Teresa Cioffi, «Mia madre, Bianca Guidetti Serra. L'amicizia con Primo Levi, il quadro di Pietro Cavallero e gli scioperi Fiat, una vita dedicata alla giustizia»
Corriere della Sera Torino, 29 dicembre 2024
Tribunale di Pinerolo, 1951. «Chiedo che la signorina dimostri di possedere il titolo per difendere». La richiesta arriva dal pubblico ministero ed è rivolta a Bianca Guidetti Serra, che quel tesserino lo aveva ottenuto già quattro anni prima. È tra le prime penaliste d’Italia e sarà una figura di riferimento del Novecento. Si trova a Pinerolo per la difesa di tre operaie, imputate per violenza privata a causa di un picchetto. È il suo primo processo, l’alba di una lunga carriera consacrata alla difesa dei diritti. Molte delle sue battaglie si sono trasformate in interventi legislativi capaci di rendere un po’ più giusta quell’Italia per la quale Guidetti Serra aveva già combattuto. La chiamavano Nerina durante la Resistenza. Poi le lotte in aula a sostegno dei lavoratori, dei minori, delle donne. Ma quella data di avvio carriera, 1951, rappresenta anche un altro inizio. È l’anno di nascita di suo figlio, Fabrizio Salmoni: «E mia madre dovette battersi anche per me, per la mia adozione».
Perché?
«Mi trovavo all’istituto provinciale dell’infanzia. Un giorno entrarono all’istituto mia madre e mio padre Alberto. Mi è stato raccontato che io, in culla, sorrisi non appena li vidi. Forse sono stati loro a scegliermi, oppure chissà, può darsi che li abbia scelti io. Comunque, la domanda per l’adozione non fu una passeggiata. Ci furono “complicazioni politiche” perché mamma era comunista».
E alla fine?
«Dovettero brigare un po’ finché Ada Gobetti, che al tempo era in Consiglio Comunale a Torino, fece un’interrogazione. A quel punto le cose iniziarono a filare. Ada Gobetti aveva anche sposato i miei genitori, nel maggio del 1945. Avevano fatto la Resistenza insieme, organizzando i Gruppi di difesa della donna».
Cosa le raccontava della Resistenza?
«Sono cresciuto ascoltando le vicende vissute sia dai miei genitori che dalla famiglia Gobetti. Mia madre partiva da Torino verso la Val Chisone per portare messaggi, armi, quel che serviva. Un giorno arrivò a Fenestrelle durante un rastrellamento. Fu identificata come staffetta partigiana e messa al muro per la fucilazione, fino a quando la proprietaria di un hotel fermò tutto. Disse che quella ragazza era una sua dipendente. Non era vero, ma le salvò la vita. In montagna aveva l’occasione di incontrare anche mio padre, si erano conosciuti al liceo D’Azeglio».
Dove conobbe anche Primo Levi. A sua madre furono indirizzate le cartoline postali sulla deportazione e prigionia a Auschwitz. Come ricorda Levi?
«Sono stati grandi amici. Di Levi mi piaceva l’umorismo arguto. Le prime canzoni piemontesi, anche quelle goliardiche e divertenti, le ho ascoltate da lui. Veniva a trovarci spesso a casa, in via San Dalmazzo, dove mia madre aveva lo studio. E, tra le fotografie presenti, non poteva certo mancare quella con Primo».
Altre personalità passate in studio?
«Direi tutto il mondo della sinistra, in studio si svolgevano anche le riunioni di partito. Da bambino ero geloso del tempo che mia madre dedicava a militanti, operai e sindacalisti. Io li chiamavo “i brutti” perché erano sempre un po’ trasandati. Poi nel 1956 lasciò il Pci. Fu una scelta molto sofferta ma inevitabile per una questione di coerenza ideologica. Mia madre è sempre stata troppo indipendente, sia come testa che a livello politico. E ha sempre lottato a fianco dei lavoratori, a partire dagli scioperi in Fiat del 1943».
Il suo battesimo politico?
«Sì, e da quel momento in poi non ha mai smesso di combattere le ingiustizie. Tra le prime vittorie la causa del ’58 contro il Gruppo Finanziario Tessile per la parità retributiva. Tra i processi più importanti quello per le schedature Fiat e, successivamente, il processo Eternit. Poi come deputata fu la prima firmataria per la proposta di legge che mise al bando l’amianto. Ha lavorato molto anche per i minori e le adozioni, riformando la legge e collaborando con l’Anfaa, Associazione nazionale famiglie adottive affidatarie».
Che madre è stata?
«Molto affettuosa. Diceva: “Quello che è giusto, è giusto. E se una cosa non è giusta bisogna raddrizzarla”. Era della scuola di Ada Gobetti: idee chiare, solidi principi, intransigenza morale, carisma e memorabili ire funeste quando si indignava».
La disturbava in studio?
«Da bambino la disturbavo ogni tanto. Io e mia nonna, a dire il vero, eravamo oggetto di distrazione. Mia nonna, che abitava con noi, rispondeva al telefono al posto suo e questo faceva molto arrabbiare mia mamma: non era professionale. Non era spesso a casa, comunque. Trascorreva più tempo in tribunale. Entrava alle 9 e poi al pomeriggio andava dai clienti alle Nuove».
In aula si trasformava?
«Io conoscevo la sua dolcezza, ma di “mite” aveva poco sia in aula che nell’impegno sociale. In tribunale diventava una grande avvocata, molto autorevole. Per lei doveva esserci sempre una distanza tra imputato e difensore ma, allo stesso tempo, era profondamente umana. E questo le veniva riconosciuto, tanto che ha continuato ad avere rapporti con chi aveva difeso».
Ad esempio con chi?
«Con alcuni membri della banda Cavallero. Era il caso di un gruppo di proletari comunisti andati fuori strada, non c’era la simpatia sui fatti ma c’era il desiderio di comprendere questi personaggi. Gli imputati percepivano questa empatia. Pietro Cavallero le dipinse un quadro che abbiamo ancora a casa. Adriano Pasqualino Rovoletto veniva a trovarla in studio con lo spumante e scherzava: “Vuole che mi dimentichi di chi mi ha fatto dare l’ergastolo?”».
Quali valori la guidavano?
«L’etica soprattutto e il coraggio. Inoltre, riteneva giusto e obbligatorio l’esercizio della difesa anche quando veniva rifiutata come nel processo alle Br. Poi c’è stato lo sconcerto per l’omicidio di Fulvio Croce, sofferto da tutto l’ambiente torinese. C’era la condanna al terrorismo ma, da parte di mia madre, c’era anche la volontà di capire perché la militanza fosse arrivata a questo punto. Questa voglia di comprendere, studiare, approfondire l’ha trasmessa anche a me».
Cosa la rendeva felice?
«Le bastava essere stimata e amata dal campo opposto, essere fermata per strada da sconosciuti che la ringraziavano per averli assistiti in tribunale, per averli fatti ri-assumere dopo un licenziamento, per avere ricordato un loro famigliare partigiano».
La cosa più bella che le ha mai detto?
«È successo durante uno dei suoi ultimi giorni. Mi ha guardato e mi ha detto: sei stato un bravo figlio».
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