martedì 12 agosto 2025

Le spiagge vuote


Veronica De Romanis
Se il caro ombrelloni è come un autodazio

La Stampa, 12 agosto 2025

Il caro ombrelloni è un caso emblematico di autodazio: prezzi eccessivi non inflitti dall’Europa, come spesso si sostiene, ma imposti dai governi italiani che si sono succeduti alla guida del Paese. Negli ultimi anni, tutti, nessuno escluso, hanno scelto di proteggere un settore, quello dei balneari, prorogando le concessioni e evitando così le gare. Il risultato? Danni per i consumatori (prezzi elevati), danni per i potenziali giovani imprenditori italiani (accesso negato al settore), danni per l’erario (mancato gettito). Era prevedibile: quando si soffoca la concorrenza a guadagnarci è una piccola minoranza, a perderci la grande maggioranza dei cittadini. La decisione, peraltro, va in direzione opposta a ciò che – da tempo – ci chiede l’Europa con la famosa direttiva Bolkenstein.

In estrema sintesi, le concessioni vanno messe a gara. Ciò consente di selezionare l’imprenditore capace di offrire il miglior rapporto prezzo/qualità per il consumatore. Occorre, inoltre, fissare un canone giusto. Ovvero, una cifra congrua per l’utilizzo di un bene, la spiaggia, che appartiene a tutti noi ma viene “concessa” (temporaneamente) ad alcuni. Nulla di tutto ciò è stato fatto. La proroga delle concessioni è un esempio perfetto di ciò che accade quando prevale quella che si può definire “economia delle tribù”. Ogni gruppo – dai piccoli come i balneari, ai grandi come i dipendenti pubblici – difende la propria rendita e il proprio vantaggio acquisito. Pertanto, gare, valutazioni, selezioni vanno evitate: l’obiettivo è mantenere l’esistente. Un orientamento seguito (alla lettera) da tutti gli esecutivi, indipendentemente dal loro orientamento politico. Persino quello tecnico guidato da Mario Draghi ha lasciato intatte le rendite.

Il caso del catasto lo dimostra: niente aggiornamento ai valori di mercato, solo una riclassificazione. Che ipocrisia. La maggioranza attuale continua sulla stessa linea. Eppure, la premier Giorgia Meloni ci aveva fatto ben sperare quando nel discorso di insediamento nell’ottobre 2022 aveva spiegato che il suo obiettivo sarebbe stato quello di «non disturbare chi vuole fare». In realtà non si sta disturbando chi “già fa”, dimenticandosi di chi vorrebbe mettersi in gioco. I primi appartengono a tribù ben organizzate: in altre parole, sanno farsi sentire. I secondi, invece, privi di potere negoziale, restano esclusi.

Proteggere unicamente chi è dentro il sistema (gli insider) a scapito di chi è fuori (gli outsider) ha conseguenze pesanti. Basti pensare al milione e trecento mila giovani italiani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono un programma di formazione. Sono i cosiddetti Neet (acronimo di Not in Education, Employment or Training). Questi ragazzi sono fuori dal mercato del lavoro, quindi dal sistema. Un’emergenza nazionale di cui non ci si occupa come si dovrebbe. Gli effetti dell’economia delle tribù sono significativi anche sul piano della finanza pubblica. Un esempio? Le oltre 600 voci di deduzioni e detrazioni (le cosiddette tax expenditure). Si tratta di circa 110 miliardi di mancato gettito per l’erario che si traducono in meno risorse per scuola, sanità e trasporti. Nessun governo è mai intervenuto in maniera drastica perché ogni taglio rappresenterebbe un vantaggio in meno per un determinato gruppo con conseguente perdita di voti. Per ricapitolare, nell’economia delle tribù, i vantaggi di pochi si conservano a spese di molti. Un equilibrio fragile il cui mantenimento richiede una narrazione precisa: quella del nemico.

Nel caso specifico dei balneari, il racconto è sempre lo stesso da anni: niente gare altrimenti arrivano le “cattive” multinazionali. Peccato che non si vedano flotte di stranieri pronte a occupare il nostro demanio, mentre è certo che si nega l’accesso al settore del turismo ai giovani italiani. La costruzione del nemico, ovviamente, è una strategia miope: prima o poi, la realtà viene a galla. Gli italiani, ad un certo punto, reagiscono. Le spiagge vuote sono un primo segnale.


Roberto Ciccarelli
Salasso balneare per i salari più bassi d'Europa

il manifesto, 12 agosto 2025

C’e stata una volta l’estate dei Righeira. Quelli che, poco dopo l’inizio degli anni Ottanta, cantavano «Vamos a la playa oh-oh-oh». Oggi, al terzo anno del governo Meloni, si va in spiaggia con più parsimonia e non si canta più come quella volta. Sembra che ci sia un paese che abbia riscoperto il problema dei salari più bassi d’Europa. Il ritornello è: «Non andiamo alla spiaggia perché costa troppo». Il «ceto medio» oggi è compatito a reti unificate perché gli ombrelloni costano troppo. E non perché gli arenili sono stati sequestrati da odiose corporazioni piuttosto tutelate da quella destra che rifiuta il salario minimo e taglia i sussidi contro la povertà assoluta.

QUESTA FICTION, parziale e marziana perché priva di analisi delle cause, è oggi raccontata senza profondità storica. Ieri è stato il turno del frame rassicurante sulle sorti dei profitti dei balneari: c’è chi ha annunciato di adattarsi con “flessibilità” alle puntate al mare solo nel week-end perché, signora mia, la vita costa e qui la sdraio ha un costo, ma il diritto di occupazione dell’arenile è garantito. E altri ventriloqui hanno registrato la prenotazione di “18 mila ombrelloni a Bibbione”. Non tutto è perduto, forza Italia!

IN QUESTA COMMEDIA al cronista tocca risalire dal semplice al complesso e indicare nelle sapide percentuali usate per misurare l’aumento del costo della vita le ragioni della stagnazione di salari e lavori sempre più maledetti, pagati male e comunque precari. Ieri, complice l’aridità della metà di agosto, ha avuto una certa risonanza la stima dell’Istat sull’inflazione di base: il «carrello della spesa», cioè l’indice che misura l’insieme dei prodotti di uso quotidiano, è rincarato dal +2,8% di giugno al +3,2% di luglio. Comprare l’essenziale in un supermercato è come entrare in una gioielleria. Tra le città più care Rimini, Padova e Napoli. E  i redditi più poveri sono quelli colpiti maggiormente

SALASSO. Questa è la parola ricorrente nelle consuete stime delle associazioni dei consumator. Assoutenti ha stimato che, a parità di consumi, l’incremento corrisponde a una stangata da 6,4 miliardi di euro annui. Una famiglia con due figli si trova a spendere in media 356 euro in più all’anno solo per cibo e bevande. Questo significa: frutta fresca +8,8%, pomodori +12,3%, latticini +7%, burro +16,9%, uova +7,2%, cioccolato +13,2%, caffè +23,4%. Una conferma viene dalla vita vissuta. Ci segnalano dai mercati di Bologna il fatto che ormai la frutta è misurata a «etti» e non a «chili» per non terrorizzare chi si accosta alla bancarella con i soldi contati.

SE SOMMATO agli effetti prodotti dagli spennatori di professione piccoli e grandi, dal b&b in località montana all’esclusivo resort con accesso a un mare «da paura», il panorama non è confortante. «Altro che stabilità dell’inflazione. Il fatto che l’indice generale sia uguale a giugno, +1,7%, è solo un miraggio, dato che aumentano sia le spese obbligate che quelle legate alle vacanze, ossia tutto quello che si deve comperare nel mese di luglio sostiene Massimiliano Dona (Unione nazionale consumatori) – Al primo posto i “Pacchetti vacanza nazionali” con un aumento astronomico del 16,1%, balzo inaccettabile considerato che giugno era già un mese di ferie. Medaglia d’argento i Villaggi vacanze, campeggi, ostelli con un incremento del 15,7% su giugno 2025. Sul gradino più basso del podio i Voli intercontinentali con +14,3%. Al quarto posto i Servizi di rilegatura testi e E-book con +10,3%, seguiti dagli Stabilimenti balneari che, nonostante abbiano appena pianto miseria, in realtà, nonostante il calo dichiarato degli afflussi, se ne sono approfittati lo stesso per aumentare i prezzi del 7,3% sul mese precedente».

IL PROBLEMA è il risultato di una serie concatenata, e pluriennale, di politiche economiche. Le opposizioni hanno timbrato il cartellino e ieri hanno, di nuovo e inutilmente, messo il governo Meloni davanti a responsabilità che semplicemente nega e di cui in fondo poco interessa l’opinione pubblica di «consumatori». A destra c’è stato chi si è concentrato sull’aumento dei turisti stranieri o sulle presenze in destinazioni di lusso. E questa sarebbe, per l’opposizione, la prova che la destra «vive in un universo parallelo» perché non vede il «crollo del potere di acquisto». Tutto giusto, salvo il fatto che la soddisfazione dell’afflusso dei turisti che portano la «grana» è trasversale. Basta seguire un Tg regionale qualsiasi per sentire le lodi delle regioni di «centro-sinistra» perché il sistema dell’overturism gode di ottima salute.

C’È BISOGNO di un’analisi politica più equilibrata, e attenta alla storia e alle responsabilità di una politica che ha ragionato allo stesso modo. Dalla lettura di «Lavoro e salari in Italia», curato da Rinaldo Evangelista e Lia Pacelli (Carocci), emerge che bassi salari e lavoro povero sono funzionali a un modello produttivo basato sui servizi poveri com’è il turismo e sul declino dell’industria manifatturiera. Entrambi evidenti sotto il governo Meloni. Pandemia e inflazione hanno aggravato il calo dei salari reali (-8,1% mentre in Francia e Germania aumentano). Crescono le ore lavorate in settori a basso valore aggiunto e produttività. Aumenta il lavoro ed è sempre più pagato peggio. Ma questo Meloni non lo vede.

SCOPRIRE IN SPIAGGIA, o nelle isole contro l’afa urbana, che i bassi salari sono l’effetto di una volontà politica, e degli interessi di chi ne ha tratto profitti, è una buona notizia, ma non è un lieto fine. A Natale ci si lamenterà del fatto che la tredicesima è stata spolpata dal caro vita e il «taglio del cuneo fiscale» di Meloni ha aumentato le tasse.

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