’ovunque voi andrete sarete una polis non è luogo cui fare nostalgicamente ritorno ma simbolo di una politica pensata nei termini di possibilità da non escludere che si affida al fragile gioco di praxis e lexis. Se poi «l’odierno impiegato o l’uomo d’affari non vive in questo spazio dell’apparenza», ciò non basta a porre ipoteche sull’avvenire, nonostante la contezza delle insidie che ostacolano l’essere-in-comune. Speranza, non ingenua illusione, di libertà. Momenti: brevi, perché «nessun uomo può vivere in questo spazio per tutto il suo tempo». Frammenti: preziosi, perché ricordano in permanenza che «siamo condannati a essere liberi in ragione dell’essere nati».
...
Arendt cerca di restituire contorni definiti alle modalità della vita activa, indicando le peculiarità racchiuse in labor, work e action. Animal laborans, homo faber, zoon politikon e logon ekhon divergono. Essi possono rinviare ad un ribaltamento dell’ordine gerarchico secondo cui si dispongono, ma tale inversione non ne cancella la diversità irriducibile: sul primo ricade la «condanna» dell’eterno ripresentarsi delle istanze biologiche; al secondo è affidata la creazione di quel mondo di cose che, simile ad una casa, deve accogliere gli uomini con la sua durevolezza; solo il terzo può inserirsi nel mondo e condurvi una duplice esistenza mostrando il chi si è. Il «mondo» non è solo la semplice realtà della terra immediatamente disponibile — «la natura ed in generale la terra costituiscono la condizione della vita umana»41 — né il mero artificio prodotto da un operare che trasforma i materiali naturali, è un in-fra che si instaura tra i singoli in virtù di un agire di concerto e di una parola plurale.
Il discorso arendtiano traccia il percorso che conduce al riscatto dell’animal laborans e ne denuncia gli esiti perché la sua vittoria significa perdere l’elemento che collega e disgiunge i singoli impedendo loro di sovrapporsi. Fagocitare attraverso un consumo inesausto e distruggere l’in-between sono gli equivalenti del pieno concentrarsi sulla zoe. Questa assenza è la mancanza di una identità che ricevo dal riconoscimento altrui e che si frantuma qualora non ci siano gli altri che mi vedono e mi sentono, ai quali appaio e grazie alla cui presenza posso ricevere conferma di me. Ciò nel contempo è anche il venir meno della sicurezza che il mondo sia lì, disponibile agli sguardi dei molti che l’osservano dai diversi punti di vista. Cancellare l’oggettività di sé e del mondo vuol dire consegnarsi ad un sogno allucinato che fa dell’uomo il simulacro dell’individuo, ombra vacua al pari di coloro che si incontrano nell’ade trasferito sulla terra del totalitarismo.
Che l’individuo sia più di un insieme di bisogni consegnato al ciclo invariabile di assunzione e dispendio, che sia altro da una vita piegata agli imperativi biologici e resa confortevole dai risultati poietici, Arendt non si stanca di ripeterlo. Il novum, connesso all’agire di coloro che chiama alla maniera classica oi neoi, è il prodigio della libertà. Esso si manifesta ad ogni proposta inaugurale che parte da un individuo, incontra gli altri e sprigiona una sorta di energia taumaturgica. Humanity e polity si richiamano a vicenda unite da «iniziativa» il cui «impulso» sorge col nascere ed al quale si risponde attraverso una «seconda nascita». Essa si verifica dove speech e deeds creano una trama di relazioni imprevedibile nelle sue conseguenze e che sovente si spinge oltre le intenzioni dei beginners per la sua stessa struttura intrinsecamente corale.
Doppia nascita, dunque, l’una dono gratuito per eccellenza, l’altra dipendente da colui che lo ha ricevuto — come provano le tante astensioni, i tanti rifiuti del peso della responsabilità e del rischio dell’incertezza — e dal contributo dei molti, mai dell’uno. L’azione di un singolo non può darsi. L’agire è inter-agire o non è, divenendo cosa diversa: rule, soggezione dissimetrica, governo. Uguali, mai identici, sono coloro che si espongono al confronto e anche allo scontro paritetico ricevendo non il mero apprezzamento del che cosa si è — successi o fallimenti ottenuti nel privato — bensì la certezza di individuarsi come chi è irreplicabilmente unico. L’identità non ci appartiene automaticamente: non la possediamo, la acquisiamo con l’autoesibizione. Si resta anonimi e generici chiunque finché lo sguardo altrui non la restituisce in un movimento che evoca in termini teatrali individui che si offrono reciprocamente alla vista e all’ascolto, assumendo la parte di attori e spettatori a un tempo.
Praxis e lexis, o, meglio, azione discorsiva — «molti atti, forse la maggioranza sono compiuti in forma di discorso» — poiché l’atto muto non sa annunciare intenti né tanto meno manifestare identità. Senza la parola, il gesto è contraffazione del self-display. Discussione e persuasione che non si sottraggono al divergere delle opinioni dei molti e che insieme al dissentire includono la possibilità dell’accordo e della mediazione. Ciò che si esclude è un impiego strumentale della liberty.
Nondimeno questo agire plurale porta con sé costitutivamente quella che Arendt definisce una triplice frustrazione che scoraggia ad accettare l’action – ciò contro cui da sempre il pensiero filosofico-politico è insorto preferendo riassorbire una libertà dai risvolti troppo poco gestibili nella sicurezza del rapporto comando/obbedienza. L’irruzione dell’inatteso è un giano bifronte redimente e disarmante allo stesso tempo poiché il non calcolabile riguarda sia il nuovo che spezza continuità sia gli sviluppi che da esso si propagano. L’imprevedibile sorprende sempre in queste due direzioni. È la pluralità stessa a stabilire influenze incrociate tra gli atti degli individui che entrano in contatto per cui ognuno condiziona e viene condizionato, impedendo di seguire tutte le interferenze e le conseguenze. L’esito resta avvolto da una cappa nebulosa, ma volerla bucare significherebbe distruggere quel lato oscuro dell’agire che ne è parte integrante e dunque distruggere la libertà. Piuttosto si può far ricorso a strategie di parziale superamento delle incognite: «le isole di sicurezza gettate nell’oceano dell’incertezza del futuro» portano il nome di promesse, sono gli accordi per mutuo consenso.
Lo zoon politikon, inoltre, è un iniziatore che non può orientare le dinamiche innescate dal proprio agire né tornare indietro e ricominciare tutto dal principio. Suo malgrado ne è responsabile senza avere davvero responsabilità di tutte le ripercussioni possibili. È ancorato agli effetti del gesto compiuto come ad una zavorra che lo trascina in labirinto cieco. Può soccorrerlo solo l’intervento altrui concedendogli un perdono «alternativo» alla pena e «opposto» alla vendetta.
Forgiveness e promises, tuttavia, si rivelano misure contrastive inadeguate rispetto ad un ulteriore versante dell’action: il suo essere infinita, nel senso che i processi avviati sono boundless. Un eccesso di potenziale sgorga da essa, anzi «il germe dell’illimitatezza» ne è la «specifica produttività» e matrice stessa dell’imprevedibilità. Questa dismisura prorompente va controllata, per così dire, ridimensionata, incanalata attraverso un espediente capace di innalzare barriere che possano contenere «la straordinaria capacità di stabilire relazioni»: si tratta delle leggi, in primis del dettato costituzionale. Definite «principi limitanti e protettivi» esse sono la cornice pre-politica del public realm, la struttura con cui si stabilizza la natura «sconfinata» degli atti che si intersecano e dei rapporti interindividuali che si intrecciano. Recuperando una concezione della legge in contrasto con una tradizione longeva puntellata dalla versione giudaico-cristiana del comandamento. In una pagina di rara bellezza si legge: «La redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità – non riuscire a disfare ciò che si è fatto, anche se non si sapeva, e non si poteva sapere ciò che si stesse facendo, è nella facoltà del perdonare. Il rimedio all’imprevedibilità è la facoltà di fare e mantenere promesse» (Ivi, p. 175). L’iniziatore di nuovi inizi: una riflessione su Hannah Arendt oscilla tra visone spaziale di matrice greca e visione relazionale di matrice romana – nomos etimologicamente come delimitazione, limite, confine; lex quale «vincolo duraturo», legame basato sul reciproco consenso.
...
Niente di spontaneo e imprevedibile: il life process non ne ha bisogno, anzi l’incontrollabilità dell’action rappresenta un’interferenza che reca disturbo a un meccanismo calibrato for its own reproduction. È lo scenario cupo della riconduzione dell’eccezionale ad eccezione, dell’uguaglianza tra pari nella distinzione all’omogeneità dei bisogni che compaiono in pubblico e richiedono gestione, curvando una concezione funzionale della politica verso la promozione di quanto ritenuto indispensabile per la conservazione biologica. La privatizzazione del pubblico e la pubblicizzazione del privato esigono good housekeeping e la «tirannia senza tiranno» vi provvede. Certo, «rule of nobody» non significa dominio totale ma identiche ne sono le premesse antropologiche: l’individuo monade indistinta porta il nome di Eichmann, uomo del non-pensiero e del non-giudizio. «È vero – spiega Arendt - che l’evoluzione del moderno tipo di uomo, che è l’esatto opposto del citoyen e che per mancanza di termini migliori abbiamo chiamato bourgeois, ha goduto in Germania di una situazione favorevole, ma l’uomo-massa è un fenomeno internazionale. […] Il bourgeois è il moderno uomo delle masse non nei momenti di esaltazione e di eccitazione collettiva, ma nella sicurezza o insicurezza della sua sfera privata».
Pochi dubbi che le conclusioni arendtiane spalanchino una porta sul nightmare di una normalità ordinaria. Nondimeno vanno lette insieme a quel prendere posizione mostrandosi e dimostrando le possibilità di un power che può esserci solo e per il tempo in cui si agisce in comune. Capacità critica di dissentire da parte del cittadino come forma di libertà-partecipazione che si tiene lontana dalla violenza poiché quando essa avanza muta il potere retrocede e scompare. In tal senso gli atti di disobbedienza civile rappresentano momenti inaugurali paragonabili a varchi stretti che lasciano transitare un individuo al quale spetta la possibilità di reindossare le vesti del polites: non comandare né essere comandati ma esporsi, nel reciproco riconoscimento dell’omoios, per cercare di incidere solchi sul terreno aspro del mondo comune e contribuire a che non diventi un deserto. Il suono della parola proferita che si confonde col gesto compiuto, — quasi a riportare sul proscenio del teatro appiattito della modernità l’Achille omerico, l’eroe, etimologicamente inteso, dai megaloi logoi e megala pragmata — rivendica ascolto nei confronti di quanti dispongono de facto della possibilità di attivare la logica patrizia. La presenza, sebbene infrequente, dei molti agenti-attori attesta il recupero del bios in nome di altri che rischiano di perdere persino la zoe o, con sguardo più cupamente ellittico, di tutti e della terra stessa.
Arendt sa bene che «la capacità umana di agire è estremamente utile per scopi di autodifesa o per il perseguimento di interessi». Certo, sostiene anche che «qualora non ci fosse niente di più in gioco che il servirsi dell’azione come mezzo per raggiungere un fine, esso potrebbe essere conseguito molto più facilmente dalla violenza». Tuttavia, se ad essere chiamati in causa sono non semplici interessi minuti quanto piuttosto interessi alti, allora la mutua promessa e la comune deliberazione possono diventare l’arma non violenta con cui contrastare la potenza autolesiva. In quest’ottica l’action non smarrirebbe affatto il proprio tratto rivelatore del who somebody is, degradandosi a surrogato inefficace di un ossimoro agire violento. D’altro canto la stessa pagina arendtiana non esclude una simile chiave di lettura sdoppiando l’in-between. Lo spazio che avvicina e separa gli individui consentendo loro di non sovrapporsi e di mantenere prospettive diverse, simile a un tavolo posto tra coloro che vi siedono intorno, si duplica: in-fra soggettivo e in-fra oggettivo che «ha come riferimento quel mondo di cose che fisicamente si trova tra loro e dal quale derivano i loro interessi specifici, mondani. Tali interessi costituiscono, nel senso più letterale del termine, qualcosa che inter-est […] così che la gran parte delle parole e degli atti sono intorno a qualche realtà oggettiva del mondo in aggiunta al fatto di permettere il rivelarsi di chi parla e agisce».
Nondimeno, si tratta di un agire for sake of e non in order to. Questo sottile distinguo tiene conto che alla base dell’iniziativa presa ci sia una sollecitazione, ma esclude che la molla sia l’utile. Il parametro della convenienza e il rapporto mezzo/fine riguardano la poiesis, mentre l’action è in tal senso in-utile, atelos e senza erga. Si fa ricorso, invece, alla categoria di principio. I principi che ispirano l’azione restano sempre «di gran lunga troppo generali per imporre obiettivi particolari» e coincidono con la «convinzione fondamentale che un gruppo di persone condivide», variabili al mutare delle epoche. Gli individui che agiscono rispondono, dunque, a un patrimonio valoriale che hanno in comune.
...
Il senso della politica per Arendt va ricercato altrove: come spesso torna a ripetere, «entro la sfera delle faccende umane c’è un taumaturgo e l’uomo ha il talento di compiere miracoli. […] Questo miracolo si chiama agire. Il miracolo della libertà è nel saper cominciare insito nel fatto che ogni uomo in quanto per nascita è venuto al mondo […] è un nuovo inizio».

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