domenica 10 agosto 2025

Il negoziato

Francesco Strazzari
Rischio massimo trattando sul minimo

il manifesto, 10 agosto 2025

Niente Abu Dhabi, niente Roma. L’annuncio di Trump obbliga i media a un Ferragosto con gli occhi puntati su quell’Alaska che fu russa fino al 1867, a ricordare come, per gli espansionisti, i territori si scambiano. Altro che proclami da fine della Guerra fredda su un ordine internazionale basato sulla sovranità e su diritti inalienabili. Torna la liturgia del mondo bilaterale, l’autoincensazione dei leader delle grandi potenze che si stringono la mano nel Grande Nord.

Trump agirà da padrone di casa. Venerdì saranno passati 1.270 giorni, e alcune centinaia di migliaia di morti, da quando le colonne russe si mossero verso Kyiv per un’operazione speciale che avrebbe dovuto durare qualche giorno, fino alla capitolazione di una nazione data per inesistente.

L’ultima volta che un presidente russo si è recato negli Usa fu dieci anni fa, in occasione dell’assemblea annuale dell’Onu, quando ci fu anche un breve incontro con Barack Obama. L’eredità multilaterale del predecessore è ciò che Trump deve demolire, spinto dall’ambizione di ottenere a sua volta il Nobel per la pace come l’uomo che ha fermato «ridicole carneficine».

Un risultato che, peraltro, Trump dichiara già di aver conseguito, anche se la guerra, da Gaza all’Ucraina, non fa che peggiorare. Nei primi sei mesi della sua presidenza, il numero di attacchi con droni e missili contro civili e infrastrutture ucraine è più che raddoppiato rispetto al semestre precedente. Il Cremlino ha modificato la propria dottrina nucleare in senso più permissivo e ha testato il nuovo Oreshnik, un sistema balistico ipersonico che può raggiungere ogni capitale europea in una manciata di minuti. Si può discutere del valore reale di questi sviluppi, ma il dispiegamento di tali missili in Bielorussia indica che Mosca sta facendo di tutto per farli apparire come potenti minacce. La guerra segue una sua logica e non si può escludere che Putin torni a Mosca e intensifichi nuovamente gli attacchi, mentre Trump dichiara di essere molto deluso.

Dopo le prime telefonate e l’annuncio di un ritorno alla diplomazia dell’hockey su ghiaccio (quintessenza liturgica della Guerra fredda), un incontro di persona tra i leader era nell’aria fin da metà maggio, quando Trump era in visita in Medio Oriente. La svolta sarebbe avvenuta con la quinta visita a Mosca dell’inviato speciale Usa, l’immobiliarista Steve Witkoff. Uno che, a sentire il New York Times, avrebbe contravvenuto al protocollo servendosi di interpreti del Cremlino. Secondo gli ucraini, Witkoff faticherebbe a comprendere chi dovrebbe ritirarsi da cosa e interpreterebbe come una concessione le indicazioni sempre parziali e ambigue di Putin.

Tuttavia gli annunci che sono seguiti, seguendo il consueto copione da mondo degli affari, hanno enfatizzato l’imprevedibilità come grande asset negoziale in un processo «ancora fluido». Ai suoi alleatiidentali europei, schierati con Kyiv a difesa del proprio fianco orientale, è stato concesso un incontro a Londra: il protagonista di questa scena secondaria è il vice J.D. Vance, addetto alle operazioni di comunicazione e alle provocazioni. Accusato di crimini di guerra, Putin, per parte sua, non solo porta a casa legittimità e status, ma spera anche di allontanare lo spettro della recessione prevista per il 2026. Ma il mondo non è più bipolare: sullo sfondo del protagonismo statunitense, mentre si usa la clava dei dazi per ridisegnare il commercio e l’industria globali, è difficile non vedere un messaggio rivolto all’Europa, alla Cina, in vista del vertice previsto per l’autunno, e all’intero blocco emergente dei Brics. Non è un caso che, oltre al Brasile, anche l’India, sostenuta da Washington nello scontro con il Pakistan ma che è un grande importatore di idrocarburi russi, si ritrovi con dazi al 50%. Il presidente Modi si è precipitato a dare l’endorsement al summit in arrivo.

Il minimo che Trump può ottenere è uno stop chiaro ai bombardamenti sulle città ucraine. Sul contenuto del negoziato circolano solo ipotesi. Trump ha chiarito che si parlerà di scambi territoriali, ma è difficile capire quali territori verrebbero scambiati, dal momento che la Russia ha messo fine all’incursione ucraina nel Kursk, grazie anche alle scelte di Trump. Forse lo scambio riguarderebbe territori rivendicati da Mosca: una rinuncia all’espansione su Kherson e Zaporizhzhia in cambio del riconoscimento della sovranità su quelle province ucraine in cui la guerra va avanti dal 2014, ovvero l’intero Donetsk, dove gli ucraini resistono a fatica, oltre al Lugansk e alla Crimea.

Per quanto esistano molti segnali di stanchezza e di critica da parte della grande maggioranza degli ucraini nei confronti della mobilitazione di guerra, una pace firmata in questi termini, che ottenga solo la cessazione delle ostilità, sarebbe vista come vessatoria e difficilmente accettabile. Del futuro di Zelensky, si può star certi, a Trump non importa nulla: ma cosa succederebbe alle molte questioni politiche, sociali ed economiche (incluse quelle alimentate dai nazionalismi dei vicini europei) a cui la priorità della difesa dell’aggressione ha messo la sordina fino a oggi?

D’altronde, se le «radici del problema» che il Cremlino continua ad additare come il nodo centrale si traducono nell’umiliazione ucraina, diventa difficile pensare a come un’Ucraina estremamente fragile e neutrale possa sopravvivere in mezzo a una regione in piena militarizzazione. Tanto più che queste dinamiche, a partire dal riarmo, sono sostenute dagli stessi americani. Se cedesse molto all’espansionismo dell’aggressore, ai sovranismi e ai nazionalismi, la svolta del summit in Alaska non rappresenterebbe un punto di arrivo, sia pur precario, ma piuttosto – misurato con il passo della storia – un punto di ulteriore cedimento verso la destabilizzazione dell’Europa a partire dalle sue frontiere orientali.

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