Chiara Saraceno
Dignità e sicurezza, la lezione di Marcinelle
La Stampa, 9 agosto 2025
La tragedia di Marcinelle, in Belgio, dove persero la vita 262 uomini, di cui più della metà, 136, italiani, 95 belgi, 31 di altre nazionalità, fu una tragedia del lavoro, ma anche della emigrazione causata dalla povertà e dalla mancanza di opportunità. Nel caso del lavoro nelle miniere di carbone, come a Marcinelle, stante il crescente rifiuto dei belgi di fare uno dei lavori più pericolosi e comunque insalubre, l’emigrazione era persino l’esito di un accordo formale tra governo italiano e governo belga, il Protocollo italo-belga del giugno 1946. Esso impegnava l’Italia a inviare (quindi reclutare tra i contadini poveri, soprattutto nel Mezzogiorno) 50.000 lavoratori in cambio di carbone.
Non so dire quanto lo scambio fosse vantaggioso per l’economia e il bilancio pubblico italiano, o per chi doveva acquistare il carbone sul mercato (sono abbastanza vecchia per ricordare che ancora dopo la guerra a Milano in molte case ci si scaldava con stufe a carbone o legna). Per quei minatori migranti, così come per molti altri lavoratori che dalle campagne o dalle montagne migravano come manovali in Francia o Svizzera e più tardi anche in Germania, spesso stagionalmente, dall’autunno alla primavera, perché il magro raccolto non bastava a far fronte alle necessità delle famiglie, significava lunghi mesi, quando non anni, lontani dalle proprie famiglie, per fare un lavoro faticoso e non sempre con le adeguate protezioni, cercando di risparmiare il più possibile per avere un gruzzolo consistente da portare a casa.
Ne parla anche Donatella Pietrantonio a proposito della famiglia dei nonni paterni della voce narrante, in Mia madre è un fiume. Trattati da estranei, insieme un po’ inferiori e un po’ pericolosi, dalla popolazione locale, vivevano spesso tutti insieme in baracche con servizi al minimo, in una sorta di mondo a parte, per lo più tutto maschile, spesso diviso al proprio interno per luogo di provenienza, per altro un po’ come succedeva anche per i migranti interni. La responsabilità nei loro confronti da parte del paese da cui venivano per lo più si fermava alla frontiera e per il paese dove lavoravano l’importante era che non dessero fastidio.
Lavoro duro, spesso pericoloso, povertà e necessità di migrare altrove non sono cose del passato, anche se oggi l’emigrazione da parte di italiani ha cambiato forma e riguarda sempre più lavoratori altamente qualificati, non costretti dalla povertà, consapevoli dei propri diritti ed in grado di scegliere tra le alternative disponibili. Ma quel nesso, che riduce non solo le possibilità di scelta, ma anche il potere di contrattare le stesse condizioni di sicurezza e dignità del lavoro, continua a esistere, per alcuni italiani e soprattutto per chi arriva da paesi poveri o in conflitto.
Ne è testimonianza la forte presenza di stranieri tra i morti sul lavoro a causa di condizioni di sicurezza non osservate, in rapporti di lavoro spesso irregolari. Insieme all’edilizia, il settore più pericoloso per un lavoratore/lavoratrice con scarsa o nulla possibilità di contrattazione oggi è quello più lontano dalla miniera: il lavoro di raccolta in agricoltura. All’aria aperta, sì, senza timori di corti circuiti, gas, incendi, frane nelle gallerie, ma sotto il sole cocente, curvi/e per molte ore e con abitazioni rispetto alle quali le baracche in cui vivevano i migranti italiani negli anni Quaranta e Cinquanta sembrerebbero quasi da invidiare.
Nelle parole di Mattarella, la tragedia di Marcinelle, per l’enormità del numero delle vittime e del modo in cui sono morte, «evoca il dovere di promuovere la dignità del lavoro in tutte le sue manifestazioni, affinché quanto accaduto non debba ripetersi in futuro». Ecco, non dimenticarla significa non solo operare sistematicamente e costantemente perché la sicurezza sul lavoro non sia solo un auspicio, o un insieme di norme, di cui non si cura l’attuazione.
Significa anche operare concretamente perché non vi siano lavoratori e lavoratrici privi delle condizioni che consentono loro di rivendicare condizioni di lavoro dignitoso e in cui la loro vita non sia esposta ad incuria e svalutazione. Significa anche essere consapevoli che la condizione di migrante di necessità (per motivi politici, di persecuzione, o economici) pone le persone, i lavoratori/lavoratrici in condizioni di particolare vulnerabilità, che va protetta e non aggravata da norme e procedure che ne ostacolano la regolarità. Significa, infine, che anche quando l’immigrazione è concordata con lo stato di provenienza, non si accolgono solo braccia, strumenti di lavoro. Si accolgono persone cui va riconosciuta non solo la dignità del lavoro, ma anche quella della vita, nella sua interezza e complessità. Marcinelle: "Quella miniera ci ha rubato l'amore"

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