Lettera di Marx a Arnold Ruge, settembre 1843
Il
nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante
dommi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a
se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo
politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno
di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per
possederla realmente. Sarà chiaro come non si tratti di tirare una
linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del
passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un
lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro.
Possiamo dunque sintetizzare in una parola la tendenza della nostra rivista: auto-chiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo in relazione alle sue lotte e ai suoi desideri. Questo è un lavoro per il mondo e per noi. Esso può derivare solo da un’unione di forze. Si tratta di una confessione, non d’altro. Per farsi perdonare le sue colpe, l’umanità non ha che da dichiararle per ciò che esse sono.
Il sogno di una cosa, l'espressione utilizzata da Pasolini, è tratta dalla famosa lettera che da Kreuznach Marx ancora venticinquenne scrive ad Arnold Ruge a Parigi, nel settembre del 1843. Lo scrittore friulano si limita a citare una frase che faceva parte di un periodo più ampio e lungo. Cade quindi l'aggettivo "mistica" in riferimento alla coscienza, e viene meno anche la parte conclusiva del testo originario: "Si vedrà allora che da tempo il mondo custodisce il sogno di una cosa".
Tutto qui.
“Sono stato folgorato da una tua citazione (in quella serata sul Menabò industriale): IL SOGNO DI UNA COSA. Ti sarei molto grato se tu mi trascrivessi la frase di Marx – o l’intera pagina – da cui hai tratto la citazione, e me la mandassi, da mettere come epigrafe al libro” . È il 26 gennaio del 1962. La richiesta è rivolta per lettera da Pier Paolo Pasolini, il destinatario è Franco Fortini. Due amici, due letterati “impegnati”, spesso in aspra polemica. La frase di Marx cui Pasolini si riferisce darà il titolo ed apparirà di lì a poco in esergo ad un suo romanzo, appunto Il sogno di una cosa. È tratta dalla famosissima ultima lettera che da Kreuznach Marx scrive ad Arnold Ruge a Parigi, nel settembre del 1843. Pasolini la cita così: «Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa…». E qui la citazione pasoliniana s’interrompe. Guido Santato fa intanto notare che Pasolini omette un aggettivo a coscienza: “mistica”. Per Marx, l’analisi critica va applicata alla coscienza mistica, non chiara a se stessa. Tra l’altro, Fortini riporta per l’amico un brano intero della lettera, e riporta correttamente anche l’aggettivo “mistica”, riferito alla coscienza. Aggiunge, Fortini, che ha preso la traduzione dalla vecchia edizione Avanti! di Marx Engels Lassalle. E commenta: «Il passo di M. [Marx] non è ancora marxista, come vedrai; anzi al tutto Feuerbachiano, ma pieno d’una forza e d’una genialità quale nessuno, eccettuato Herzen, aveva allora in Europa». Omissione volontaria o involontaria?
In ogni caso, altri sono gli interrogativi. Cos’è che colpisce tanto Pasolini nella frase di Marx, al punto di prenderne spunto per il titolo del romanzo che aveva scritto nel ’49-’50 e che allora, nel ’61, sta per vedere la luce? Per capirlo, dobbiamo cercare di capire intanto cosa intendeva dire Marx ad Arnold Ruge, in quel settembre del 1943, l’ultimo trascorso in Germania.
Sogni e coscienza
Marx, venticinquenne, scrive dunque ad un amico di sedici più grande di lui, che conosce e frequenta da poco. Hanno intenzione di fondare una nuova rivista in lingua tedesca, ma a Parigi. Ruge ha alle spalle la travagliata direzione degli Hallische Jahrbücher für deutsche Kunst und Wissenshaft e, soprattutto, cinque anni di carcere per una condanna come sovversivo. Di lì a un mese Marx andrà a vivere con la moglie a Parigi proprio in una comune con i Ruge e i due dirigeranno insieme i Deutsch-Französische Jahrbücher, nei quali pubblicheranno anche lo scambio epistolare degli anni ’42-’43, anche se qui e lì ritoccato.
Ma il denso rapporto tra Marx e Ruge durerà poco: nella seconda metà del ’44 si dividono su questioni politiche e Ruge diviene subito un bersaglio polemico per l’ex amico: un paio d’anni dopo, ne L’ideologia tedesca, tornerà come il “dottor Graziano della filosofia tedesca”, nei panni dunque di una maschera pedante e burlona.
Ma quando Marx gli scrive, in quel settembre, Ruge fa ancora parte dei Giovani hegeliani, della sinistra nata dalla costola più viva dell’idealismo tedesco. Lo spirito di Hegel permea il tono della lettera. Nella prima parte, Marx annota: «La filosofia si è fatta mondo [hat sich verweltlicht] e la prova più schiacciante ne è che la coscienza filosofica stessa è stata risucchiata nel tormento del conflitto non solo esteriormente, ma anche interiormente». La coscienza ha quindi introiettato il conflitto: non vi partecipa solo per la forza degli eventi, ma quella radicalità è calata dentro di lei, è divenuta interna alla coscienza personale.
Il compito della filosofia, per i giovani della Sinistra hegeliana, è dunque essenzialmente critico. La natura stessa della critica filosofica consiste nel superamento conservativo di tutto quel che ha preceduto il presente dello spirito e nella disposizione a superare a sua volta il presente nel futuro[4]. Il futuro – per Marx ed i suoi amici – è la dimensione verso cui il tempo si orienta, ma intimamente connesso alle altre due fasi della temporalità, presente e passato. Realizzare la ragione, tradurre la filosofia nella prassi, farla mondo: questo è il compito che si assumono i Giovani hegeliani, il che significa appunto essenzialmente esercitare la critica, in quanto denuncia delle figure inadeguate del presente rispetto al principio dell’universalizzazione della libertà: «La ragione è sempre esistita, soltanto non sempre in forma ragionevole [vernünftigen Form]. Il critico può quindi afferrarsi a quella forma della coscienza teoretica e pratica e sviluppare dalle forme proprie della realtà esistente la vera realtà come loro dover-essere e loro scopo finale».
In altri termini, genuinamente hegeliani, la razionalità del reale (cioè il contenuto di verità del reale, la sua struttura intellegibile), esisteva già nel recente passato, solo che nelle fasi precedenti della storia era avvolta in forme mistiche. Mitiche, dirà poi Walter Benjamin, riprendendo proprio questo passo della lettera a Ruge. Il mito appartiene al passato, è la forma consona al passato, ma in qualche modo partecipa anche del presente, così che passato e presente divengono “contemporanei”, compresenti.
Il finale di questa famosa lettera-manifesto del giovane hegelismo di Marx è la parte più nota[5]: «La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna [die Welt ihr Bewsusstsein innewerden lasst], che l’uomo si risvegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Il nostro intero scopo non può consistere altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente.
Il nostro motto deve dunque essere: riforma della coscienza non attraverso dogmi, ma attraverso l’analisi della coscienza mistica, non chiara a se stessa, si presenti in forma religiosa o politica. Si vedrà allora che da tempo il mondo possiede [nel senso di custodisce, ha in sé] il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di possedere la coscienza, per possederla veramente».
Benjamin fa notare quanto decisivo sia allora in questo passo di Marx il momento del risveglio, l’Erwachen. Si tratta di un’allegoria – nota Benjamin nei Passagenwerk – in grado di dar conto pienamente del suo concetto di “immagine dialettica”. Il risveglio è ciò che interrompe il mito (il mistico, dice Marx) e lo consegna all’analisi della ragione, lo immette nel circuito della Storia: «Il risveglio è forse la sintesi della tesi, rappresentata dalla coscienza onirica e dell’antitesi, costituita dalla coscienza della veglia? Il momento del risveglio sarebbe allora identico al “adesso della conoscibilità” in cui le cose assumono la loro vera – surrealistica – espressione […]. Nell’immagine dialettica, ciò che è stato in una determinata epoca è sempre, al tempo stesso, il “da-sempre-già-stato”. Ma ogni volta esso si manifesta come tale solo agli occhi di un’epoca ben precisa: ovvero quella in cui l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio quest’immagine di sogno. È in quest’attimo che lo storico si assume il compito dell’interpretazione del sogno [die Aufgabe der Traumdeutung]»[6].
La nozione stessa di risveglio – commenta Didi-Huberman – “diviene questa sintesi, fragile ma balenante, della veglia e del sogno: l’una ‘dissolve’ l’altro, il secondo persiste come ‘scarto’ nell’evidenza della prima. Questa, quindi, la funzione dell’immagine dialettica, quella di mantenere un’ambiguità – forma della ‘dialettica nell’immobilità’ – che inquieti la veglia ed esiga dalla ragione lo sforzo di un auto superamento, di un’autoironia”.
In qualche modo, Benjamin accosta qui – a proposito del programma marxiano nella lettera a Ruge – la funzione assolta dall’analisi del profondo a quella della Storia, cui spetta di pensare ogni mitologia, nel senso del pensiero concettivo di Hegel, di pensare cioè oltre ogni immagine e rappresentazione, ma a partire da queste.
Tuttavia, la lettera non si chiude affatto qui e questa che segue è la interessante continuazione del finale della lettera a Ruge che Pasolini omette, lasciando i puntini di sospensione: «Si dimostrerà che non si tratta di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di portare a compimento [Vollziehung] i pensieri del passato. Si vedrà in ultimo che l’umanità non inizia un nuovo lavoro, ma porta a termine con coscienza il proprio antico lavoro».
Si tratta di esercitarsi per riformare la coscienza. Sloterdijk direbbe: una nuova antropotecnica deve subentrare all’antica, sapendo però che si tratta comunque dello stesso compito, che il fine è comunque l’immunizzazione soggettiva, personale: solo che questa deve essere conquistata attraverso un esercizio vero, sottratto alle ipoteche religiose o provvidenzialistiche.
Il finalismo viene corretto dalla consapevolezza. Si tratta di portare avanti lo stesso lavoro che lo spirito, cioè la cultura dell’epoca, ha iniziato, ma su basi nuove, con un diverso livello di consapevolezza, muovendo dall’autocoscienza. L’umanità deve destarsi dal sogno che sta sognando su se stessa per inverarlo. Basterà portare a compimento quel che la cultura ha già iniziato a metabolizzare, sapendo però che non si tratta di tirare una retta dal passato al futuro.
In altri termini, è possibile sbagliare: nella storia, nell’azione politica è connaturata la dimensione del rischio. La rivoluzione ha le proprie fondamenta nel passato, il sogno del futuro gioca con immagini che non può non prendere dal presente e dalla vita vissuta. Ma quelle fondamenta, per quanto salde, non garantiscono il futuro.
Commenta Ernst Bloch: «Un sogno non può star fermo: non fa bene. Ma se è un sogno in avanti, il fatto che vi si agita fa un effetto ben altrimenti consumante. Anche quel tanto di smorto, di debilitante che può prestarsi alla semplice nostalgia, viene allora a cadere; la nostalgia si fa piuttosto desiderio ed indica quel che esso può realmente».
Bloch è l’intellettuale marxista che forse più di ogni altro ha scelto per amico il desiderio, di cui scrive nello Spirito dell’utopia: «Il desiderio costruisce e crea il reale, noi soli siamo i giardinieri del misteriosissimo albero che spunterà». Tuttavia, il desiderio da solo non basta: anche se è lui, il Proteo dei sentimenti, a dare il colpo di volano che mette in campo il reale, dev’essere accompagnato dalla volontà, secondo Bloch, perché abbia gambe e forze.
Si tratta quindi di tradurre il sogno, l’antico sogno che l’umanità sogna su se stessa (della propria autorealizzazione, del proprio completamento, della propria felicità, in fondo) in desideri, in possibilità reali. Il desiderio dovrà esser guidato, assecondato, accompagnato dall’azione rivoluzionaria – questo pensa Bloch. Lo stesso sembra pensare Marx, in quell’autunno del ’43, quando sta per lasciare definitivamente la sua Germania per il primo dei tanti esili che contraddistingueranno la sua vita.
Pasolini resta colpito dalla lettera di Marx. La vocazione pedagogica dell’intellettuale corsaro trova il proprio incipit ideale nella formulazione del giovane rivoluzionario tedesco. Il sogno di una cosa è la riforma della coscienza. Di una coscienza che vuole e può farsi mondo. Che può e vuole cambiare la realtà secondo i propri piani politico-pedagogici, scelti e vissuti collettivamente, in competizione con le altre possibilità che il futuro può scegliere. Qui si pone un primo discrimine. Pur essendo un intellettuale ed un poeta, pur venendo osteggiato, vilipeso, a volte controbattuto con virulenza e incomprensione non soltanto dai suoi nemici elettivi (i borghesi, come egli stesso li definiva), Pier Paolo Pasolini ha scelto per tutta la vita di compiere un cammino insieme agli altri. Mai solo, salvo che nei momenti in cui la solitudine è stato il frutto amaro di una cacciata, di una ripulsa. Ma anche allora, ad ogni allontanamento ha fatto seguito un riavvicinamento, un ritorno, il riproporsi come compagno di strada e di lotta delle forze che in Italia e nel mondo si battevano per un’Italia più libera e giusta. Le prese di posizione di PPP non sono mai state indialettiche – nel senso barthesiano. Ha sempre cercato il dialogo, lo scambio, il confronto, e non soltanto con i chierici pari a lui, ma anche con il popolo, per esempio attraverso la posta coi lettori delle riviste comuniste.
Lo Sviluppo non è il nostro destino, a meno che non lo si scelga. Ma se invece preferiamo il progresso, si può anche decidere per un tratto di tornare indietro, per meglio poi andare avanti. Credo che la possibilità della scelta, sottratta al determinismo della filosofia della storia, sia quel che affascina Pasolini del testo di Marx. Come è possibile che il nuovo germogli sull’antica pianta senza che sia marcato da un destino, senza rinchiuderlo di nuovo in uno schema storicistico? Può darsi la novità, e in secondo luogo, può questa mantenere un legame con la tradizione senza condividerne la “necessità”? La necessità dei fatti, di ciò che è trascorso, può fungere da sfondo, da grammatica profonda del nuovo, senza determinarlo?
È illusorio cercare ancora, dopo le fratture e gli sbancamenti, un’identità che non si acquieti negli idola, che tenti una comprensione di sé non solo a livello individuale, ma sociale e, magari, anche diacronica, risvegliando l’attenzione per la lunga durata, per i mutamenti “genetici”?
La crisi dell’ideologia marxista, il contemporaneo capillare diffondersi dell’ideologia borghese evoluzionista rendono avvertito Pasolini della difficoltà di parlare del domani a cuor leggero. Qualcosa non andava nella stessa concezione marxista del tempo. Pasolini non accettò mai che il dopo coincidesse sempre con il meglio. Diremmo, con Ernst Bloch, che aveva quasi smascherato “l’idolatria della successione del tempo in sé“, quell’idolatria che tende ad accompagnarsi ad una vera e propria “euforia del progresso”[9] e che costituisce uno dei tratti patologici e caratterizzanti dell’ipermodernità. Pasolini avverte che l’Italia del dopoguerra, per quanto diversa e segnata dalle esperienze, vive ancora inconsapevolmente di miti, il più forte dei quali è proprio quello dello Sviluppo, del tempo vuoto dell’avanzare, del progredire che non si cura delle distruzioni e del saccheggio delle ricchezze del pianeta, senza nessun rispetto per le culture particolari, “minori’ che vivono un tempo altro da quello urbano, dal tempo lineare ideologizzato.
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