Marco Damilano
I giorni dell'egemonia democristiana: l'Italia che c'era intorno a Baudo
Domani, 18 agosto 2025
Inquadrata dietro vip e persone comuni, in fila al Teatro delle Vittorie, si scorgeva ieri una edicola con le serrande sbarrate. Quando chiuse, un anno fa, il 7 settembre, i proprietari salutarono i clienti con una locandina: «Dopo 63 anni di attività ricorderemo chi ci ha regalato un sorriso». Gli stessi decenni che ripassavano nel teatro, con le immagini proiettate nella camera ardente di Pippo Baudo. In bianco e nero, a salutare in apparenza un pezzo di Italia chiuso per sempre, come quell'edicola.
All'apice del potere baudiano il critico dell'Espresso Sergio Saviane lo scriveva tutto attaccato e con la minuscola, pippobaudo, con sprezzo. Invece oggi l'addio al conduttore sembra coinvolgere il Paese in una emozione collettiva, lo rivelano gli ascolti televisivi e i numeri dei social. In linea con la nostalgia che riempie l'estate 2025, le piazze dei piccoli paesi che sostituiscono le spiagge vuote sono ricche di musiche vintage, mostre di oggetti sugli anni Settanta. La nostalgia è un sentimento ambiguo, non è solo un rimpianto del passato, è una reazione al presente asfittico. E così Baudo che ieri sembrava arrogante ora ci appare come uno di casa, che chiedeva permesso prima di entrare. Forse un po' ipocrita, ma educato, civile, umanamente discreto.
La “società spugna”
Di Baudo si è scritto (Marco Follini) che è stato l'egemonia democristiana, l'unica possibile per il partito-Stato. Per pura casualità, la sua scomparsa coincide con l'anniversario della morte di Alcide De Gasperi, il 19 agosto 1954. Presidente del Consiglio e fondatore della Dc, «partito inatteso», lo ha definito Gianfranco Astori nella sua lectio sullo statista a Pieve Tesino, «percepito come un soggetto dall'identità sfuggente, indecifrabile, da rimpiangere genericamente o da rimuovere». Alla sua morte un mare di gente aspettò nelle stazioni il treno che riportava il feretro a Roma dal Trentino. La Repubblica dei partiti nacque con i funerali di De Gasperi e morì con quelli di Aldo Moro, nel 1978, nella basilica di San Giovanni, senza gente e senza bara. In mezzo c'era stata l'epoca dei partiti-famiglia, i partiti-padri-padroni, i partiti-mamma: affettuosi, ingombranti, soffocanti. Come la televisione di Baudo, che sul palco di Sanremo accoglieva, assorbiva, rappresentava tutto: operai in cassa integrazione, aspiranti suicidi, cavalli pazzi. Baudo era in tv la «società spugna» di Giuseppe De Rita. Aveva il carisma del conduttore e del mediatore. Restava fedele al dogma democristiano, e ancor più costituzionale: chi dirige deve accompagnare la società, non comandarla.
La Prima Repubblica televisiva finì in anticipo su quella politica, nell'inverno 1986, di cui Baudo fu protagonista. Prima la barzelletta di Beppe Grillo a Fantastico sui socialisti che rubano, poi la lite in diretta con il presidente della Rai, l'ex ministro socialista Enrico Manca, che in un'intervista lo aveva definito «nazional-popolare». Baudo scelse l'ultima puntata per replicare: «È una offesa. Vuol dire che farò programmi regionali e impopolari». Intanto c'era stato un passaggio d'epoca. Il 7 dicembre 1986, per la prima volta, l'Auditel aveva fotografato i reali rapporti di forza tra la Rai e la Fininvest, con il cavallo di viale Mazzini quasi superato dal Biscione.
Lo sfogo televisivo pareva anticipare quelli successivi (il vaffanbicchiere di Michele Santoro contro un altro direttore Rai), invece era l'ultimo tentativo di difesa prima del crollo. Già allora Baudo sembrava il personaggio di Fellini in Ginger e Fred (1985), il Pippo assediato dalla tv del cavalier Fulvio Lombardoni. Traslocò nelle reti di Berlusconi e poi ritornò in Rai: la tv commerciale, berlusconiana, gli appariva al servizio di una parte, come poi sarà Forza Italia: l'opposto del servizio al pubblico e allo Stato (lui di sé diceva; «sono storicamente, familiarmente, psicologicamente, idealmente di centrosinistra»).
Nel 1987, al posto suo, a condurre Fantastico fu chiamato Adriano Celentano, con i monologhi e i silenzi interminabili, «una mistura sapiente tra la forza della televisione e la democrazia plebiscitaria», commentò Eugenio Scalfari. «Celentano interpreta quest'atmosfera di frustrazione, di rabbia, di trasgressione salvifica. Farà scuola. Qualcuno prima o poi perfezionerà l'esperienza, la volgerà a fine mirato e politico».
Finiva l'epoca di Baudo, cominciava quella della gente. Sarà ancora lui, nell'ultimo Sanremo (2008), a denunciarlo: «Scazzottiamoci, prendiamoci a sputi in faccia. Così imbarbariamo, fottiamo il pubblico, avremo un'Italia di merda». La Seconda o la Terza Repubblica in cui siamo immersi, che giustifica la nostalgia. Meglio l'eleganza di Baudo in smoking, con Corrado, Enzo Tortora e Mike Bongiorno, di quei due ceffi travestiti da statisti che l'altra notte si davano di gomito in Alaska. Ma quella di Baudo non è stata l'autobiografia di una generica nazione, fuori dalla storia, come piace tanto a quelli che amano citarla con la maiuscola. È l'Italia della nostra storia recente, che oggi si vorrebbe mettere tra parentesi, per lasciare spazio a un potere assoluto che in realtà è drammaticamente debole.
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