martedì 17 dicembre 2024

Un romanzo senza ritegno




Antonio D’Orrico
È di Antonio Franchini il libro dell’anno
Domani, 1 marzo 2024


 Il fuoco che ti porti dentro è un libro ci cade addosso da un pianeta dove la letteratura è ancora duello all’ultimo sangue, corpo a corpo all’arma bianca dell’autore con sé stesso. L’unica cosa sbagliata è il titolo. Mater semper certa, quello doveva essere il titolo della storia di Angela e suo figlio, il nome della loro dannazione. Io lo ribattezzo e gli do dieci e lode. Mater semper certa è il libro dell’anno.

Di solito alla madre si scrivono cose così: «Sarai una statua davanti all’eterno... e avrai negli occhi un rapido sospiro» (Ungaretti). Oppure: «Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...» (Pasolini).

Antonio Franchini, invece, scrive: «Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza».

E aggiunge: «Mi chiedo quanto abbia pesato su di me che l’odore di mia madre fosse una puzza e quanto abbia contribuito a un’avversione che dura da sempre». (L’odore è causato da un taglio chirurgico chiuso male).

Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini (Marsilio) è una anti-Ave Maria (non piena di grazia, non termine fisso d’eterno consiglio).

A questo punto entra in scena una donna, procace, capelli neri che, con voce, prima orgogliosa e poi quasi sognante, recita:

«Io mi chiamo Angela Izzo.

Sono nata a Cautano, un piccolo paese in provincia di Benevento.

Discendo dagli antichi Sanniti e appartengo alla razza degli sgherri.

A me me piace:

Il peperoncino

La frittura di pesce, alghe e cecenielli

I panzerotti e le paste crisciute

L’aglio e olio, e la cipolla

Gli spaghetti a vongole

Il ballo

’O pecorino

I gamberi, le alici e le triglie

Le cozze

La pizza

La lingua latina

Il colore giallo».

Il padre di Angela si trasferì a Napoli dalle montagne del Sannio (dove agli antichi romani invincibili fu inflitta l’onta delle Forche Caudine, da qui una certa fierezza di stirpe) per diventare uomo di fiducia in una ditta tessile. Nel 1943 la tubercolosi porta via il ragionier Izzo (diploma mai conseguito, titolo conquistato sul campo). La moglie (la nonna del narratore, una donna «cattiva e razionale») e le due figlie (una, «irrequieta e rabbiosa», è Angela) restano sole e alzano un muro contro il mondo: «Sopravvivere è il loro unico fine».

Angela e sua madre fanno la faccia feroce al prossimo. Il loro linguaggio (si danno e danno di troia e di puttana a tutto spiano) rispecchia la loro struggle for life. Non coltivano né gentilezze, né delicatezze: «Per loro l’incanto esiste solo davanti a un piatto di frittura». E se al piccolo Antonio, entrato a far parte del bunker familiare, capiterà di indugiare in gentilezze e delicatezze, le due Erinni lo colpiranno con sarcasmi che sono ferite ancora aperte (questo libro è una cicatrice che sanguina). La sua educazione sentimentale è affidata a due donne che «pensano solo al male, immaginano solo il male». Così l’inimicizia tra madre e figlio durerà tutta la vita: «Mi fa schifo chi mi ha messo al mondo».

Il padre è l’opposto della madre (della quale è più vecchio di vent’anni). Non ha origini sannite e sgherre. È un uomo di classe, silenzioso, campione della borghesia napoletana quotidianamente travolta da lazzaroni e vaiasse. Impeccabile professionista (uomo di conti), collezionista di rarità librarie, fratello inconsolabile di un artista caduto giovanissimo in guerra e decorato al valore («il fior de’ tuoi gentili anni caduto»).

Come mai un signore così ha sposato una donna chiassosa, che erutta incessantemente livore? Come si sono conosciuti? Angela fornisce due versioni. Inconciliabili. Nella prima, lei è la giovane impiegata e lui uno dei titolari dell’ufficio: «È appena cominciata l’estate e lui, che è socio di un circolo nautico, è già abbronzato e siede alla scrivania con la camicia sbottonata e mocassini senza calze. Tiene all’eleganza, non si è mai vantato di niente se non di avere sempre portato, prima dell’avvocato Agnelli, l’orologio sopra il polsino della camicia. Ma quel giorno d’estate le maniche le ha rimboccate. Si sente osservato e le domanda: “Signorì, perché mi guardate?” E lei risponde: “Perché mi piacete”».

Buona la prima? No, secondo ciak. Angela, «ragazza di sani principi che viene “da un piccolo paese della provincia di Benevento”», incontra «un borghese corrotto “giallo, muscio e cocainomane”, frequentatore di circoli nautici e di donne senza morale: “Pateto m’ ’o pigliai doppo che l’avevano sfruttato tutte ’e ffemmene ’e Napule”». Scena madre: prima di sposarla, lui butta platealmente il mazzo di chiavi che «aprivano le porte delle sue tante storie clandestine. 

Angela racchiude tutti i vizi nazionali: rancore, trasformismo, egoismo, classismo, qualunquismo, «la mezza cultura peggiore dell’ignoranza». Ma questo è niente: «Dicono dei padri che violentano le figlie, ma io ho visto Angela violentare la mia prima sorella. Annientarla, un giorno dopo l’altro».

Angela è stata affettuosa soltanto con Enzo, un giovane omosessuale che l’aiutava in casa e le spifferava i pettegolezzi rionali. Perciò uno dei suoi tanti refrain rivolti al figlio dice: «Meglio ca te facevo ricchione, ca ’e ricchiune vonno bene a ’e mmamme».

Angela ha studiato, ha fatto il liceo e poi lettere e si considera «depositaria della purezza della lingua», a dispetto del figlio scrittore: «’O scrittore! ’O scrittore d’’o cazzo, chesto sì tu!»

Angela si ritiene una donna moderna e anticonformista che si è preoccupata pure di impartire ai figli la necessaria educazione sessuale. Come? Portandoli d’estate a vedere nei cinema all’aperto i film porno soft ispirati (l’indotto pasoliniano) al Decameron. Le famose pellicole decamerotiche con i loro famigerati titoli: Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno; Fratello homo sorella bona; La bella Antonia, prima monica e poi dimonia; ...e si salvò solo l’Aretino Pietro, con una mano davanti e l’altra dietro.

Chiedo perdono a Franchini, non mi sfugge la terribilità di Angela, solidarizzo con lui per le sfuriate, le cazziate e i cazziatoni che ha dovuto subire da questa donna ringhiosa e maldicente con la configurazione della matrigna più che della madre. Ma Angela non riesce a starmi antipatica (l’ho anche conosciuta una volta, a casa sua a Napoli, nell’incanto delle sue fritture).

Angela è ormai vecchia e trasferitasi a Milano dal figlio. I due, tra un litigio e l’altro, porte sbattute, vetri rotti, ascoltano per l’ennesima volta Lazzarella, la canzone preferita da Angela, magari perché si immedesima nella protagonista, studentessa come lei alla «scola d’o Gesù», che dice sempre no al suo accorato spasimante. Antonio analizza le parole della canzone forse perché cerca la spiegazione del mistero materno: «nei versi non c’è solo la scuola o la camicetta a fiori blu e la grazia dell’Italia povera, c’è anche, e soprattutto, il negarsi, il dire no come prima risposta e solo per ripicca: ma la negazione è bella a primavera, nella brutta stagione il rifiuto è solo una spina in più nel ramo secco della vecchiaia».

Le Lazzarelle non devono mai invecchiare. Anche se Angela non sarà mai come le vecchie del Nord, che «s’infessiscono perché magnano burro! ’O burro è melmoso, fa male! Io sempre olio!».

Ad Angela non si addice un finale di malinconia. Eccola, ormai quasi moribonda, di nuovo furiosa perché vuole fare la parmigiana di melanzane al figlio, ma non sa se le viene. Le melanzane al Nord sono piene d’acqua. Tutto è pieno d’acqua al Nord, il Nord sta sopra l’acqua, acqua di palude, fango, melma. Le melanzane al Sud crescono dalla roccia e dal fuoco. Qui a imprecare, per interposta Angela, è una divinità ctonia in nome delle forze oscure, vulcaniche e sismiche che stanno sotto la Terra.


Il fantasma di Romano Prodi



L’idea del fondatore dell’Ulivo è che un Pd spostato a sinistra da solo non basti:  «Un mono partito capace di esprimere una maggioranza in grado di governare è un pio desiderio che, infatti, non esiste in nessuna parte d’Europa».

Fabrizio Roncone, L'eterno ritorno di Prodi che innervosisce la destra
Corriere della Sera, 17 dicembre 2024

Così pieno di saggezza antica e di misura, ma poi anche di battuta pronta, capace di diventare, se serve, e qualche volta in politica serve, ruvido o affilato, però sempre con quella sua meravigliosa voce soffiata, lo sguardo all’apparenza pacioso davanti a tutti quelli che, periodicamente, lo evocano e poi proprio lo aspettano, lo omaggiano, tra stima profonda ed efferata nostalgia per le sue storiche vittorie (fu presidente del Consiglio dal 1996 al 1998 e dal 2006 al 2008): e allora giù mezzi inchini e strette di mano, caro Professore, illustre Professore, perché alla fine il Professore — a 85 anni — è tornato anche stavolta.

Eccoli perciò tutti in fila ad ascoltare Romano Prodi, a farsi indicare di nuovo la strada, proprio come ai bei tempi andati del miglior centrosinistra, quando lui era seduto sul leggendario e sbrindellato pullman con il logo dell’ulivo sulla fiancata, seguito dalla Fiat Duna del settimanale Cuore, l’inserto satirico di «resistenza umana», e atteso nelle piazze da folle festanti che oggi nemmeno a pagarle, per dire.

Il suo avversario dell’epoca era Silvio Berlusconi, travolgente e spiazzante, uno sconquasso, un rivoluzionario della politica con le sue armate che ai comizi arrivavano dal cielo, elicotteri a volo radente come in Apocalypse now,e poi jet che ripartivano puntando le isole Bermuda, luoghi designati per studiare strategie elettorali e rilassarsi con memorabili sedute di jogging: il Cavaliere in testa e dietro — tutti di bianco vestiti: resta una foto storica che ferma un’epoca — la fila indiana di Confalonieri e Galliani, Bernasconi, Letta e Dell’Utri. Mentre lui, il Professore, in camicia, persino le maniche arrotolate, sobrio, con quel distacco idealistico, un docente sempre soltanto un po’ prestato alla politica, come ancora un paio di settimane fa, quando presenta il suo libro, «Il dovere della speranza», scritto per Rizzoli insieme a Massimo Giannini, e al secondo piano della libreria Spazio Sette, a Roma, c’è una folla di militanti e veri adepti, più cronisti e politici sparsi, compresa Elly Schlein (i rapporti del Professore con Elly sono, diciamo, formali: certo non è un segreto che, spesso, il padre nobile avrebbe voluto essere più ascoltato; poi, ma ci torneremo tra qualche capoverso, a numerosi osservatori è pure abbastanza chiaro che lui non approvi la deriva piuttosto movimentista del Pd). Comunque siamo andati tutti ad ascoltarlo perché s’intuisce che il Professore è di nuovo in campo. E per qualcosa di grosso.

Annusiamo atmosfere, seguiamo indizi. Bisogna tenere d’occhio Prodi. C’è Prodi che parla. A che ora? Dove? Nelle redazioni è un tuffo indietro di trent’anni esatti. Poi arriva una telefonata: va in Vaticano. Ma no? Ma sì. L’altro giorno viene segnalato a centro metri da Santa Marta, nell’aula Nuova del Sinodo, dov’è in corso l’ultima giornata di studio della fondazione «Fratelli tutti», perché questo, come dice il padrone di casa, il cardinale Mauro Gambetti, è «il tempo della nostalgia politica», e soprattutto perché, come sempre, da secoli, i preti stanno avanti, e vedono e sentono tutto prima di tutti.

Anche che c’è una forte e nuova voglia di fare politica al centro. Qualcuno, da tempo, e di nascosto, ha aperto un cantiere catto-moderato. Vogliono costruire un margheritone da affiancare al Pd, a questo Pd, così fortemente sinistrorso. Infatti, ecco: come ospite d’onore, in Santa Sede, hanno invitato lui, il Professore. Ma poi hanno invitato pure Ernesto Maria Ruffini. Che, però, non si presenta. Per prudenza e per stile: visto che, poche ore prima, sul Corriere, ha annunciato a Fiorenza Sarzanini di voler lasciare l’agenzia delle Entrate. Un colpo di scena, una direzione mollata di botto e negando pure di voler scendere in pista, sebbene fortissime siano le suggestioni da lui stesso alimentate in un altro convegno, organizzato all’università Lumsa: «Essere spettatori è un lusso che non ci possiamo permettere».

Prodi, in un pausa caffè, tra le mura vaticane, dice che di Ruffini non intende parlare, e i cronisti ovviamente stanno al gioco. Ma sull’enigma Ruffini, molto più di un banale predestinato — mister Fisco per quattro governi di seguito, figlio dell’ex ministro Attilio, fratello di Paolo, prefetto del dicastero per la comunicazione della Santa Sede, nipote del cardinale Ernesto e amico personale di Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei — Prodi si è già espresso. Da Corrado Formigli, a Piazza Pulita. Con parole di elogio, e dentro una sostanziale prudenza.

Dietrologie: il Professore ritiene che Ruffini abbia lo spessore umano e intellettuale giusto, ma nutre qualche perplessità sulla sua tenuta mediatica (saprebbe trascinare le piazze, l’ex grande capo degli esattori di un Paese dove l’evasione fiscale è praticata come forma di religione?). Rosy Bindi pensa di sì. Bruno Tabacci, pure. Dario Franceschini, muto. Gelido Beppe Sala: «Lo conoscono in pochissimi». Su Prodi pesa la prefazione che firmò a uno dei libri di Ruffini («L’evasione spiegata a un evasore»: inevitabilmente, non un bestseller), ma è uno stupido dettaglio.

Poi vedremo chi assumerà la guida della componente centrista: la notizia è che Prodi pensa sia ormai necessaria. S’è convinto che il Pd, quel partito che era stato immaginato a vocazione maggioritaria, non

funziona più. Troppo spostato a sinistra. Lo spiega con nettezza: «Un mono partito capace di esprimere una maggioranza in grado di governare è un pio desiderio che, infatti, non esiste in nessuna parte d’Europa».

È una vera benedizione al cantiere cattolico. È una novità. Che mette in allarme Giorgia Meloni. Dal palco di Atreju, domenica mattina, urla che «Prodi è isterico!».

Isterico? La premier è forse troppo giovane, per conoscerlo bene. Ma Prodi sarebbe capacissimo di mantenere la calma anche se lo chiudessero in una stanza con Milei (e la sua motosega).

L'ammucchiata degli sghembi


Sahra Wagenknecht, rosso-bruna tedesca di successo


Vittorio Emanuele Parsi, L'internazionale di destra esiste, un'idea comune no
Il Foglio, 17 dicembre 2024

Più che un’internazionale di destra, ciò che sotto i nostri occhi sta prendendo forma è l’insieme più o meno variegato e non limitato alla destra vera e propria, di tutti color che sono stati o si sono sentiti emarginati o marginali, culturalmente o politicamente, dall’arcipelago liberal-progressista che ha costruito e portato alla vittoria contro i totalitarismi neri e rossi, l’Occidente e l’ordine mondiale liberale dal secondo dopoguerra a oggi. Mi pare sia questa la cifra che accomuna non solo la nuova destra, ma anche i soggetti politici rosso-bruni e una buona parte dei populismi che si vorrebbero “progressisti ma non di sinistra”, un ossimoro che malamente camuffa la disperata ricerca di un posizionamento non (inevitabilmente) gregario. Non è un caso che questi soggetti emergano e si rafforzino nel momento di maggiore difficoltà, fors’anche di crisi (ma dall’esito tutt’altro che scontato) delle liberal-democrazie, ovvero della dimensione propriamente liberale delle democrazie rappresentative e di mercato, alle prese con i nemici esterni (la Russia, la Cina, l’Iran) e con i nemici interni (i nazional-sovranisti, i nostalgici del comunismo, i populisti di vario genere). Ciò di cui si nutrono è il nemico comune, identificato in maniera variabile, a seconda delle opportunità e delle convenienze, nelle élite intellettuali, nell’establishment economico, nelle strutture amministrative, nei giudici, nei giornaloni e nel pensiero “mainstream”: in particolar modo di quel liberalismo che per alcuni di loro è un nemico giurato, mentre per altri è il panno nobile con cui ammantare ben meno eleganti pulsioni. Entrambi esibiscono pseudo-ideologie dotate solo di una pars destruens e monca di qualunque pars construens e alimentata dal furore: no, non quello ideologico, ma quello della folla, che si eccita e si tira di qua e di là, ché neppure nel girone degli ignavi di dantesca memoria si era mai vista una simile frenesia priva di sbocco. L’assenza dell’ideologia è la grande novità di questo neo-giacobinismo affollato di piccoli Robespierre il cui scopo non è però il trionfo della “Rivoluzione”, ma semplicemente la perpetuazione di carriere politiche o persino giornalistiche, dei Saint-Just da tastiera maestri di volgarità e collezionisti di querele, in un tatticismo esasperato, privo di strategia perché quest’ultima non è semplicemente inutile, ma è proprio impossibile quando non si ha in mente un’idea organica, compiuta e coerente di paese e, alla fin fine, di politica. Così, mentre ad Atreju – dove il kitsch e il cafonal non sono mancati, insieme al familismo e all’ossequio alla progressiva familiarizzazione di quello che si voleva fosse uno dei pochi partiti politici rimasti sulla scena nostrana – si esaltava il liberismo selvaggio dell’argentino Milei, negli Stati Uniti si chiama il trilionario Musk nella stanza dei bottoni dell’amministrazione Trump. Tutto sempre nel nome del mercato (e chi potrebbe aver niente da obiettare?), ma in realtà con assai poca considerazione del mercato stesso e, quel che più conta, con nulla logica e men che meno coerenza liberale. Fa sorridere l’ovazione riservata a Milei dai militanti di un partito che sta tenendo l’Italia impastoiata sul limitare di un processo di infrazione per difendere gli interessi corporativi dei balneari – “inchioderemo lo straniero sul bagnasciuga!”, deve aver pensato la presidente del Consiglio, che poi sarebbe la battigia, ma va be’’” – o quelli dei tassinari o più in generale dei milioni di evasori diffusi “taglieggiati dal pizzo di Stato”, (sic.). E d’altronde, guardando Oltreoceano, investire come paladino del mercato chi, anche grazie ai sussidi di Stato e ai contratti pubblici ha assunto una posizione dominante sul mercato che lo snatura e ne fa un monopolista non appare più coerente. Siamo alla riedizione delle parole d’ordine degli anni Settanta e Ottanta, come se nel frattempo non fosse trascorso mezzo secolo e la realtà circostante non fosse radicalmente cambiata. Nel capitalismo globalizzato di oggi è molto più la deriva monopolistica a creare una minaccia per la vitalità del mercato di quanto fosse vero cinquant’anni fa. E mettere nella stanza del regolatore politico l’esponente di uno dei più forti tra gli interessi da regolare appare una pratica che forse Vladimir Putin o Xi Jinping potrebbero definire liberale. Oggi semmai l’azione dello Stato ha molto più necessità di essere razionalizzata e reindirizzata che non di essere tagliata. Il declino delle ideologie, con la loro a volte pedante e rigida pretesa di ortodossia, ha finito spesso, col decretare il “liberi tutti!” in termini di coerenza e di necessaria adesione tra la realtà desiderata e la realtà effettuale. Peccato che i programmi politici, in tal modo, diventino nel migliore dei casi un libro dei sogni e nel peggiore un catalogo di incubi. Certo è che diventa aleatorio attendersi qualunque elaborazione culturale e politica davvero nuova e originale, adeguata ad affrontare i tempi di ferro che ci aspettano e la cui anticipazione stiamo già drammaticamente vivendo. Ma di questo non sembra volersi preoccupare nessuno, o quasi nessuno.

lunedì 16 dicembre 2024

Il Barone rampante



Umberto Eco, Per Calvino, Doppiozero, 4 aprile 2023

 Nei dieci minuti che ho a disposizione, vorrei parlare del libro di Calvino che amo di più, Il barone rampante, e spiegare perché è rimasto sempre un testo che mi ha accompagnato durante tutta la mia vita, come una sorta di manifesto politico e morale.

Capisco che possa suonare strano parlare di lezioni morali e politiche per un libro che, al momento della sua pubblicazione, portò molti intellettuali impegnati italiani a lamentarsi del fatto che Il visconte dimezzato (uscito sei anni prima) non rappresentasse più una parentesi nel lavoro di un narratore caratterizzato da una vena realista. Con questo nuovo romanzo, Calvino abbandonava definitivamente Il sentiero dei nidi di ragno per una poetica del fantastico muovendosi per mondi possibili, galassie cosmicomiche, città invisibili e traiettorie astrali zenoniane.

Si fa fatica, oggi, a immaginare quanto la sinistra ufficiale italiana fu disturbata dal Barone rampante; è sufficiente ricordare che, nello stesso decennio, Luchino Visconti, che era un intellettuale comunista, osò rivolgersi, con il suo Senso, non a una storia di lavoratori, ma alla passione romantica e decadente di due amanti del XIX secolo, e ne ottenne, in pratica, la scomunica da parte dei difensori del cosiddetto realismo socialista. Vorrei farvi capire perché, per un giovane di venticinque anni – tanti ne avevo quando lessi Il barone rampante nel 1957 – questo libro ebbe un impatto tanto devastante sulla mia nozione di impegno politico, o del ruolo sociale dell’intellettuale.

È superfluo ricordare che il libro mi colpì come uno stupendo lavoro letterario, facendomi sognare quei boschi incantati di Ombrosa, che digradavano superbi verso il mare. Alcuni giorni fa ho riletto il romanzo, ricavandone la stessa sensazione di felicità, ricatturata nuovamente dall’incantesimo di una lingua trasparente, attraverso la quale (e non certo contro la quale) mi pareva di arrampicarmi, in maniera quasi fisica, di ramo in ramo con Cosimo, e diventare poi un rigogolo, uno scoiattolo, un gatto selvatico, un passero, o persino una foglia d’ulivo o di ciliegio.

Quella del Barone rampante è una lingua cristallina, e Calvino (si veda la terza delle sue Lezioni americane) ha detto che il cristallo, con la sua sfaccettatura precisa e la sua capacità di riflettere la luce, era il modello di perfezione che aveva sempre accarezzato, come un simbolo.

Ma nel 1957 la mia reazione principale fu, più che estetica, di natura filosofica – il che non dovrebbe stupire nessuno, dato che ero alle prese non con una fiaba (come molti la considerarono) ma con un grande conte philosophique.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, i giovani intellettuali (poco importa se cattolici o comunisti) erano ossessionati dal dovere morale di essere – come si usava dire – “organici” al proprio gruppo ideologico. Davvero, era facile avvertire il ricatto di questa chiamata generale alle armi, al dovere della militanza, di usare il proprio potere intellettuale nella lotta contro i nemici ideologici. Solo due voci si erano levate contro questa concezione del ruolo degli intellettuali. Una, negli anni Quaranta, era stata quella di Elio Vittorini, con il quale Calvino aveva collaborato in gioventù e, più tardi, nel corso degli anni Sessanta, curando insieme “Il menabò”, una rivista che doveva influenzare enormemente il corso della letteratura italiana di quel decennio. Vittorini disse, nel 1947, che gli intellettuali non dovevano suonare il piffero della rivoluzione. Con questo, egli intendeva dire che non dovevano diventare gli agenti di stampa del loro gruppo politico, ma invece incarnarne la coscienza critica. Vittorini, all’epoca, apparteneva al partito comunista e curava una rivista abbastanza indipendente e dalla vita breve, “Il Politecnico”. Ovviamente viene considerato un traditore del proletariato. “Il Politecnico” morì, e l’appello di Vittorini rimase a lungo inascoltato.

Nel 1955, fummo affascinati da un libro di filosofia politica, Politica e cultura di Norberto Bobbio, che disegnava in maniera più rigorosa il profilo di un intellettuale che fa il proprio dovere cercando una verità che non si identifica con la verità ideologica del proprio gruppo. Laddove Vittorini aveva solo lanciato uno slogan, Bobbio sviluppava una severissima argomentazione filosofica. Rispettivamente troppo poco, o troppo, per produrre un’epifania. Questa fu prodotta dal Barone rampante, che aveva il potere persuasivo di una parabola, l’attrattiva profonda del mito, il fascino della fiaba e la forza gentile della poesia.

Calvino ha eliminato dalle prime versioni delle proprie opere certi paragrafi moraleggianti che avrebbero potuto rendere le sue lezioni troppo invadenti. Cosimo Piovasco di Rondò non insegna nulla, almeno, non ai lettori. Si limita a incarnare un esempio. Solo in due punti il romanzo suggerisce una possibile lettura/interpretazione morale. Il primo punto (nel capitolo XX) è quello in cui si dice che Cosimo riteneva che, se si voleva osservare la terra nel modo giusto, bisognava mantenere la giusta distanza da essa. Il che mi rimanda a un’osservazione dalle Lezioni americane: “È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo dei mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello”.  Il secondo punto (nel capitolo XXV) è quello in cui il fratello di Cosimo si domanda, senza trovar risposta, come la passione di Cosimo per gli affari sociali possa essere riconciliata con la sua fuga dalla società.

Cosimo decide di trascorrere la propria intera vita aerea sugli alberi, volando via dal mondo terreno. Ma quegli alberi non sono per lui una torre d’avorio. Dalle loro cime, osserva la realtà, acquistando una saggezza superiore, proprio perché la gente che egli vede gli appare piccolissima, e comprende meglio di chiunque altro i problemi dei poveri esseri umani che hanno la sventura di dover camminare sui propri piedi. Stando sugli alberi, Cosimo è spinto a prendere attivamente parte alla vita sulle proprie terre. Nella sua qualità di aristocratico, condivide i problemi degli emarginati. Trasformandosi in una sorta di dio dispettoso, o di Schelm, non così dissimile dagli animali che gli danno amicizia, nutrimento e vestimento, trasforma la natura in cultura senza distruggerla, e passo dopo passo è spinto a impegnarsi nella vita sociale, non solo nel suo piccolo territorio, ma sull’intera Europa.

Vivendo come un buon selvaggio, si fa uomo dell’Illuminismo, fuggendo dalla società diventa un leader rivoluzionario – ma uno che rimarrà sempre capace di criticare coloro che combattono dalla sua parte, e capace di provare dispiacere e disincanto per gli eccessi dei propri idoli.

Non nel romanzo, ma in un successivo commento degli anni Sessanta, Calvino riconobbe che, per essere un personaggio interessante, Cosimo non sarebbe dovuto essere un misantropo ma piuttosto un uomo coinvolto nei problemi del proprio tempo. E notò che la solitudine e la scomoda soggettività erano la vocazione del poeta, dell’esploratore e del rivoluzionario.

Questo tipo di lezione fu per me fondamentale. Ricordo che  anni dopo, in una di quelle assemblee studentesche ultra-politicizzate del 1968, quando mi fu chiesto di definire il ruolo dell’intellettuale, proposi il romanzo di Calvino come il solo testo affidabile e, citando Cosimo come modello, dissi che il primo dovere dell’intellettuale impegnato era quello di vivere sugli alberi per tenersi a distanza dai propri compagni, per poterli criticare innanzitutto, e non di fornire slogan contro gli avversari – pronto a fronteggiare un plotone di esecuzione per testimoniare che le proprie convinzioni sono vere. A quel tempo non si trattava certamente di una presa di posizione popolare, ma molti degli studenti che mi fischiarono oggi lavorano per Berlusconi, il leader della destra italiana.

Perché la lezione suggerita da questo romanzo fu così convincente per me (e penso, per molti altri in seguito)? Calvino l’ha spiegato, indirettamente, nelle sue Lezioni americane. Le lezioni morali sono, di solito, molto pesanti, e l’unica virtù di coloro che riescono a renderle memorabili è il dono della leggerezza. Aerea come il Barone, la prosa di Calvino non ha peso, è plus vague et plus soluble dans l’air – sans rien en lui qui pèse et qui pose, come avrebbe detto Verlaine. O, per concludere con le parole di Calvino: "Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro”. 

Questo Calvino ha saputo farlo, ed è questa l’eredità che lascia.

Questa conferenza è stata pubblicata in Tra Eco e Calvino. Relazioni rizomatiche, atti del convegno "Eco & Calvino. Rhizomatic Relationships", University of Toronto, 13-14 Aprile 2012, a cura di Rocco Capozzo, EncycloMedia Publishers, Milano 2013.


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Nausicaa




Ma quando fu per tornarsene a casa,
aggiogate le mule, piegate le belle vesti,
altro allora pensò la dea Atena occhio azzurro,
perché Odisseo si svegliasse, vedesse la giovinetta begli occhi,
e lei dei Feaci alla città lo guidasse.
La palla dunque lanciò la regina a un’ancella,
fallì l’ancella, scagliò la palla nel gorgo profondo.
Quelle un grido lungo gettarono: e si svegliò Odisseo luminoso,
e seduto pensava nell’anima e in cuore:
«Ohimè, di che uomini ancora arrivo alla terra?
forse violenti, selvaggi, senza giustizia,
oppure ospitali, e han mente pia verso i numi?
Come di giovanette mi è giunto un grido femmineo;
ninfe, che vivon sui picchi scarpati dei monti,
nelle sorgenti dei fiumi, nei pascoli erbosi?
Oppure sono vicino a esseri umani parlanti?
Via, dunque, io stesso vedrò e lo saprò».
Così dicendo, di sotto ai cespugli sbucò Odisseo glorioso,
dal folto un ramo fronzuto con la mano gagliarda
stroncò per coprire le vergogne sul corpo.
E mosse come leone nutrito sui monti, sicuro della sua forza,
che va tra il vento e la pioggia; i suoi occhi
son fuoco. Tra vacche si getta, tra pecore,
tra cerve selvagge; e il ventre lo spinge,
in cerca di greggi, a entrare anche in ben chiuso recinto.
Così Odisseo tra le fanciulle bei riccioli stava
per mescolarsi, nudo: perché aveva bisogno.
Pauroso apparve a quelle, orrido di salsedine,
fuggirono qua e là per le lingue di spiaggia.
Sola, la figlia d’Alcínoo restò, perché Atena
le infuse coraggio nel cuore, e il tremore delle membra le tolse.
Dritta stette, aspettandolo: e fu in dubbio Odisseo
se, le ginocchia afferrandole, pregar la fanciulla occhi belli,
o con parole di miele, fermo così, da lontano,
pregarla che la città gli insegnasse e gli desse una veste.
Così, pensando, gli parve cosa migliore,
pregar di lontano, con parole di miele,
ché a toccarle i ginocchi non si sdegnasse in cuore la vergine,
Subito dolce e accorta parola parlò:
«Io mi t’inchino, signora: sei dea o sei mortale?
Se dea tu sei, di quelli che il cielo vasto possiedono,
Artemide, certo, la figlia del massimo Zeus,
per bellezza e grandezza e figura mi sembri,
Ma se tu sei mortale, di quelli che vivono in terra,
tre volte beati il padre e la madre sovrana,
tre volte beati i fratelli: perché sempre il cuore
s’intenerisce loro di gioia, in grazia di te,
quando contemplano un tal boccio muovere a danza.
Ma soprattutto beatissimo in cuore, senza confronto,
chi soverchiando coi doni, ti porterà a casa sua.
Mai cosa simile ho veduto con gli occhi,
né uomo, né donna: e riverenza a guardarti mi vince.
Ieri scampai dopo venti giornate dal livido mare:
fin qui l’onda sempre m’ha spinto e le procelle rapaci,
dall’isola Ogigia; e qui m’ha gettato ora un dio,
certo perché soffra ancora dolori: non credo
che finiranno, ma molti ancora vorranno darmene i numi.
Ma tu, signora, abbi pietà: dopo molto soffrire,
a te per prima mi prostro, nessuno conosco degli altri
uomini, che hanno questa città e questa terra.
La rocca insegnami e dammi un cencio da mettermi addosso,
se avevi un cencio da avvolgere i panni, venendo.
A te tanti doni facciano i numi, quanti in cuore desideri,
marito, casa ti diano, e la concordia gloriosa
a compagna; niente è più bello, più prezioso di questo,
quando con un’anima sola dirigono la casa
l’uomo e la donna: molta rabbia ai maligni,
ma per gli amici è gioia, e loro han fama splendida».
Gli replicò Nausicàa braccio bianco:
«Straniero, non sembri uomo stolto o malvagio,
ma Zeus Olimpio, lui stesso, divide fortuna tra gli uomini,
buoni e cattivi, come vuole a ciascuno:
190 A te ha dato questo, bisogna che tu lo sopporti.
Ora però, che sei giunto alla nostra terra, alla nostra città,
né panno ti mancherà, né altra cosa,
quanto è giusto ottenga il meschino, che supplica.
La rocca t’insegnerò e dirò il nome del popolo.
I Feaci possiedono terra e città,
io son la figlia del magnanimo Alcínoo,
che tra i Feaci regge la forza e il potere».
Disse, e gridò alle ancelle bei riccioli:
«Fermatevi ancelle: dove fuggite alla vista d’un uomo?
Forse un nemico credete che sia?
Non esiste uomo vivente, né mai potrà esistere,
che arrivi al paese delle genti feace
portando guerra: perché noi siam molto cari agli dèi.
Viviamo in disparte, nel mare flutti infiniti,
lontani, e nessuno viene fra noi degli altri mortali.
Ma questi è un misero naufrago, che c’è capitato,
e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus
gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.
Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere,
e nel fiume lavatelo, dov’è riparo dal vento».
Disse così; si fermarono quelle, fra loro chiamandosi,
e fecero sedere al riparo Odisseo, come ordinava
Nausicàa, figlia del magnanimo Alcínoo;
vicino gli posero manto, e tunica e veste,
e nell’ampolla d’oro gli diedero il limpido olio,
e l’invitavano a farsi lavare nelle correnti del fiume.
Disse però alle ancelle Odisseo luminoso:
«Ancelle, state in disparte, mentre da solo
mi laverò la salsedine dalle spalle e con l’olio
m’ungerò tutto: da molto l’olio è lontano dal corpo.
Davanti a voi non mi laverò: mi vergogno
di stare nudo tra fanciulle bei riccioli »,
Così diceva: s’allontanarono esse e alla fanciulla lo dissero.
Intanto Odisseo luminoso si lavava nel fiume
dal sale che il dorso e le spalle larghe copriva,
e dalla testa toglieva lo sporco del mare instancabile.
Come fu tutto lavato, unto d’olio abbondante,
vestì le vesti che gli donò la giovane vergine;
e Atena, la figlia di Zeus, venne a renderlo
più grande e robusto a vedersi; dal capo
folte fece scender le chiome, simili al fiore del giacinto.
Andò allora a sedersi in disparte sulla riva del mare,
splendente di grazia e bellezza, Ne stupì la fanciulla,
e subito disse alle ancelle bei riccioli:
«Sentitemi, ancelle braccio bianco, che dica una cosa:
non senza i numi tutti, che stanno in Olimpo,
quest’uomo è venuto tra i Feaci divini.
Prima m’era sembrato che fosse brutto davvero,
e ora somiglia ai numi che il cielo ampio possiedono.
Oh se un uomo così potesse chiamarsi mio sposo,
abitando fra noi, e gli piacesse restare!
Su, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere».
Disse così, e quelle ascoltarono molto, e obbedirono:
posero accanto a Odisseo cibo e vino.
E lui bevve e mangiò, Odisseo costante, glorioso,
avidamente: da molto tempo era digiuno di cibo.

[da Omero, Odissea, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi] 


(gr. ; lat. Nausicaa).
Mitica figlia di Alcinoo, re dei Feaci, e di Arete; è protagonista di uno dei più celebri episodi dell’Odissea (libro VI). Nel poema appare come una fanciulla assai bella, degna dell’attributo leukolenos (dalle bianche braccia), che è tipico della dea Era. Per ispirazione di Atena, che le è apparsa in sogno assumendo l’aspetto di una compagna, Nausicaa si reca con le sue ancelle a lavare il corredo nuziale alla foce del fiume: qui d’improvviso le appare Ulisse, che, scampato dal naufragio della sua zattera, è stato gettato dal mare sulla costa dell’isola di Scheria. Nausicaa si mostra subito ospitale verso l’eroe, il quale rivolgendosi a lei l’ha paragonata ad Artemide e a un sacro germoglio di palma visto a Deio presso l’altare di Apollo. Ulisse riceve abiti e olio per detergersi; quando egli riappare a Nausicaa, ornato della bellezza divina che Atena gli ha conferito, la fanciulla immagina un intervento degli dei, e al tempo stesso si augura che il suo futuro sposo sia somigliante a quello straniero. Grazie ai consigli e all’aiuto di Nausicaa, Ulisse giunge alla corte di Alcinoo e vi viene accolto ospitalmente. La figura della fanciulla compare per un’ultima volta nel libro VIII (vv. 457 ss.): essa si congeda da Ulisse poiché sa che l’eroe tornerà alla sua patria, ma gli chiede di non scordarsi di lei, giacché a lei deve la vita. Tra Nausicaa e Ulisse si è stabilito un rapporto che, per la fanciulla, tende a essere non solo di ospitalità ma di amore.
La figura di Nausicaa sembra essere stata evocata soltanto dal poema omerico e da un perduto dramma di Sofocle. Rare sono anche le sue figurazioni: oltre a un dipinto di Polignoto menzionato da Pausania (I, 22, 6), la rappresentano alcuni vasi a figure rosse. (Letteratura europea Utet)

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