domenica 31 agosto 2025

Il Sud globale alla ribalta


Lorenzo Lamperti
Putin-Xi-Modi: l'alleanza anti-Occidente

La Stampa, 31 agosto 2025

 Un mese fa Ursula von der Leyen e Antonio Costa erano stati ricevuti all’'interno del gate dell’aeroporto, dove erano arrivati a bordo di un bus. Stavolta, sulla pista e sotto i piedi di Narendra Modi c’era un lungo tappeto rosso. La Cina accoglie il “resto del mondo”, quello non occidentale, che si è dato appuntamento in massa alla corte di Xi Jinping. Oggi inizia a Tianjin il summit Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shanghai), piattaforma di sicurezza di cui fanno parte anche Russia, Bielorussia, India, Pakistan, Iran e le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Ci sono tutti: Vladimir Putin, Aleksandar Lukashenko, Shehbaz Sharif e Masoud Pezeshkian. Ma anche i leader di una sempre più ampia schiera di aspiranti membri e partner di dialogo di Sud-Est asiatico, Medio Oriente, Africa e Sudamerica. Tra gli altri, il turco Recep Tayyip Erdogan, l’indonesiano Prabowo Subianto, il premier egiziano Mostafa Madbouly. «Il Sud globale non è più la maggioranza silenziosa, ma una nuova forza che fa sentire la sua voce», ha annunciato trionfalmente Pechino presentando il vertice.

Modi è il più atteso, alla prima visita dal 2018 dopo anni di enormi tensioni commerciali e militari con Pechino. Il disgelo è partito dopo che Donald Trump ha colpito Nuova Delhi con dazi punitivi per l’acquisto di petrolio russo. Ieri il premier indiano ha parlato con Volodymyr Zelensky, che gli ha chiesto di sostenere la tregua di fronte a Putin e Xi Jinping, coi quali avrà dei bilaterali e (forse) un trilaterale. Probabile che dietro le quinte si parli di una ipotetica missione di peacekeeping a guida sino-indiana, oltre a possibili strategie per attutire o aggirare sanzioni e dazi americani. La presenza di Modi dà maggiori profondità alla Sco, così come ai Brics: le tensioni tra Pechino e Nuova Delhi hanno sin qui impedito un completo allineamento dei due gruppi, che ora potrebbero implicitamente ambire al ruolo di “anti G7”. Non a caso, non si parlerà solo di sicurezza, ma anche di commercio, infrastrutture, energia e governance digitale.

Dopo il summit in Alaska con Trump, invece, Putin riafferma nel modo più spettacolare il legame con Xi. «La nostra partnership è una forza stabilizzatrice degli equilibri internazionali», ha detto il presidente russo all’agenzia di stampa cinese Xinhua, chiarendo il senso anti-occidentale che dà alla visita: «Il militarismo giapponese viene rianimato e l’Europa, Germania inclusa, sta compiendo passi verso la rimilitarizzazione, con scarsa attenzione ai parallelismi storici», continua, presentando Cina e Russia come paladine dell’antinazismo e antifascismo. Un modo per reiterare le mire presenti e future, comprese quelle di Pechino su Taiwan.

Dopo anni di pressing, Putin cerca il via libera al gasdotto Power of Siberia 2, su cui sin qui Xi ha temporeggiato. E sarà seduto al fianco del presidente cinese in piazza Tian’anmen, durante la mega parata militare di mercoledì con cui Pechino celebra l’ottantesimo anniversario della vittoria contro il Giappone. Dall’altro lato, ci sarà Kim Jong-un, la cui presenza è stata annunciata in extremis. È la prima volta che Xi vede Kim e Putin nello stesso momento. Un messaggio simbolico forte, che arriva dopo il trattato di mutua difesa Pyongyang-Mosca e l’invio di migliaia di truppe nordcoreane a combattere contro l’Ucraina. Per questo, dall’Europa arriveranno solo lo slovacco Robert Fico e il serbo Aleksandar Vucic, mentre quasi tutti gli altri Paesi non dovrebbero presenziare nemmeno con gli ambasciatori.

La Cina rischia un contraccolpo negativo d’immagine, ma Xi ha bisogno di riannodare il turbolento rapporto con Kim per non lasciarlo alla mercé di Putin. Peraltro, Trump ha appena ribadito di voler incontrare il leader supremo nordcoreano: ipotesi sostenuta dalla Corea del Sud, presente alla parata con il presidente del parlamento. Ospitando entrambi, Xi segnala alla Casa Bianca che è lui l’attore chiave per rilanciare il dialogo con Mosca e Pyongyang, che non possono (e non potranno) essere separate da Pechino. Nel frattempo, Xi ha già ricevuto una serie di leader, tra cui il generale golpista birmano Min Aung Hlaing e Antonio Guterres. «La Cina garantisce stabilità e certezza», ha detto al segretario generale dell’Onu. D’altronde, per il “nuovo timoniere” presiedere il doppio evento significa salire sul palcoscenico da cui la Cina si erge a leader del Sud globale, o meglio del mondo non allineato all’Occidente.

Fabrizio Tonello
Trump consegna alla Cina le chiavi dell'ordine globale
il Manifesto, 2 settembre 2025

L’egemonia americana post-1945 si basava su quattro fattori: un prodotto nazionale lordo che inizialmente rappresentava circa il 50% del pil mondiale; il dollaro come moneta di riserva per l’intero pianeta; la superiorità nucleare; il soft power in tutti i campi: consumismo, musica, cinema.  Questa posizione di leadership era mantenuta e irrobustita da una infrastruttura di alleanze che coprivano il pianeta dal Polo Nord all’Australia (Nato in Europa, Seato in Asia).

Il vertice di Tianjin ha mostrato che quei tempi sono lontani. Il pil degli Stati uniti oggi è circa la metà di allora, attorno al 26%, mentre Cina e India insieme rappresentano il 24%, senza contare gli altri paesi invitati (Russia, Turchia, Iran, Pakistan e altri). Il dollaro non è più la moneta di riserva incontrastata anche se conserva un peso preponderante: oggi circa il 54% degli scambi commerciali mondiali è denominato in dollari, mentre il 30% avviene in euro, il 4% in yuan, un altro 4% in yen giapponesi e il resto in altre valute.

Le potenze nucleari nel 1945 erano una (gli Stati Uniti), nel 1948 divennero due (Usa e Urss) oggi sono 9 (con Cina, India, Pakistan, Israele, Nord Corea, Francia e Gran Bretagna). Il fascino della vita americana (consumi sfrenati, corsa all’arricchimento, disprezzo per l’ambiente) si è esteso praticamente all’intero pianeta ma, proprio per questo, non è più un modello ma semplicemente la normalità del XXI secolo.

In questa situazione assai differente si potrebbe supporre che gli Stati Uniti abbiano più bisogno di alleati oggi di quanto non ne avessero 80 anni fa, o anche solo 40 anni fa: al contrario, dopo il suo insediamento il 20 gennaio l’amministrazione Trump non ha impiegato neppure due settimane per dimostrare che America First significava piuttosto America Alone, facciamo da soli, non abbiamo bisogno di alleati: pagate il dazio! Non solo: la patria dell’impresa privata, il tempio del Capitalismo con la “C” maiuscola ora imita le partecipazioni statali italiane, con il governo che prende una quota di 10% di Intel, tiene a galla Boeing e annuncia altri accordi simili con le proprie multinazionali.

La brutalità con cui Trump sta estorcendo quattrini a Europa, Giappone, Canada e altri paesi “amici” ha avuto l’effetto paradossale di fare della Cina il campione del libero scambio, del rispetto delle regole internazionali, delle trattative al posto dei ricatti. Il che trascina nella sua orbita paesi che non hanno nulla a che fare con il “socialismo in salsa cinese” ma sono abbastanza grandi e nazionalisti per respingere le pretese neocoloniali di Washington: India e Brasile, per esempio. Al contrario degli inetti politici europei, da Giorgia Meloni a Emmanuel Macron passando per il cancelliere tedesco Friedrich Merz, i pur diversissimi leader di Delhi e Brasilia hanno tenuto la schiena diritta.

Più che la presenza di Putin, che ha firmato senza neanche alzare il sopracciglio la dichiarazione comune che invoca rispetto per «sovranità, indipendenza e integrità territoriale», che lui viola da tre anni e mezzo in Ucraina, a Tianjin si è vista una distensione tra India e Cina che potrebbe trasformarsi in alleanza, mettendo insieme due paesi assai differenti ma che insieme rappresentano tre miliardi di persone, un terzo della popolazione mondiale. All’incontro erano presenti anche i paesi dell’Asia centrale oltre a Iran, Turchia e Vietnam: palesemente non era un meeting di ordinaria amministrazione.

In altre parole, l’incontro è stato possibile solo e soltanto perché l’amministrazione Trump ha di fatto consegnato le chiavi del nuovo ordine mondiale a Xi Jinping: se gli Stati Uniti intendono prosperare nel disordine, a lanciare l’ordine post-occidentale sarà qualcun altro. Washington è ancora in grado di fare ottimi affari, costringendo per esempio i servili governi europei a comprare energia e armi negli Stati Uniti, ma il potere di coordinamento è l’essenza dell’egemonia e, se l’America rinuncia a esercitarlo, la Cina è un buon candidato alla successione.

In tutto questo il problema è che l’impero in declino può e vuole fare molti danni al resto del globo: non è chiaro quanto i paesi della Shanghai Cooperation Organization siano in grado di trovare approcci comuni a problemi come la fine della guerra in Ucraina, le tensioni fra Cina e Taiwan, il varo di una moneta alternativa al dollaro, la cooperazione commerciale fra loro. I sorrisi e le strette di mano a beneficio delle telecamere hanno mandato un messaggio potente al resto del mondo ma Xi Jinping resta Xi Jinping, Narendra Modi resta Narendra Modi e Vladimir Putin resta Vladimir Putin.

Non solo: per creare un nuovo ordine multilaterale occorre in qualche modo inglobare l’Unione europea, che in questo momento recita la parte del servo sciocco degli Stati Uniti ma è pur sempre un’entità che rappresenta 450 milioni di consumatori e il 15% del pil mondiale.


Giuliano Ferrara

Le tragiche disfatte di Trump

Un occidente diviso e impotente, un asse potente tra Russia, Cina, India, Turchia, Corea del nord e Iran, un’america teatro di conflitti fratricidi. Trump e le sciagure dell’america first (e no, all’italia non basta essere il paese ponte)

Il trionfo di Trump geopolitico è presto detto. Ora c’è un Occidente diviso e impotente, ma c’è un asse tra Russia Cina India Turchia Corea del nord Iran Kazakistan e vari altri unito nelle premesse e potente come un’ombra d’acciaio. Temevamo una nuova Yalta, c’è Shanghai, coi fiori e tutto. Si attendono Budapest e Bratislava. Speravamo nella pace in Ucraina o in un più modesto cessate il fuoco, c’è una pioggia di missili e droni, e la capa di Bruxelles deve fare un atterraggio di emergenza. Al demente di Washington restano l’amicizia con Bolsonaro e poco altro, a parte il gangster che accoglie i suoi “rimpatriati”. Un capolavoro. America first è America di secondo rango. Ormai un’agenzia immobiliare impegnata sull’implausibile futuro di Gaza-Montecarlo e ostile ai visti per i palestinesi superstiti della Cisgiordania. Bel colpo, Anchorage. Narcisismo e autoritarismo si rivelano traditori, tradiscono un progetto che parla di Golden Age e mette ali di piombo al paese inutilmente più potente del mondo che fu, del mondo di ieri. Materia di riflessione per gli amici dissimulati del trumpismo in tutto il mondo, Italia compresa. Da certi abbracci bisogna sapersi sciogliere in tempo. Il gauleiter americano è forse pronto a abbandonare del tutto la politica estera e di sicurezza, ora che ha rovinato il proprio sistema di alleanze e ne ha costruito un altro fatto su misura per contrastarlo, trasformando nel frattempo il suo paese nel teatro di un conflitto fratricida in cui la resistenza di media e giudici è ancora l’unica flebile garanzia di sopravvivenza della democrazia e dello stato di diritto. Il grande ripiegamento è nei fatti. Non sembra allo stato avere molte alternative. Tutti quelli con la testa sulle spalle lo denunciano come una prospettiva realistica, senza altre vere opzioni. Urgente metterci una pezza, e che non sia la classica pezza a colori, almeno nel sistema Europa o in quel che ne resta. Noi siamo sempre stati specialisti nello stare né di qua né di là. La politica famosa del piede di casa ci ha portato, fino al momento delle scelte, una relativa tranquillità.

Poi catastrofi notorie. Non è più così, non dovrebbe essere, anche solo per pragmatismo di governo. Il Cremlino ci tratta come un territorio politico potenzialmente colonizzabile, e noi gli mandiamo un ambasciatore per carità rispettabile ma nell’immagine utile solo alla loro propaganda. Litighiamo con un premier francese uscente, essendo diventati un paese che attrae ricchezza e promette stabilità, e ne gode al 110 per cento, ma in un quadro fragile e autolesionista di ideologia autoinflitta della decrescita pseudoegalitaria, da Milano in giù via procure e giornalate. Afferrarsi per i capelli è necessario a tirarsi fuori dalla pozzanghera trumpiana, perché l’unità dell’Occidente non è più una politica, se alle condizioni dettate dall’erraticità di Trump, ma un flatus vocis inudibile. Nessuno ha bisogno di eroismi, a parte gli ucraini che ne abbondano, o della platealità impraticabile delle rotture vocalizzanti, e tutti abbiamo bisogno degli Stati Uniti. In questo il piede di casa aiuta a camminare. Ma occorre dimostrare ciò che non appare, che l’Europa è un affare serio per tutti, risoluta a non farsi prendere in giro nemmeno in nome dell’atlantismo e della Nato, e che l’Italia agirà da paese serio, non solo da pontiere che scavalca a parole un tragico abisso.

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Tianjin non è altro che l'antica Tientsin. Dal 1901, grazie all'intervento delle potenze straniere contro i ribelli nella Rivolta dei Boxer, l'Italia, l'Impero britannico, la Francia, il Giappone, la Russia, l'Impero austro-ungarico ed il Belgio ebbero delle concessioni territoriali nella città. Quella italiana fu utilizzata principalmente come sede diplomatica per l'Oriente e presidio della Regia Marina. (Wikipedia)

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