mercoledì 13 agosto 2025

La pace tardiva


Andrea Lavazza
Fare pace adesso sarebbe un tributo alla resistenza dell'Ucraina

Avvenire, 13 agosto 2025

All’avvicinarsi dell’incontro tra Donald Trump e Vladimir Putin in Alaska – un faccia a faccia che potrebbe tanto rivelarsi storico, nel bene o nel male, quanto interlocutorio e deludente – ha senso riconsiderare un tema generale e decisivo, da diverse prospettive sempre presente nel lungo e accorato dibattito sulla guerra scatenata dal Cremlino il 24 febbraio 2022. Il punto – e il quesito – in sé risulta piuttosto semplice. Se adesso si andrà, dopo tre anni e mezzo di feroci e sanguinosi combattimenti, a uno “scambio di territori” (secondo l’eufemistica definizione di “cessione” usata dal presidente americano), non valeva la pena di concedere subito alla Russia ciò che oggi reclama in cambio della tregua, risparmiando la vita di centinaia di migliaia di civili e combattenti, oltre a immani distruzioni e un costo indiretto pagato anche da Paesi non belligeranti? Non avrebbe dovuto Volodymyr Zelensky accettare le condizioni poste da Mosca nei negoziati di Istanbul subito dopo l’invasione, nel marzo del 2022, evitando di dissanguare il suo popolo per ottenere lo stesso risultato?

Le risposte possono essere, ovviamente, diverse e sfumate. Proverò qui a giustificare perché la mia opzione è “no” a entrambe le domande, sapendo che molti potranno essere in legittimo disaccordo. Innanzi tutto, sotto l’ordine internazionale sancito dalla Carta dell’Onu, cui anche la Russia aderisce pienamente, nessun territorio di uno Stato può essere “conquistato” con un’azione armata unilaterale da parte di un altro Stato.

Dimenticare o sottovalutare la flagrante violazione del diritto, accettare che la legalità sia solo una parola sulla carta, a disposizione di chi lancia missili e bombe su soldati e su città all’interno di un progetto espansionistico, significa lasciare aperta la porta a tutti gli imperialismi risorgenti e mettere tutti gli agnelli alla mercé dei lupi irrispettosi di ogni regola.

Per questo l’Unione Europea è a fianco di Kiev nell’opporsi con fermezza che al tavolo dei leader mondiali si possa semplicemente prendere atto dell’annessione rivendicata da Putin e già inserita nella Costituzione russa degli oblast di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson, peraltro non ancora completamente conquistati militarmente.
Ma se le forze ucraine non riescono più a contenere l’avanzata di Mosca (e gli Stati Uniti e la stessa Ue non vogliono o non possono incrementare il loro sostegno alla difesa del Paese aggredito), allora non esiste altra via che trovare un’intesa con il Cremlino, anche se profondamente ingiusta.

Di fronte a questa constatazione, vi sono due elementi da sottolineare. Il primo è che un cedimento verso una pace almeno provvisoriamente “inaccettabile” non è una capitolazione quale sarebbe stata la resa immediata o l’accettazione delle intese proposte dalla Russia all’inizio del conflitto, quando tutti o quasi scommettevano su una sconfitta rapida del Davide ucraino davanti al Golia di Mosca. Così, infatti, non è stato. Se oggi l’Ucraina, pur privata di quasi il 20% del suo territorio – che non è un semplice spostamento dei confini nel deserto, ma una tragedia per i sei milioni di persone che le abitavano –, spera ancora in un ingresso nella Ue e un futuro di indipendenza ancorata all’Occidente, ciò è merito della resistenza eroica del suo popolo insieme al sostegno dei Paesi Nato e di altri volenterosi. I quali possono semmai pentirsi di non avere spinto maggiormente sulle sanzioni e sull’isolamento di Putin per ottenere prima la fine delle ostilità e a condizioni migliori delle attuali.

Il secondo elemento, potenzialmente controverso, sta in questo: cedere i quattro oblast a Mosca dopo tre anni e mezzo di combattimenti in cui Putin ha sperimentato la difficoltà di un progetto di asservimento dell’intera nazione che riteneva di poter realizzare in poche settimane non è la stessa cosa che farlo nella primavera del 2022. L’Ucraina ha davvero combattuto per il mondo libero e messo un freno all’imperialismo del Cremlino. Non si tratta del cinismo di osservatori distanti dalle trincee, né dell’idea di usare i soldati di Kiev come puri mezzi, in spregio alla massima kantiana di vedere sempre i nostri simili anche come fini. Tantissimi ucraini si sono arruolati volontariamente per fermare l’invasore e anche le nazioni europee hanno pagato un prezzo (benché di entità assai minore) con il prolungarsi della guerra: dall’accoglienza di milioni di profughi all’esborso diretto di oltre 130 miliardi di euro per il sostegno civile e militare, oltre allo choc energetico del primo anno di conflitto e alla drastica riduzione dell’interscambio economico con la Russia.

Tutto questo permette a Kiev di sedersi al tavolo del negoziato – se come auspicabile vi si arriverà dopo il summit a due in Alaska – con qualche carta ancora da giocare e fa sì che, se Trump non farà inopinate concessioni a Putin, gli autocrati comprendano che non avranno gioco facile a imporre la loro logica di prevaricazione. Non si dovrebbe mai esaltare un conflitto, tanto meno uno che molti lutti ha provocato. Tuttavia, possiamo in questa fase provare a dare un senso a tanto orrore. La pace è sempre il bene più grande, ma una pace concessa ai prepotenti può essere di breve durata e anticamera di guerre peggiori. Ricordiamo che l’invasione russa della Crimea nel 2014 fu “digerita” senza troppe reazioni, dando al Cremlino l’impressione di poter agire su più vasta scala. Anche per questo non dobbiamo abbandonare ora gli ucraini, qualunque saranno le mosse della Casa Bianca nel summit con Putin di venerdì.

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