Lucia Capuzzi, "Via gli arabi". Il suprematismo che ha ispirato l'estrema destra israeliana
Avvenire, 9 agosto 2025
«E poi Davide tolse la testa a Golia dalle spalle e allontanò l’umiliazione da Israele. Allontaniamo gli arabi da Israele e portiamo la redenzione. Loro devono andare». Era il 1981 quando Meir Kahane scrisse queste parole nel saggio "Loro devono andare", una sintesi del suo pensiero suprematista. Il rabbino, nato a New York nel 1932 e assassinato là nel 1990, è il teorico del “trasferimento”: l’espulsione dei palestinesi dal Giordano al Mare per consentire la creazione di uno Stato ebraico. Per le idee apertamente separatiste – era ferocemente contrario ai matrimoni tra ebrei e arabi – e razziste, Kahane e Kach, il partito da lui creato, furono messi al bando dalla Knesset. Poco più di quattro decenni dopo, il «diritto esclusivo e insindacabile degli ebrei sull’intero Israele» e la promozione di «insediamenti ovunque» sono i pilastri della coalizione al governo del Paese dal 2022.
È indubbio che, nell’ultimo mezzo secolo, il partito conservatore Likud sia virato progressivamente a destra, con la perdita delle componenti centriste e la crescita dell’ala radicale, ossessionata dal mantra della “sicurezza”. Solo, però, con la trasformazione del kahanismo da paria e stampella politica imprescindibile per Benjamin Netanyahu, la cui maggioranza dipende dai 14 seggi ottenuti dall’alleanza ultrà alle elezioni del 2022, l’illusione tragica di “cacciare” gli “altri” è tornata a imporsi con prepotenza nel dibattito pubblico. Buona parte degli attuali ministri sostiene senza remore la conquista di Gaza e l’annessione definitiva della Cisgiordania. Il massacro indiscriminato perpetrato da Hamas il 7 ottobre è diventato per la destra radicale la “grande occasione” per passare dalle parole ai fatti. Daniella Weiss, leader del movimento ultrà Nachala, l’ha sintetizzato così: «Con quella strage i gazawi hanno perso il diritto di vivere nella Striscia. Faremo scomparire gli arabi». Simili affermazioni non appartengono al repertorio del movimento sionista-revisionista, «radice e nerbo della destra israeliana», afferma Paolo Di Motoli, ricercatore dell’Università di Torino, attento studioso del nazionalismo religioso in Medio Oriente e, in particolare, della destra israeliana a cui ha dedicato I mastini della terra (Fuori scena). «A Vladimir Jabotinsky, colui che ha fondato l’Alleanza dei sionisti-revisionisti nel retro del Café Pantheon di Parigi nell’aprile di cent’anni fa, anzi, la tesi del “trasferimento” faceva orrore. Considerava “tradito” lo spirito del “padre” del sionismo Theodor Herzl dai suoi eredi, riluttanti a chiedere con forza uno Stato ebraico nell’allora Palestina britannica – aggiunge Di Motoli –. Proprio basandosi sui confini di quest’ultima e non su ragioni bibliche, Jabotinsky sosteneva che la nuova entità dovesse includere le due rive del Giordano. All’interno, però, fatta salva la maggioranza ebraica, gli arabi avrebbero potuto ottenere delle forme di autonomia». Anche per i successori di Jabotinsky, Menachem Begin e Yitzhah Shamir, la componente militarista violenta prevaleva su quella religiosa.A enfatizzare la sacralità di “Eretz Israel” è stato il sionismo religioso di stampo messianico del rabbino Zvi Yehuda Kook e della “sua” yeshiva (scuola rabbinica) Merkaz ha-Rav di Gerusalemme. «Il centro esisteva da prima della nascita di Israele. Ma ha acquisito importanza in seguito alla Guerra dei sei giorni del 1967», sottolinea Arturo Marzano, storico dell’Asia dell’Università di Pisa ed esperto di sionismo, di cui ha tracciato l’evoluzione in Storia dei sionismi (Carocci). L’Occupazione di Gaza, Sinai, Cisgiordania e Gerusalemme Est insieme all’accordo con l’Egitto di dieci anni dopo hanno rappresentato, secondo Marzano, una cesura per la politica israeliana facendo convergere in un blocco unitario oltranzista tutti i gruppi contrari a ogni tipo di accordo con i palestinesi. In questo contesto s’innesta il “fattore K”, cioè Kahane, arrivato in Israele dagli Stati Uniti nel 1971. «Il rabbino newyorkese rielabora il sionismo revisionista in chiave aggressiva, influenzato dalla radicalizzazione del movimento per i diritti civili degli afroamericani – aggiunge Di Motoli –. Tra le fonti di ispirazione di Khahane ci sono Malcom X e le Black Panthers. Da qui la costituzione delle Jewish defense league, gruppi di auto-difesa degli ebrei. Modello che ha cercato di importare in Israele ma è stato messo fuori legge».
Il bando non ha impedito che il khahanismo facesse proseliti, da Baruch Goldstein, autore del massacro di Hebron nel 1994, all’attuale ministro per la Sicurezza Itamar Ben-Gvir. Nel frattempo, si è cementata l’alleanza tra l’ultradestra israeliana e i gruppi fondamentalisti cristiani evangelicali statunitensi. Uno dei principali puntelli del trumpismo. Non è casuale che Washington abbia scelto di inviare come proprio rappresentante presso il governo israeliano l’evangelicale Mike Huckabee, mentre Netanyahu ha spedito negli Usa il khahanista Yechiel Leiter.
La radicalizzazione è giunta a un punto di non ritorno tale da rendere inevitabile lo scontro a oltranza fino all’eliminazione di uno dei due popoli della Terra Santa? Il momento politico – un premier debole, ostaggio dei voti degli estremisti per restare al potere a cui non vuole rinunciare – è propizio. L’epilogo, però, non è ancora stato scritto. «Ci sono, in particolare, tre elementi esterni che possono determinare svolte di segno opposto – conclude Di Motoli –. Gli Stati Uniti, innanzitutto. Davvero lasceranno mano libera a Netanyahu? Poi c’è il fattore demografico palestinese: sono in pratica tanti quanti gli ebrei. Dove andranno? Infine, l’Arabia Saudita: le sue ingenti risorse la rendono un partner molto appetibile per Israele. Vi rinuncerà in nome del sogno kahanista di una terra senza palestinesi?».

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