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| La metropolitana di Napoli |
Barbara Carnevali
Il modello Milano e una metropoli da restituire ai suoi abitanti
La Stampa, 11 agosto 2025
Nei due articoli precedenti ho offerto un’analisi del Modello Milano: la ricostruzione della sua genesi (la conversione della città industriale in città creativa) e un bilancio delle entrate e delle uscite allo stato presente. Il modello è in crisi a causa della crescita inaccettabile delle diseguaglianze e della cessione ai privati della cosa pubblica: la polis è in mano a pochissimi – gli speculatori edilizi e i ricchi che possono permettersi di comprarla e consumarla. Per concludere questo piccolo ciclo sul futuro della città, vorrei ora chiedermi: possiamo recuperare ciò che di buono c’era in quel modello riconciliandolo con la giustizia sociale? Possiamo guardare avanti e, senza cedere al romanticismo, restituire la metropoli ai suoi abitanti?
Perché nessuna proposta può prescindere da questo: Milano è «la metropoli per definizione», come scrisse Fernand Braudel, che la considerava la vera capitale italiana. Dobbiamo criticarla e raddrizzarla, come le sue brutte torri storte, ma non possiamo trasformarla in ciò che non è. Non ha senso rimpiangere i tempi in cui si poteva giocare per strada o pranzare in latteria. Sono nata a pochi metri dalla via Gluck e non ho sofferto per la mancanza di erba (che peraltro c’era ancora, lungo la Martesana, piena di siringhe), quanto del fatto che il quartiere fosse mal collegato, impedendo all’adolescente che voleva godersi la città di muoversi in autonomia. È assurdo lamentarsi che oggi a Milano si facciano cose diverse da ieri, così come prendersela coi grattacieli, quintessenza della sua modernità (lo ricordava Gio Ponti, spiegando che gli architetti adorano Milano proprio perché non è tanto bella di suo: saranno loro a donarle le grazie che Dio le ha negato, spodestando il creatore e diventando divinità laiche). E ancora, Milano non va giudicata col metro di Roma o Firenze, delle città d’arte. È come Kate Moss, è una “bellezza moderna”: nervosa e volatile come la moda, la stampa e la finanza, fatta di loghi e luci scintillanti, inseparabile dal traffico, dalla circolazione incessante di denaro, idee, persone, merci. Quando Adriano Olivetti ha voluto aprire il suo ufficio di comunicazione, ha scelto Milano, non la comunitaria Ivrea. E quando la famiglia Parondi, nel film di Visconti, sale sul tram che la porta a Lambrate, Simone esclama: «Rocco, guarda quelle vetrine! Che luce! Sembra giorno». Se, come è stato scritto di New York, l’inconscio metropolitano è quello delirante delle montagne russe, non dobbiamo stupirci che Milano sia cresciuta in un carosello di fiere e di jingle, e che il quartiere di Porta Nuova sia sorto al posto di un luna park. L’illusione e la pubblicità, per definizione millantatrice, sono inseparabili dal fascino milanese, a un tempo visionario e un po’ blasfemo come i suoi numi tutelari futuristi, come le campagne di Oliviero Toscani, come la foresta di réclame al neon che fino a qualche decennio fa si affacciava sul Duomo.
Se vuole restare fedele a se stessa Milano non può rinnegare la sua identità onirica, sbocciata già all’inizio del secolo scorso. Ma è importante precisarlo: il “desiderio metropolitano” non è l’esclusiva di turisti e influencer, è quello della gente comune che aspira a farsi una vita, a fuggire dalla povertà o dalla provincia asfissiante, a reinventarsi o emanciparsi, dall’emigrante al parvenu, dalla ragazza ribelle allo smalltown boy e alla persona transgender. La metropoli è una promessa di libertà: spetta alla politica realizzarla e governarla, cercando una sintesi tra desideri e bisogni, sete di esperienza e capacità di cura (il welfare). Può far da guida un concetto che consideravamo superato, sepolto dalle critiche di chi, accusandolo di paternalismo, ha tolto il freno che impediva allo sviluppo milanese di sfociare nel liberismo selvaggio: il “progetto”, inteso come pianificazione (urbana, architettonica, sociale) concilia la politica con la spinta in avanti del desiderio. È quella visione che, sotto la guida della politica, unisce amministratori, imprenditori, architetti, comunicatori, stabilendo i rispettivi ruoli, orientando l’azione verso i fini comuni, distribuendo equamente i profitti. Solo un progetto urbano degno di questo nome può far convivere iniziativa privata e bene pubblico, perché presuppone che l’interesse sia quello della collettività e non dei privilegiati. Il progetto è il “corrimano etico” che promette alla città che sale di portare tutti con sé, come diceva uno dei più grandi progettisti milanesi, il designer Enzo Mari, convinto di poter trasformare in manifesti politici persino sedie e zuccheriere: «Come fare a progettare una cosa “bella e buona” per tutti, comprensibile e apprezzabile da tutti, anziché farla restare patrimonio di una piccola élite?».
Nella storia della Milano moderna ci sono tanti progetti di questo stampo, ma uno è esemplare. È il progetto della metropolitana milanese, voluto nel dopoguerra per concludere la ricostruzione e celebrare il nascente miracolo, e per il quale la prima amministrazione di centrosinistra assoldò i migliori architetti del tempo. Lo studio di Franco Albini e Franca Helg, con il grafico Bob Noorda, allestì l’umile sotterraneo della città come uno spazio aperto a tutti, funzionale ed elegante, che conciliava la destinazione democratica con il design d’avanguardia: stile industriale, grafica limpidissima, arredi di pregio prodotti con la collaborazione delle aziende cittadine, da Pirelli a Kartell. Le migliori risorse economiche e creative milanesi furono investite in un servizio pubblico, non in una residenza da emiri. E fa riflettere che il progetto originario, celebrato nei musei di tutto il mondo, sia stato sfigurato in preparazione dell’Expo 2015, sotto l’amministrazione Moratti. E se il declino di Milano fosse iniziato nel momento in cui è venuto meno il progetto politico che orientava l’innovazione verso l’equità?
Di questi ultimi giorni è la notizia che Torino ha avviato il concorso internazionale per l’allestimento della linea due della sua metropolitana: sarà l’occasione per testare l’attualità di queste idee, e per aggiornarle: una città postindustriale, nell’emergenza ecologica, non ha le stesse esigenze e le stesse risorse della Milano del boom. E nemmeno lo stesso gusto estetico: al posto della neutra standardizzazione modernista ci saranno, come a Napoli, “stazioni dell’arte”. Ma anche con i dovuti cambiamenti, la metropolitana resta il progetto urbano per antonomasia: non per caso è l’aggettivo di metropoli. Concilia l’uguaglianza e il diritto alla città (unisce il centro alla periferia, è aperta a tutti, costa poco) con la libertà tipicamente moderna: ogni utente, che sia stabile o di passaggio, se ne serve per andare dove desidera e per fare quello che desidera. Ecco la progettualità da ripensare in base ai nuovi modelli di sviluppo.

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