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| Henri Rousseau, La guerra, 1894 |
Carlo Salsa
Trincee. Confidenze di un fante
Mursia, Milano 1982 [1924]
Giunge
un altro ferito, portato a braccia, che si lamenta con una cantilena
musulmana e dondola la testa senza tregua, tentando di tratto in
tratto di divincolarsi con dei sussulti improvvisi. È
stato raggiunto poco fa, mentre stava rientrando, da una scheggia
frastagliata come un pezzo di carbone che gli ha sfondato la
spalla.
Lo faccio posare per terra, in attesa che Sangiorgi
giunga con la sua borsa di sanità: in breve, il posto dove è
collocato si trasforma in una pozzanghera di sangue. Improvvisamente
il ferito si leva sui gomiti e urla:
"Se trovo chi
grida ancora 'Viva
la guerra!'...".
Un tracollo lo ributta giù, sui suoi
stracci inzuppati.
"Ah, sì, viva la guerra!..." ansa,
con gli occhi inferociti di una bestia che tenti invano di
riavventarsi.
Giunge Sangiorgi di corsa e solleva il ferito,
cercando di applicare le bende su cui sbocciano i fiori istantanei
del sangue.
"Viva la guerra!".
Delira: sulla sua
agonia queste parole sono rimaste con la fissità delle frasi stolte
degli allucinati, con la desolazione di un ultimo grido di
naufragio.
Il tenente colonnello sbuca dalla trincea e
s'accosta. Osserva il ferito puntando le mani sulle ginocchia.
"Viva
la guerra!..." grida ancora il morente. Poi d'un colpo
s'accascia e resta lì di schianto.
"È
morto! borbotta Sangiorgi, dopo un istante di ascoltazione.
Il
tenente colonnello si inalbera e dice:
"È morto da eroe,
gridando viva la guerra".
In prima linea sul San Michele (1915)
Ritornati alla nostra nicchia, il mio compagno si imbatte sul tappeto di sacchetti vuoti.
«Hai veduto?».
«Niente».
«Hai capito com’è la linea?».
«Io no».
«Ecco com’è la linea». Si accinge a spiegarmi tracciando con un mozzicone di matita,
ripescato nel fondo di una tasca, dei ghirigori vacillanti su un ritaglio di carta umidiccia.
«Ecco qua. Primo plotone, in questa trincea sopraffina che, invece di essere parallela, è
normale alla linea austriaca: non è che un vecchio camminamento nemico conquistato in
qualche modo.
«Tutto quanto il primo plotone insalsicciato in questo budello profondo un metro; guai a
chi, durante il giorno, si permetta di allungare uno stinco. Qua, spazio netto, battuto da
fucili puntati durante tutta la notte. Poi, buca del comando di compagnia. A destra, altra
zona scoperta, tratta come l’altra. Di là fino a noi, tane d’appostamento e qualche breve
tratto di scavo, protetto da pochi sacchetti a terra e da molti morti che ci fanno da riparo.
Bisogna farci lo stomaco, ai morti: vedrai, domani, alla luce del sole. Senti che tanfo? (Oh,
alla sera – io non so il perché cominci a salire, alla sera – questo lezzo ci ammorba e ci
sgomenta. Orribile! Oh! Orribile!) Ebbene, anche qui, sotto questi sacchetti, c’è una
carcassa di ungherese, conficcata nel fango. Che devo fare? Toglierla? Impossibile. Ci
dormo su».
Parla lentamente, rispondendo alle mie domande, con una smorfia d’amarezza intorno
alla pipa combusta che s’è ficcata tra i denti.
«Lavorare, scavare, risanare? Storie! Di giorno, nessuno si può muovere. Questi dannati
ungheresi non ci permettono la minima imprudenza; e sono dei tiratori formidabili. Quanti soldati si son fatti accoppare per un moto di impazienza, per un niente? Quanti
ufficiali – di quegli eroici, ingenui ufficiali che non conoscevano ancora la musica – sono
rimasti lì, con le scarpe al sole, per non aver voluto accettare le necessità ferree di questa
guerra di talpe! Ne ho visti tanti salire quassù con delle idee garibaldine. Fermi? Curvi?
Macché! E alla prima luce, la fucilata di un cecchino che stava alla posta con la pipa in
bocca e una caraffa colma di birra vicino; e lì, stecchiti, senza un gemito. Quanti! Pare
che questi austriaci stiano tutto il giorno con l’occhio sul mirino, golosamente. Sanno che
ci dovremo pur muovere ed aspettano. Se un soldato allunga una zampa, gliela marcano
con una fucilata. Bisogna rimanere talvolta immobili come mummie per ore intere,
durante le loro esercitazioni al bersaglio. Ho provato ieri a issare sui sacchetti una
scatoletta di carne vuota, infilzata sulla punta della baionetta. Dopo un attimo, barilotto.
Pensati, quando issiamo le zucche, che cuccagna per loro. Di notte, c’è questa sparatoria
che grandina, sempre, dal tramonto all’alba. Non potendoci ributtare e conoscendo le
nostre condizioni disperate, vogliono abbrutirci; non permettono che, con qualche
lavoro, si tenti di rendere possibile la permanenza quassù: vogliono che i morti
rimangano qui a sgomentarci, che le corvée siano paralizzate, e che questo martirio
intollerabile ci faccia impazzire. Se, di notte, odono il raschio di una vanghetta,
intervengono con una annaffiata di mitragliatrici per farci smettere. E, d’altra parte,
come vuoi scavare se siamo privi di tutto e se, scavando, non si fa che disseppellire dei
cadaveri che ci mettono in fuga con le loro esalazioni? Non si può: siamo dannati
all’immobilità, fino a quando vien l’ordine di andare all’attacco. Senti? Avranno udito lo
scalpiccio della corvée che tenta di portarci i vivere. Restano sempre per la strada quei
poveracci, con i sacchi del pane e i bariletti di vino: quassù spesso non giunge nulla. E
quando anche le cose vanno bene… Ci sono dei soldati che preferiscono patire la fame e
la sete per quarantott’ore piuttosto che fare due salti allo scoperto di notte, e venire qui a
ritirare i viveri. Eh! ne hanno vedute troppe ormai!».
Carlo Salsa (nato a Milano nel 1893 e morto a Milano 1962) è stato scrittore, giornalista e sceneggiatore. Si arruolò come tenente in fanteria e fu subito inviato al fronte in prima linea, combatté sul Carso rimanendo ferito e cadendo prigioniero nel 1917. Dopo la guerra ritornò a scrivere, fu vicedirettore della Società Italiana degli Autori ed Editori e fondò nel 1929 con Leonida Rèpaci e Alberto Colantuoni il “Premio Viareggio”. Fra le altre attività, collaborò alla sceneggiatura del film La grande guerra di Mario Monicelli. (Luca Arborio)

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