giovedì 21 agosto 2025

Mia moglie


Gianfranco Pellegrino
Il gruppo "Mia moglie": il paese dove il patriarcato è un regime della mente

Domani, 21 agosto 2025

Immaginatevi un paese di sessantamila persone circa. In Italia, paesi come Cinisello Balsamo, Savona, Civitavecchia, Agrigento, Viareggio, Gallarate, Pordenone, Vigevano, Portici, Benevento. Paesi con piazze, scuole, uffici, monumenti. Ma anche con famiglie, padri e madri, figli e figlie, professioni, tessuto economico e politico: negozi, studi legali, studi medici, Comune, Prefettura, forze dell’ordine.

Immaginate che metà degli abitanti di questo paese passino il proprio tempo a fotografare parti dei corpi dell’altra metà degli abitanti, all’insaputa di questi ultimi. Poi si scambiano le fotografie, facendo commenti. I commenti partono tutti dalla stessa premessa implicita.

Quei pezzi di corpi sono solo pezzi di carne, caratterizzati soltanto da funzioni, dimensioni, caratteristiche morfologiche: grandi, piccoli, proporzionati, belli, brutti, li si può usare per compiere atti che coinvolgono i corpi di chi fotografa, e possono, talvolta e in certe condizioni di patologia psichica, dare piacere. Immaginate, per finire, che le persone che sono questi corpi vengano vilipese, schernite, immaginate in mille posture servili e subordinate, in questi commenti.

La metà fotografata è fatta di donne. I fotografi che commentano, insultano e oggettificano sono uomini. Questo paese è in Italia. I suoi abitanti potrebbero essere nostri amici, conoscenti, colleghi. Di più: questo paese è nella nostra mente. Talvolta, questo paese è quello che visitiamo tutte le volte che parliamo col vecchio amico del liceo, col collega simpatico, con quelli con cui giochiamo a calcetto. Questo paese è l’evoluzione social della chat del calcetto, che a sua volta era l’evoluzione della chiacchiera all’osteria e al casino. Questo paese è il paese dove il patriarcato è un regime della mente, innanzitutto, e il fascismo un modo di vivere.

Questo paese esiste. Sta su Facebook, è un gruppo chiamato “Mia moglie”, con la violenza dell’aggettivo possessivo, della letteralità e dell’istituzione matrimoniale monogamica disvelata per la sua carica di dominio. Un gruppo social – ieri rimosso da Meta per «violazione delle policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti» – dove ci si scambiavano foto di pezzi di corpi femminili, di mogli, forse, e commenti che vorrebbero essere salaci, e sono invece solo violenti. È un gruppo venuto alla luce in questi giorni, prima denunciato da Carolina Capria, poi da Biancamaria Furci, e ne ha parlato su queste pagine Simone Alliva

Cosa dovremmo dire noi

I commenti alla scoperta di questo gruppo Facebook sono soprattutto, o esclusivamente, di donne. E già questo è un fatto grave, che si aggiunge alla gravità di quel che avviene nel gruppo.

Sinora i commenti insistono sul sessismo, sulla violazione del consenso, sul fatto che siamo di fronte praticamente a uno stupro virtuale. Si richiama il caso di Gisèle Pélicot. E questo è quello che debbono dire le donne. Ma che cosa dovremmo dire noi, i compatrioti mentali di quella parte del paese che sto descrivendo?

Dovremmo confessare che non è una cosa inaspettata. Dovremmo ricordarci che questa notizia arriva dopo i quattro femminicidi del mese di agosto in Italia – Emilia Nobili (1 agosto), Fatimi Hayat (7 agosto), Tiziana Vinci (13 agosto), Zinoviya Knihnitska (16 agosto). Dovremmo ammettere che trentaduemila iscritti a un gruppo del genere, tanti erano quelli prima che scoppiasse lo scandalo, non possono essere un accadimento inaspettato.

Sono una normalità atroce che si nasconde bene. Sono il fallimento dei maschi capaci solo di reazioni difensive e tic ripetitivi, solo di nascondere il proprio smarrimento di fronte all’esistenza del genere femminile, un nascondimento o una rimozione ottenuti con la riaffermazione ripetitiva e psicotica della parte più becera del maschile patriarcale. Trentaduemila iscritti sono una devastazione psicologica, un’incompetenza esistenziale, una disfatta morale, una catastrofe sociale che divengono crimini e ingiustizie.

La cura dei maschi è diventata una emergenza vera e propria. Il sottile discrimine fra atteggiamenti e azioni, fra mentalità criminale e crimine rischia di venir meno. È compito di ogni maschio, in tutti gli ambiti, bonificare il paese che sta dentro la sua mente e convincersi che non esistono pezzi di corpi, ma persone, intorno a noi.


Nathania Zevi
"Mia moglie", perché quel sito Facebook ci insegna che gli uomini sono tutti da rifare

La Stampa, 22 agosto 2025

l 20 agosto Meta ha chiuso il gruppo Facebook “Mia moglie”: nato nel 2019, trentaduemila iscritti, è rimasto attivo per sei anni nonostante le centinaia di segnalazioni che si sono accumulate fino a diventare valanga.

Su come questo sia stato possibile c’è, perlomeno, da interrogarsi.

Parliamo di uomini che pubblicavano foto delle proprie compagne - spesso intime e sistematicamente sottratte senza consenso - accompagnate dall’immancabile “che ne pensate?” seguito da valutazioni, tante valutazioni, che oscillavano tra il sessista e il denigratorio.

Qualcuno osserverà che si tratta di una dinamica già vista, per evitare di dire solita: già perché dalla preistoria, passando per un medioevo che tutto sembra tranne che passato, mascolinità e goliardia sono stati spesso fenomeni inscindibili.

Dal gruppo sportivo al plotone militare, dallo spogliatoio al bar sotto casa.

Vero. Ma ciò che si è consumato in quel gruppo digitale rappresenta una mutazione antropologica di questa alleanza antica: qui non siamo più di fronte alla goliardia come base di un vocabolario, di un codice interno ad un gruppo, ma come sistema di validazione pubblica che trasforma l’intimità privata in contenuto per sconosciuti.

Questo salto qualitativo potrebbe essere cruciale: occorre chiedersi, infatti, se la pulsione primaria degli appartenenti al gruppo “Mia moglie”, non fosse tanto erotica quanto identitaria, fatta di tanti sé alla ricerca ossessiva di una certificazione collettiva della propria maschia virilità attraverso la mediazione, ma soprattutto la condivisione, del corpo femminile.

La compagna, dunque, non come oggetto di un desiderio mio e degli altri, ma come documento probatorio del mio valore di uomo sul mercato della virilità.

Ci troveremmo così di fronte ad un cambiamento della tradizionale goliardia in quella che potremmo definire una nuova maschilità in outsourcingprocesso che per costruire un’identità ha bisogno del timbro della massa, del branco, della corrente per sostituire l’elaborazione personale del sé con l’attesa del verdetto degli sconosciuti, di più sconosciuti possibile.

La donna, in questo quadro, assume così una funzione, nuova eppure così antica, di veicolo, di strumento; mezzo, in questo caso, documentale.

È possibile, inoltre, che questa terrificante dinamica si inscriva in una più ampia trasformazione antropologica che la rivoluzione digitale potrebbe solo avere accelerato: il passaggio da una società della prestazione a una società della performance, dello show, della diretta senza limiti.

Nella prima rimane vivo, seppure con tante involuzioni, un rapporto diretto tra azione e risultato, persona e persona; nella seconda viene introdotta la mediazione fondamentale dello sguardo altrui. Siamo passati, con ogni probabilità, dunque, dal «sono bravo perché riesco. Sono bravo perché conquisto», al «sono bravo perché gli altri me lo riconoscono».

Le radici di questo fenomeno affondano in terreni culturali complessi. Si potrebbe infatti osservare che si sono erosi i tradizionali marcatori di mascolinità - lavoro stabile, ruolo di provider economico, centralità sociale del padre di famiglia - lasciando un vuoto di identità che le nuove generazioni faticano a riempire. Dall’altro, l’economia digitale dell’attenzione crea e incentiva nuovi sistemi di misurazione del valore personale basati su metriche quantificabili: like, condivisioni, commenti.

È forse la convergenza di questi fattori a produrre quella che potremmo chiamare performatività pornografica dell’intimità: tutto ciò che un tempo apparteneva alla sfera privata viene convertito in contenuto pubblico, con la relazione a due, o quella intima, che diventa mera risorsa estrattiva di materiali da immettere nello stream pubblico del riconoscimento.

Un cortocircuito quasi del tutto inconsapevole, attraverso cui più un individuo (in genere un uomo) cerca conferme esterne della propria mascolinità, più ne dimostra la fragilità strutturale.

Ma il gruppo “Mia moglie” ha evidenziato anche le dinamiche di quello che potremmo definire un conformismo dell’eccesso: la pressione sociale, infatti, raramente spinge verso la moderazione ma quasi sempre verso l’escalation. Chi non partecipa rischia la marginalizzazione o l’esclusione; chi rimane deve continuamente alzare la posta per mantenere su di sé l’attenzione del gruppo. Si innesca così una spirale in cui il confine del lecito, anche attraverso la mediazione dello schermo che regala l’illusione che la responsabilità individuale possa diluirsi nell’anonimato del branco, si sposta velocemente verso territori sempre più pericolosi normalizzando comportamenti che, in contesti analogici- se esistono ancora -, verrebbero immediatamente riconosciuti come problematici.

Gli effetti di questa deriva non si limitano alle vittime dirette - donne la cui privacy viene violata irrimediabilmente - ma si estendono all’intero sistema relazionale. Sul versante maschile, si produce una dipendenza dal riconoscimento che rende progressivamente impossibile vivere l’intimità come dimensione autonoma e autosufficiente senza il filtro del giudizio esterno. Su quello femminile si assiste a una oggettivazione che riduce (un’altra volta?) la donna a strumento di validazione maschile, espropriandola del ruolo di soggetto attivo della relazione. La sua voce, in questo caso, letteralmente, esce dall’inquadratura.

E allora la chiusura del gruppo rappresenta una vittoria importante ma insufficiente. Il fenomeno non nasce dalle specifiche di una piattaforma ma da tensioni culturali più profonde che possono facilmente migrare su altri spazi: digitali o meno. La sfida che ci pone non è tecnologica ma antropologica: ricostruire modelli di mascolinità che non abbiano bisogno di un sigillo esterno per sostenersi, che sappiano distinguere tra intimità e performance, tra relazione e condivisione, tra essere e apparire.

Ma sarebbe davvero necessaria anche una riflessione culturale più ampia sui nostri fallimenti e sui modelli di successo maschile che la società tuttora propone, con attenzione particolare ai meccanismi attraverso cui i giovani uomini apprendono a costruire la propria identità.

Eravamo certi di avere già lavorato in questo senso per decenni. Evidentemente non sono stati affatto sufficienti, anni e sforzi.

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