domenica 3 agosto 2025

L' America imperiale


Mario Del Pero
Il disegno imperialista di Trump. Senza dialogo né compromessi

Domani, 3 agosto 2025

I dazi paiono essere al contempo mezzo e fine della politica estera di Donald Trump. Incarnano la sua promessa sovranista di far recuperare agli Stati Uniti la libertà e l’autonomia sacrificate sull’altare dei processi d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo, emancipandoli dalle costrizioni imposte dalle tante interdipendenze dell’ordine internazionale contemporaneo.

Servono, in teoria, a ridurre i passivi commerciali, generare le risorse con cui compensare la crescita del deficit provocata dai tagli alle tasse, facilitare la reindustrializzazione di un paese che ha visto gli occupati nel manifatturiero passare, tra gli anni Settanta e oggi, da circa il 25 a meno dell’8 per cento di quelli totali.

Sono utilizzati anche per sanzionare o piegare interlocutori che adottano politiche sgradite, siano essi il Canada che prospetta il riconoscimento di uno stato palestinese, l’Europa che discute la regolamentazione delle attività dei giganti digitali statunitensi o – caso in sé davvero straordinario – il Brasile che pretende di processare l’ex presidente Jair Bolsonaro.

In questo uso dei dazi, Trump fa leva su una doppia risorsa di potenza degli Stati Uniti. La prima è quella rappresentata dal loro impareggiabile mercato, che ha a lungo trainato la crescita globale, è fondamentale per i settori di tante economie export led e ha aiutato ad alimentare il debito statunitense da parte di paesi interessati a sussidiare la capacità di consumo a debito degli Usa.

La seconda, più convenzionale, rimanda a quegli attributi classici della potenza di cui l’America continua a disporre come nessun altro: la forza militare; il controllo di tanta parte della infrastruttura della globalizzazione; il persistente primato del dollaro.

Attributi, questi, che offrono leve di pressione (e, oggi, ricatto) aggiuntive rispetto a quelle rappresentate dall’accesso al mercato americano, come bene abbiamo visto nel caso dell’Europa, dove la partita commerciale si è strettamente intrecciata con quelle delle spese militari nella Nato, della sicurezza dell’Ucraina o dei privilegi fiscali delle aziende statunitensi.

Quasi vent’anni fa il grande storico statunitense Charles Maier nel riflettere sulla natura dell’impero statunitense utilizzò una formula felice e suggestiva nel descriverne la trasformazione a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. Gli Usa – Maier argomentò – erano stati a lungo «un impero della produzione»: lo stadio più avanzato di una modernità industriale capitalistica, trainata primariamente dal mercato interno, ma capace in virtù della sua maggiore competitività di generare solidi attivi commerciali.

Una condizione, questa, venuta meno dagli anni Settanta (il primo deficit commerciale dalla fine del XIX secolo lo si ebbe nel 1971) con la conseguente trasformazione degli Usa in un "impero dei consumi”: un soggetto che usa (anche) il proprio mercato per preservare la sua indispensabilità e il suo primato.

L’“impero dei consumi” ha avuto funzioni plurime, anche di pace politica e sociale interna, e ha generato infinite contraddizioni, sublimate dal paradosso del paese più ricco e potente del mondo che diventava importatore strutturale di beni e capitali, il cui indebitamento (e i cui consumi a debito) erano sussidiati da soggetti assai più poveri, a partire dalla Cina.

Un impero sui generis, quello prodotto dal bulimico mercato statunitense. Ma pur sempre un impero. Ed è questo asset imperiale che Trump cerca ora di usare per perseguire un disegno di politica estera nel quale non vi è spazio per dialogo, mediazioni e compromessi. In cui gli altri paesi possono solo capitolare e gli Usa rivendicano il diritto d’ingerire apertamente nei loro affari interni, al punto da sanzionare – come nel caso del Brasile – giudici che pretendono d’incriminare un alleato come Bolsonaro.

Tanto, tantissimo, di quel che seguirà dipenderà dagli effetti di queste politiche proprio sui prezzi e quindi sui consumatori americani. Per gli altri, e per questa Europa oggi così debole e divisa, la lezione dovrebbe però essere inequivoca e partire dall’assunto che il momento sarebbe davvero arrivato per iniziare a cercare di emanciparsi dall’“impero dei consumi” americano.

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