lunedì 30 ottobre 2023

Un pensiero per Barghouti


 

 
 
 
Achille Occhetto, L'eclissi della ragione, la Repubblica, 30 ottobre 2023
 
... Si è venuto così a formare in molte coscienze un nodo di equivoci, una sovrapposizione di piani che diventa sempre più difficile sciogliere. Non resta altra via che tagliarlo con la lama della ragione e della proposta. Sul piano storico, e anche al fine di trovare una via d’uscita, è del tutto doveroso ricordare, come ha fatto il Segretario generale dell’Onu, il contesto delle responsabilità che hanno alimentato la tragedia in corso. Purché si riaffermi sempre con chiarezza che la responsabilità immediata è di Hamas e non va, per nessuna ragione, giustificata. Sul terreno della passione e del cordoglio ci si può immedesimare nell’odio e nelle paure di tutti e due i popoli. Ciascun atto nefasto può essere vissuto, da ciascuno di noi, con la “compassione” che è dovuta a tutte le vittime, senza distinzioni. Quello che è dannoso fare è fomentare, nelle piazze europee, lo scontro tra diverse “martirologie”. Se vogliamo aiutare tutti e due i popoli a ritrovare la strada della reciproca comprensione spetta a noi, che non abbiamo subito le loro sofferenze, mantenere i nervi a posto, coltivare la lucidità di giudizio, non alimentare faziose tifoserie, mossi dall’unica vitale preoccupazione di trovare una via d’uscita. Sto parlando del destino dei popoli e non dei loro dirigenti. Questo è il vero aiuto che noi europei possiamo e dovremmo dare: quello di avere il privilegio di potere ragionare al di sopra dei reciproci odi al fine di scongiurare una generale “eclissi della ragione” che potrebbe diventare incontrollabile.
Va bene, va benissimo chiedere la cessazione del fuoco o le tregue umanitarie. A patto però che tali richieste non nascondano la tendenza a prendersi una pausa nella faticosa ricerca di una soluzione. Va bene invocare una pace giusta e durevole a patto che ci si muova con decisione per imporre, senza compromessi commerciali, ai paesi arabi la rinuncia alla distruzione dell’“entità sionista” e agli israeliani quella dell’occupazione senza fine. Il nodo fondamentale da spezzare è il reciproco sostegno tra due fondamentalismi religiosi, quello che ispira l’ultra destra israeliana e quello dello jihadismo arabo, immortalato nella fotografia della “triplice alleanza del terrore” incarnata dai capi di Hamas, della Jihad islamica e degli Hezbollah. Lo ripeto, è del tutto evidente che i due popoli non potranno mai convivere sullo stesso territorio se saranno diretti da due opposti fondamentalismi che si fondano sulla reciproca distruzione.
Quello che si stenta ancora a focalizzare con la dovuta attenzione è che c’è stata una cesura drammatica nella “questione palestinese”. Un raccapricciante slittamento dal terreno di un laicismo di natura nazionale a quello di un progressivo fondamentalismo religioso che rischia di diventare maggioritario nella stessa Cisgiordania. La comunità internazionale, con la sua inettitudine, è essa stessa responsabile di questo slittamento. Si è perso un patrimonio umano e politico estremamente prezioso. Ho avuto modo di conoscere sul campo Simon Peres e Yasser Arafat, nel corso del mio primo viaggio in Medio Oriente da segretario del Pci. Non posso dimenticare la straordinaria apertura mentale di Peres e le parole dette da Arafat, parole che, viste oggi, mi paiono premonitrici. Mi ha detto rivolgendosi all’Europa: «Ho fatto tutto quello che l’Occidente in questi anni mi ha chiesto. Ora sta a voi rispondere positivamente». L’ho poi rivisto pochi anni dopo nella Striscia di Gaza, che, ormai in preda al pessimismo, mi ha sibilato sotto voce: «Se l’Occidente continua a non darmi una mano nella soluzione della questione palestinese, io non riuscirò più a governare “intifada” sempre più radicali ». Peres e Arafat erano due laici, aperti alla comprensione reciproca. Riuscirà l’Europa a riallacciare le fila di una tela così tragicamente spezzata? Bisogna comprendere c he occorre lavorare per trovare nuovi interlocutori capaci di comprendersi. E non lo si può fare mantenendo distinto il momento della forza da quello che Gramsci chiamava il momento dell’egemonia intellettuale e morale. È del tutto evidente che con Hamas si deve trattare per la priorità della liberazione degli ostaggi, ma non lo si può fare su una prospettiva di pace che, rispettando le risoluzioni dell’Onu, si fondi sull’esistenza di due Stati. A questo punto del mio ragionamento mi si risponderà che nel campo palestinese non esiste un interlocutore credibile. È vero. Tuttavia in tutte le guerre si è sempre pensato anche a dar vita a interlocutori credibili. Per questo Israele accanto alla forza dovrebbe coltivare quella egemonia intellettuale e morale che le permetterebbe di sconfiggere politicamente e non solo militarmente Hamas. E lo può fare prendendo decisamente nelle proprie mani la prospettiva dei “due Stati”. E cercando, in campo palestinese, i possibili interlocutori. Faccio un solo nome, esclusivamente a titolo di esempio. In una prigione israeliana sta da vent’anni languendo Marwan Barghouti, considerato da gran parte del suo popolo un Mandela palestinese, che nel 2002 ha dichiarato al Washington Post che «la strada sarà tracciata con chiarezza se i vicini indipendenti e uguali d’Israele e di Palestina potranno negoziare un avvenire pacifico tessendo stretti legami economici e culturali». Ricordo bene, per averne sentito parlare nelle mie visite alla striscia di Gaza, che, a suo tempo, numerosi membri del parlamento europeo tra i quali Meir Sheetrit avevano caldeggiato il rilascio di Barghouti come parte di future negoziazioni di pace, e ricordo anche che Shimon Peres si era espresso a favore del “perdono presidenziale”.
Liberarlo oggi per creare un nuovo interlocutore credibile per il popolo palestinese? È solo un esempio. Non intendo certo sovrappormi alla fervida fantasia dei “Grandi della terra” allorquando si ricordano che accanto ai muscoli convive “l’esprit de finesse” del cervello politico e diplomatico.

 

venerdì 20 ottobre 2023

Italo Calvino, una partita vista da fuori

    


Italo Calvino
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Una partita che non ho visto, l'Unità edizione piemontese, 18 maggio 1948, pag. 3

Io la partita l'ho vista di fuori. Certo anch'io avrei potuto comprare un biglietto all'ultimo momento, quando gli sfortunati bagarini facevano di tutto per dar via sottocosto le loro rimanenze, ma ho preferito gustarmi l'atmosfera di festa per le strade, assaporare questa domenica torinese tanto diversa dalle altre.
Torino ha smesso la sua aria flemmatica di capitale settecentesca ed ha dimostrato che sa ancora essere una metropoli. Metropoli per un giorno: strano destino. Forse era il senso della provvisorietà di questo viavai che rendeva i torinesi i meno allegri in mezzo alla generale area di festa: il sapere che lunedì i corsi sarebbero tornati enormi e vuoti, i selciati delle vie interminabili e deserti, i bar avrebbero calato le saracinesche a mezzanotte dietro le spalle dell'ultimo cliente.
Ma sabato notte in via Roma nessuno pensava ad andare a dormire, e tutti si conoscevano e i marciapiedi erano stipati come di domenica mattina quando la gente elegante esce dalla Messa di San Carlo. Ed era gente venuta da tutta Italia, giovanotti dall'aria bulla con cappellone alla messicana.
Non potevo dormire, sabato notte, e dalla finestra aperta mi arrivavano i rumori della città, della gente senza letto accampata sui marciapiedi e i tavolini dei caffè, e gli strilloni che annunciavano l'uscita dei giornali, uno dopo l'altro.
Domenica non si sapeva cosa guardare: il cielo che un po' prometteva burrasca e un po' sereno, le macchine forestiere che un po' alzavano le cabriolet un po' l'abbassavano scoprendo vestiti vivaci e bionde chiome all'aria, gli autopullman vuoti che giravano come fossero in vacanza.
Poi il sole ha vinto. L'Italia, no, purtroppo. Su tutte le vie correva ansiosa la voce di Carosio, anche quelli che volevano far gli indifferenti finivano per fermarsi ai crocchi ad ogni bar. "È in rete! È entrata! L'Italia ha segnato!". Macché: quell'arbitro! Lo maledicemmo anche noi di fuori, stringendo i pugni.
Certo, la sera fu più triste, veder partire gli auto, i pullman, e sentire tutti quei commenti, quelle recriminazioni. Dopo un'ora dalla fine della partita sapevo già tanto che ero anch'io in mezzo agli altri che discutevo: "Ma Mazzola… Ma Eliani…".

 

giovedì 19 ottobre 2023

Italo Calvino sul set di Riso amaro


 

Italo Calvino, Il regista di "Caccia tragica" sta girando "Riso amaro". Tra i pioppi della risaia la "cinecittà" delle mondine, L'Unità edizione piemontese, 24 luglio 1948. 

Raffaele Vallone, al pugno di Vittorio Gassmann, finì per terra e Gassmann gli fu sopra. S'avvinghiarono e si rotolarono nella polvere. Gassmann ha una furia selvaggia e un fisico potente. Vallone ha più abilita ginnastica e più controllo delle sue forze. Se le davano di santa ragione, si strofinavano la faccia nella polvere. Beppe De Santis, seduto sul carrello li fissava senza perdere una mossa arrotolandosi un ciuffo di capelli tra le dita.
Siamo tra i pioppi e le risale di Veneria di Lignana. Poco distante, nelle cascine dell'azienda IFI, è accampata la “troupe” della Lux Film che sta girando Riso amaro, il film che ha per sfondo la monda del riso nel Vercellese. E’ notte e si sta girando una delle scene più drammatiche del film.
lo prima non avevo un’idea chiara di come facessero a girare le scene di cazzottature: far cascare ogni colpo dove doveva cascare, tutto così in fretta. Se anche gli altri registi fanno come De Santis il sistema è semplice : lasciare che gli attori s'arrabbino veramente e se le suonino sul serio. Basilio Franchina, l’aiuto regista, mi confida in gran segreto che per tutta la giornata avevano montato Vallone e Gassmann uno contro l’altro dicendo a entrambi: "Guarda che stasera ha deciso di picchiarti sul serio". L'altro aiuto-regista, Gianni Puccini, più maligno, spiega diversamente la loro furia interpretativa: la lotta avrebbe un solo scopo, quello di "disimpallarsi", cioè di presentare sempre la faccia scoperta alla macchina da presa, come è costante preoccupazione di ogni attore dello schermo.

Un mestiere scomodo

Ogni tanto De Santis ordina di smettere, i due si rialzano coperti di polvere, si tastano le ossa e De Santis spiega loro cos’è che non va. Poi Ciak! E ricominciano da capo. Io dovrei fare il tifo per Vallone, che è mio collega, e fino a due mesi fa impaginava la "terza" dell'Unità di Torino, ma Gianni Puccini che dirige le comparse guarda brutto quelli che osano un bisbiglio. Intorno, appesi ai pioppi, come tante lune impigliate tra le foglie, i riflettori inondano la notte sulle risaie di una luce bianca e falsa, proprio “da cinema”. Riso amaro è un film girato tutto in esterni: per De Santis l’amore della realtà rasenta il fanatismo. La scena più violenta del film, per esempio, si svolge in una vera macelleria con vacche squartate appese a uncini e pare che l’odore della carne che andava a male sotto i riflettori abbia molto giovato a ossessionare l’atmosfera.
Ora Vallone con un calcio sullo stomaco fa fare a Gassmann un salto mortale e lo butta nel ruscello. Io non credevo che l'attore nel cinema fosse un mestiere così scomodo: trucchi, pensavo, sono tutti trucchi. Invece Gassmann va a finire a bagno tante volte finché la scena non viene perfetta, mentre De Santis lo seguue sul carrello, tormentandosi il ricciolo con le dita, e Franchina che prima faceva i documentari e sa fare anche l'operatore, riprende la scena con l'Airflex.
Intanto le mondine vere che fanno da comparsa e quelle false, cioè le attrici, hanno il loro daffare a schiacciare le zanzare che sono il flagello di questa “troupe” sperduta tra gli acquitrini. Io non sento niente perché guardo Silvana Mangano che è seduta lì vicino ed è, parola d’onore, la più bella ragazza che io abbia mai visto.

Doris e Silvana

Riso amaro, come ha due protagonisti maschili, ha due protagoniste femminili. Una è americana, Doris Dowling e molti la ricorderanno in Giorni perduti. E' un'attrice di grande educazione artistica; viene dal teatro dove recitava col gruppo d'avanguardia di Clifford Odets, il drammaturgo progressista americano. Si tovava in Italia per turismo, quando le fu proposto di fermarsi per girare un film. Forse alloranon prevedeva che in Italia i film si facessero in condizioni così eroiche, accampati tra le risaie per tre mesi, così lontani da tutti i comfort di Hollywood, ma la Dowling è entusiasta del film, di De Santis, degli attori e recita con un impegno magnifico.
Silvana Mangano mi sembra una delle grandi fortune del film. E’ romana, ha diciott’anni, il viso e i capelli della Venere di Botticelli, ma un’espressione più fiera, dolce e fiera insieme, occhi scuri e capelli biondi, un incarnato terso e limpido, senza ombre né luci, spalle che si aprono con una dolcezza da cammeo, un busto d’una ardita armonia di linee trionfanti e aeree, la vita come uno stelo snello e un mirabile ritmo di curve piene e di arti longilinei. Insomma, a farla breve, Silvana Mangano m’ha fatto una grandissima impressione e devo dichiarare che nessuna fotografia può bastare a darne un’idea.
La trama di Riso amaro è basata sul contrasto tra la vita di fatiche e di solidarietà della risaia e la morale equivoca di una coppia di ladri che vi si rifugiano per sfuggire alla polizia. La più bella delle mondine lascia il sergente di cui era innamorata (Vallone) per il gigolò cittadino (Gassmann) e si perde nel losco affare di un furto di riso, mentre la ladra (Doris Dowling) si redime nella solidarietà con le mondine e tutto tra cazzottature, sparatorie, coltellate, suicidi, inondazioni, feste, balli e belle scene di monda in risaia.

Il ciuffo di De Santis

Il suggello di verità e la moralità vera del film, anche se il soggetto, per esigenze commerciali, indulge a una certa retorica e a un pessimismo convenzionale, vengono dal grande impegno di realismo e di umanità che Beppe De Santis mette nella sua regia. Appollaiato dietro la macchina da presa De Santis spiega, corregge, interpreta la parte di tutti con nervoso accanimento, attorcigliando e avviticchiando il ciuffo in mezzo al cranio, è lo stesso gesto che fa Cesare Pavese mentre scrive: che sia un segno distintivo della scuola realistica? Né le sue fatiche si limitano alle ore di ripresa.  Oggi a Veneria è arrivato il maestro Petrassi che farà il commento musicale di Riso amaro. E De Santis a spiegargli come va impostato lo spartito, in gran parte basato su motivi popolari e a cantargli lui stesso le canzoni delle mondine.
Uno stuolo di giovani attrici di Cinecittà si sono improvvisate mondariso: la diciassettenne Maria Grazia Francia, che già abbiamo visto come figlia dell'Onorevole Angelina; Anna Maestri, una giovane caratterista che viene dal teatro; Lia Corelli che sarà una mondina "prima della classe", con le treccine e i mutandoni; e Isabella [Zennaro], un brunissimo viso che non ci si aspetterebbe mai di trovare in risaia. Tra i "caporali" riconosciamo Nico Pepe, Checco Rissone e Tonino Nediani.
Ma oltre a questi risaioli di Cinecittà c’è la folla dei risaioli autentici. A vedere tornare le mondine dal lavoro, per questi interminabili viali di pioppo tra la campagna, dai monotoni riquadri verdi acquosi, a vedere quelle file di donne giovani e anziani, coi cappelloni di paglia, le calze che lasciano nudo il piede, i vestiti multicolori e fantasiosi, viene da stupirsi che il cinema non abbia pensato prima ad ispirarsi a questa materia così ricca di umanità e di colore, a questi loro quaranta giorni di fatica e di sfruttamento per un guadagno che sfumerà in altrettanto tempo, a questa loro allegria avventurosa piena di combattività collettiva.
Le mondine di Veneria provengono in gran parte dal Modenese: paesi “rossi”. Abbiamo visitato uno dei loro affollati dormitori - per fortuna ci dicono: questo è uno dei migliori! - mentre leggevano la posta ricevuta allora. Le notizie da casa erano allarmanti: la polizia di Scelba era stata al loro paese durante un comizio e aveva manganellato la popolazione. Parecchi loro cari erano stati feriti o arrestati. Le mondine erano in grande apprensione e si leggevano le lettere l'un l'altra.

Partono le mondine

Dell’inaspettato diversivo cinematografico le ragazze della risaia sono tutte entusiaste. Tra loro e quelli del cinema s’è subito creata la più calorosa amicizia. Ma tra pochi giorni, finita la monda, questo stuolo rumoroso e policromo farà ritorno alle proprie case. Sull’immensa risaia rimarrà solo la “troupe” di De Santis a finire Riso amaro.
I cinematografari non sanno darsene pace. “Veneria senza mondine resterà ben triste” dice De Santis guardando il monotono paesaggio. E sa che non s’è affezionato a loro come a un motivo decorativo, sa che solo con questi contatti tra cinema e popolo si può fare del cinema vero.

 

lunedì 16 ottobre 2023

Disumanizzare, lei dice

 

 
 
Francesca Mannocchi, La guerra disumana, La Stampa, 15 ottobre 2023
 
 
Mercoledì scorso, durante una conferenza stampa a Tel Aviv, il presidente israeliano Isaac Herzog, in risposta ai giornalisti che lo incalzavano sulla situazione umanitaria dei civili a Gaza, ha detto: «Non è vera la retorica secondo cui i civili non sono consapevoli e coinvolti. Avrebbero potuto ribellarsi, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza».
Come a dire che è saltata la distinzione tra popolazione civile e Hamas. Che si è compiuta ormai completamente la sovrapposizione tra i civili e i combattenti. Che le azioni efferate di Hamas, quindi, possono per questo consentire una punizione collettiva.
Nella sovrapposizione tra miliziani e abitanti di Gaza, i civili palestinesi non sono considerati vittime innocenti della guerra, ma rimangono in gran parte responsabili della propria morte e del proprio destino.
La settimana scorsa, durante una dichiarazione congiunta con il segretario di Stato americano Antony Blinken, il premier Benjamin Netanyahu ha detto che «Hamas deve essere schiacciato, come l'Isis». Sulla stessa scia le dichiarazioni delle forze armate: «O stai con Israele o stai col terrorismo».
La barbarie di Hamas è sotto gli occhi di tutti: giovani trucidati, una mattanza di bambini, decine e decine di ostaggi trascinati nei tunnel della Striscia di Gaza. Lo mostrano le foto, le telecamere di sorveglianza e da ultimo gli oltraggiosi video dei miliziani che trattengono dei bambini presi in ostaggio una settimana fa. La repulsione è stata unanime ma ha allo stesso tempo rafforzato la convinzione che chiunque viva dentro Gaza sia, per questa ragione, da considerare complice e dunque sacrificabile. Le vittime, non troppo collaterali, della risposta senza precedenti dell'esercito israeliano che ne ha rivendicato la natura. Israele abbandona i bombardamenti di precisione a favore dell'entità di «danni e distruzione». Lo ha detto il portavoce militare all'inizio delle operazioni sulla Striscia. La priorità è aumentare gli attacchi, e eliminare gli alti funzionari di Hamas.
Compito più facile se i civili sono considerati conniventi.
Sono le parole a modellare le relazioni tra le parti in conflitto, in guerra è antica la necessità di disumanizzare il nemico. Aiuta a combattere, ma anche a modificare la sensibilità e quindi le intenzioni della pubblica opinione. Aiuta a combattere ma è spesso preludio di orrore.
La disumanizzazione dei palestinesi è da anni al centro della strategia di guerra di Israele, non meno dell'impatto delle bombe: seimila quelle lanciate su Gaza in meno di una settimana, che hanno colpito 500 obiettivi, ucciso 1800 persone, tra cui 350 donne e 580 bambini.
Uccisi dai bombardamenti, uccisi dall'assedio totale.
Il linguaggio disumanizzante nega agli esseri umani tratti che sono unicamente umani, la capacità di ragionare che separa gli esseri umani dagli animali.
Due giorni fa, dopo l'ultimatum per l'evacuazione, Nebal Farkash, portavoce della Mezzaluna Rossa ha detto: «Nessuno sarà in grado di evacuare i pazienti e i feriti dagli ospedali e collegati ai dispositivi medici, è una missione impossibile». L'ordine di evacuazione, per loro, coincide con «una condanna a morte», anche secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Poche ore dopo, intervistato da SkyNews su questo punto, l'ex primo ministro Naftali Bennett ha perso le staffe. «Vergognati» ha detto al giornalista che gli chiedeva «cosa dice dei palestinesi in ospedale, dei bambini nelle incubatrici che saranno spente perché Israele ha tagliato l'energia elettrica a Gaza?».
Bennett gli ha urlato contro: «Cos'hai che non va? Mi stai davvero chiedendo dei civili palestinesi?». Come a dire che se la distinzione tra militari e civili è saltata, non serve più a niente porsi il problema. Se Hamas è capace di tali atrocità e i palestinesi di Gaza sono considerati complici, è più facile accettare la punizione collettiva, il numero dei morti, i bambini rimasti intrappolati sotto le macerie.
Il linguaggio disumanizzante arriva dai vertici della leadership israeliana, e non da ora. Nel 2013 Ayelet Shaked, che sarebbe poi diventata ministro della Giustizia, scrisse pubblicamente, che tutti i palestinesi erano «il nemico», compresi «gli anziani, le donne, tutte le città, tutti i villaggi, le proprietà e le infrastrutture», auspicando che venissero uccise anche le donne che resistevano all'occupazione così che non potessero mettere al mondo «altri piccoli serpenti».
«Questo include anche le madri dei martiri - scrisse citando l'ex consigliere di Netanyahu Uri Elitzur - che li mandano all'inferno con fiori e baci. Dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero andarsene, così come le case fisiche in cui hanno allevato i serpenti. Altrimenti lì verranno allevati altri piccoli serpenti. Devono morire e le loro case dovrebbero essere demolite in modo che non possano più supportare i terroristi».
La narrazione disumanizzante è un tratto caratteristico anche di questo governo, il più a destra della storia di Israele. Sotto questo governo Israele ha effettuato invasioni dei campi profughi palestinesi, delle città in Cisgiordania, uccidendo e ferendo decine di persone. I coloni, appoggiati e sostenuti dai membri più estremisti del governo, hanno attaccato villaggi, dato fuoco alle case dei palestinesi, distrutto i loro campi, in un clima di totale impunità.
Ne fanno parte politici come il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, considerato troppo pericoloso anche solo per arruolarsi nell'esercito israeliano, o il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich – un estremista di destra, attivista per gli insediamenti dei coloni e per l'annessione della Cisgiordania, che ha assunto la responsabilità dell'amministrazione civile del ministero della Difesa in gran parte della Cisgiordania e ha velocizzato il processo per migliaia di nuovi insediamenti. Smotrich, lo stesso che ha chiesto di spazzare via i villaggi palestinesi, che ha giustificato la segregazione nei reparti di maternità degli ospedali, che non voleva che sua moglie fosse ricoverata accanto a una donna palestinese il cui bambino «avrebbe ucciso suo figlio tra vent'anni». Smotrich, pronto a sacrificare anche gli ostaggi, che ha chiesto all'Idf «di non prendere in considerazione la questione dei prigionieri». Come a dire che è tale e tanta l'urgenza di vendetta, che più dei dilemmi morali conta il costi quel che costi. Più facile se il nemico è visto come un «animale umano» privo di arbitrio, di diritti, di rispetto. Più facile se anche la popolazione civile viene considerata nemica.
Disumanizzare il nemico non oscura la morte, ma ne aumenta la tollerabilità, aumenta l'accettazione da parte del pubblico di quelle morti, che tutti siano «animali», «terroristi», che in fondo abbiano meritato la fine cui sono andati incontro. Disumanizzare rende moralmente sopportabili anche i crimini di guerra.
Il mondo è rimasto a lungo in silenzio di fronte alla causa palestinese, nonostante un'occupazione lunga più di mezzo secolo, nonostante la violenza contro i palestinesi abbia raggiunto livelli senza precedenti negli ultimi anni. Nonostante i numerosi report di organizzazioni in difesa dei diritti umani che da anni ricordano come, ai sensi del diritto internazionale, Israele attui una politica di segregazione di fatto. L'equilibrio violento retto tra Israele e Hamas su Gaza è una strategia che ha dimostrato di non funzionare. Rinchiudere milioni di persone in una gabbia non è l'antidoto alla violenza, è anzi al contrario fertilizzante della radicalizzazione. Uomini e donne abituati a ricostruire dopo ogni guerra, a rimettere insieme strade, case e scuole dopo ogni offensiva, aspettando che la successiva riduca tutto di nuovo in polvere.
Disumanizzarli ha giustificato un ciclo di violenza e sofferenza di fronte a cui il mondo è rimasto troppo a lungo in silenzio. Il tentativo di contenimento di Hamas ha consentito al gruppo di militarizzarsi e organizzare un'offensiva di tale, brutale portata.
Di fronte a questa drammatica realtà, la comunità internazionale dovrebbe fermarsi e chiedersi se la vendetta, tollerata sulla pelle dei civili resi «complici», sia l'unica risposta. O se lo sia invece considerare la sicurezza degli uni e le rivendicazioni politiche degli altri.
Punire Hamas non può significare sopportare la morte di migliaia di uomini innocenti, donne, centinaia di bambini. Che non sono complici, né bestie. Ma solo persone.
 

sabato 14 ottobre 2023

Hamas nel vuoto della politica

 

                                  


Claudio Vercelli
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ANCORA PAROLE DIFFICILI: LA FOIBA MEDIORIENTALE, OVVERO DIRE COSE DURE POICHE’ STANNO VIVENDO UNA CONDIZIONE DURISSIMA - La tempesta è già arrivata ma presto si trasformerà in un uragano di lunga durata. Il conflitto arabo-israelo-palestinese è giunto ad una svolta, dopo più di vent’anni di apparente status quo, nel mentre invece - carsicamente - le cose in sé mutavano. Nell'indifferenza collettiva. Nulla, quindi, sarà più come prima. Ne sono certo. Nei territori palestinesi così come, e soprattutto, in Israele. Si tratta, forse, dello smottamento traumatico che veniva già da tempo vaticinato da certuni. Anche se non necessariamente nei concreti termini in cui si sta invece rivelando. Ci vorrà comunque tempo per capire in che direzione volgono questi mutamenti. Gli strateghi da bar e da social stanno sentenziando a ripetizione. Io, per il momento, me ne astengo, vedendo solo la prevedibile confusione che deriva dai lunghi periodi di transizione. Un po’, per fare un altrimenti assai improprio parallelo, come nel caso dell’8 settembre del 1943 in Italia. (Altri hanno parlato dell’ 11 settembre 2001 oppure di Pearl Harbour; perché, a questo punto, non anche l’11 settembre 1973, in Cile?) Poiché da italiano, mi rivolgo essenzialmente ai miei connazionali. A dominare, tra coloro che si sentono chiamati in causa (ancora una volta pochi) sono soprattutto sconcerto, angoscia e spiazzamento. Ad essi, non a caso, seguiranno risposte del tutto inedite. Vedremo, al riguardo, quali, con l'opportuno lasso di tempo. Poiché sul piano palestinese, al netto di qualsiasi pindarica analisi “geopolitica” sugli interessi, e le pretese, di altri attori dello scenario regionale (primo tra tutti l’Iran), rimane il fatto che la presa di Hamas – che si è ulteriormente radicalizzata, plausibilmente anche per rispondere alla spinte centrifughe di componenti alternative, sempre più manifeste nei suoi territori – volge alla frantumazione di ciò che residua dell’oramai agonizzante potere di Fatah, dell’Olp e dell’Anp, per quindi vampirizzarne le “mortali spoglie”. (Anche se è mia impressione che quanto stia avvenendo potrebbe determinare soprattutto il definitivo declino dalla causa palestinese; si tratta - tuttavia - di una considerazione da lasciare in sospeso, ossia tra parentesi, per poi eventualmente riprenderla e argomentarla in momenti diversi da quelli che stiamo adesso vivendo.) Hamas, e i suoi accoliti, sono rigorosamente concentrati su un’unica ipotesi: cancellare Israele, in quanto non solo “Stato abusivo” ma intollerabile offesa verso Dar-al Islam. È l’impuro che si è sovrapposto alla “purezza” del verbo islamista. Cosa in sé diversa dalle molteplici identità musulmane, che il fondamentalismo nega. Si tratta quindi di Jihad contro gli «ebrei». È questa la sua mission storica e lo ha ribadito, senza tanti giri di parole e gesti, in questi ultimi giorni. Non è questione di mera e gratuita cattiveria: semmai si tratta di un’opzione politica meditata nel tempo. L’essere terroristi non implica in comportarsi da deficienti, tanto per capirci. Hamas, in fondo, dopo la morte dei comunismi e delle tante vie secolarizzate all’emancipazione nazionale, ha coperto un vuoto che si era andato creando tra i palestinesi. Lo ha fatto, si intende, a modo suo. Sul versante israeliano, quando l’ennesima emergenza – in sé tuttavia molto diversa da quelle precedenti, trattandosi di una vera e propria “catastrofe” nazionale poiché ha colpito civili del tutto indifesi – si sarà conclusa, plausibilmente con un di più di ludibrio da parte della comunità internazionale (posto che operare da terra, oltre che da aria, a Gaza Strip, implica inevitabilmente il colpire i civili), [il pubblico] chiederà invece ragione di quanto è successo alle sue classi dirigenti. Otterrà risposte tanto prevedibili quanto parziali. Non ho difficoltà a ritenere che, a quel punto, finita l’esigenza di un Burgfrieden, di un’union sacrée tra anime opposte, nel nome del fondamentale principio di autodifesa (cosa il cui significato in Italia non si capisce in alcun modo), non solo ritorneranno i profondi dissensi che Hamas ha contribuito ad anestetizzare temporaneamente ma anche un prevedibile surplus di contrapposizioni, altrimenti solo momentaneamente lasciate a macerare. Riduco il concetto di fondo ai minimi termini: si chiederà a Benjamin Netanyahu - che come king maker della politica israeliana, ossia asso pigliatutto, ben presto rischierà di divenirne anche l’agnello sacrificale, a fronte dell’entropia di una parte delle istituzioni israeliane - quale sia stata la ratio politica di quanto sta (ancora) succedendo, a partire dalle vittime israeliane, per arrivare anche a quelle della controparte. Non basterà al premier la sua comprovata capacità mediatoria e coalittiva. Poiché se “nulla sarà più come prima”, ciò allora riguarderà anche l’animo profondo degli israeliani. Già in parte esasperati e divisi da un governo che ne rappresenta senz'altro alcuni tuttavia a danno di altri. A versare il maggiore tributo di sangue, infatti, è stata la componente secolarizzata, tanto per capirci. Non si tratta di fare una cernita e un conteggio, men che meno adesso, ma di comprendere quali siano i veri soggetti del grande disagio, oltreché della paura. Si tratta quindi di capire che una società pluralista non risponde nel medesimo modo alle identiche sollecitazioni, al netto dell’imprescindibile e indiscutibile richiamo corale a difendersi. La qual cosa è invece ben diversa dal puro nazionalismo identitario. Se così non fosse, altrimenti, ben poco distinguerebbe una democrazia da un movimento teocratico. In Israele il pluralismo funziona, ancorché con tutti i limiti del caso. In sé crescenti. A Gaza, per molti “militanti” l’idea di democrazia è invece solo un pallido inganno “coloniale”. Un mio tale, lungo incipit serve – infine - solo per arrivare ad un dunque, ossia al riscontro che, dinanzi alla tumultuosa evoluzione degli eventi, ci sono sempre e comunque due posizioni, per me altrettanto intollerabili. La prima è quella degli oppositori a prescindere, coloro che sostituiscono alla contraddittoria realtà dei fatti, ancorché spesso nebulosi, l’autoaffermazione identitaria, in genere mascherata sotto il richiamo all’umanitarismo che si finge universale quando, invece, è unilaterale. Qualcosa che concretamente si dà nell’espressione: “la nostra parte è migliore poiché è la più indifesa”. Un lascito, quest’ultimo, del terzomondismo che si è immediatamente diffuso nella coscienza di sé occidentale. Il dispositivo implicato da questa affermazione è, al medesimo tempo, sia di ordine vittimistico (“siamo soverchiati dai più prepotenti, dovete non solo appoggiarci bensì amarci incondizionatamente”) sia di natura egocentrica (“siamo il nocciolo della vera umanità, valiamo in quanto tali, a prescindere da qualsiasi riscontro di merito; come tali, vinceremo!”). Questo atteggiamento, a certe determinate condizioni, costituisce il grado zero della politica. Ovvero, concorre a cancellare dal comune orizzonte la necessità di comprendere appieno che l’esistenza associata non è un rullo inesorabile bensì il ripetersi di discontinuità. Che, come tali, vanno invece costantemente mediate. In un’impressionante declino dell’autonoma capacità critica, il campo di ciò che chiamiamo con il nome di “sinistra”, quanto meno una parte di essa, esaurita la speranza in un futuro migliore, si è invece adagiata su questo identitarismo che – storicamente - è, altrimenti, soprattutto il vero nocciolo delle destre illiberali dal 1789 in poi. (Avviso per i naviganti: la “sinistra”, storicamente, non si è mai richiamata alle sole vittime bensì alla capacità di andare ben oltre un orizzonte vittimimistico, prendendo nelle proprie mani, prometeicamente, il destino.) Ad oggi, si tratta di una sorta di gioco delle specularità, dove, il richiamo belluino, ferino, ferale degli uni corrisponde a quello degli altri. In parole povere: ci sono molti utili idioti che fanno il verso ad Hamas, senza capire che l’islamismo radicale ha, in Europa, come suo omologo, soprattutto il nazionalsocialismo. Non certo, per capirci, la “lotta di Liberazione”. Punto e a capo. La seconda opzione è quella che invece cerca, nel proprio campo, i cosiddetti “traditori”, tali poiché non cadavericamente allineati sulla celebrazione del gruppo di appartenenza, inteso al pari di una sorta di tribù bellicosa che, proprio nel richiamo al più vieto oltranzismo, trova la sua stessa ragione d’essere. Qualcosa del tipo: “non esisto per ciò che penso di me ma per quanto riesco ad identificare come elemento di alterità rispetto alla mia persona e al mio gruppo di identificazione: chiunque si permetta una critica, è allora un intruso, uno straniero, un alieno, un perturbante”. Poiché altrimenti, ovvero se così non fosse, il potere risulterebbe al pari di un “re nudo”. Privo, come tale, di regalità, ossia di legittimazione. Si tratta, nel qual caso, di una disposizione d’animo che vuole fare pulizia politica, prima ancora che etnica, al suo proprio interno. A volere dire che le grandi crisi si risolvono non solo contrapponendosi ai “nemici” ma anche ai “falsi amici”, quelli che si permettono di obiettare qualcosa. L’una e l’altra posizione mascherano il vuoto della politica che alberga un po’ ovunque. Costituiscono solo autoinganni, destinati a cadere rovinosamente, come maschere per un massacro. Dopo che quest’ultimo, si intende, si sia già compiuto. La storia, come diceva qualcuno, potrebbe insegnare molto ma non ci sono allievi disposti ad ascoltarla. Aggiungo da me: oggi, sulla piazza pubblica, ci sono soprattutto imprenditori politici della paura. So dove stare ma, francamente, non so con chi starò, se si parla non di ragioni bensì di persone. Che possono fare la concreta differenza…

venerdì 13 ottobre 2023

I calcoli di Netanyahu e la realtà

 
 
 
William A. Galston, Il destino segnato di Bibi Netanyhau, La Stampa, 12 ottobre 2023
 

Il 22 settembre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato in modo fiducioso davanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Gli scettici avevano torto, ha detto, Israele ha firmato gli Accordi di Abramo con Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco senza un trattato di pace con i palestinesi. Gli Accordi prefigurano «l'alba di una nuova era di pace» in Medio Oriente, che raggiungerà il suo punto più alto con un'intesa tra Israele e Arabia Saudita. Quando si arriverà a ciò – Netanyahu ha detto «quando», non «se» – «i palestinesi saranno più propensi ad abbandonare il loro sogno di cancellare Israele e, una buona volta, imboccheranno la strada di una pace vera e propria con esso». Quindici giorni dopo, Hamas ha perpetrato un attacco terroristico a sorpresa che ha portato alla morte di almeno mille israeliani, perlopiù civili, e al ferimento di altri 3400. I sauditi avrebbero potuto reagire denunciando in modo esplicito gli omicidi commessi da un'organizzazione che, per la sua stessa ideologia, si colloca tra le file dei nemici dell'Arabia Saudita. Al contrario, il ministro degli Esteri del regno saudita ha rilasciato una dichiarazione nella quale sottolinea di aver «ripetutamente lanciato moniti sui pericoli legati a una situazione esplosiva, derivante dall'occupazione continua, dall'esautorazione dei diritti legittimi del popolo palestinese e dal ripetersi di sistematiche provocazioni contro i suoi luoghi santi». Il messaggio saudita a Netanyahu è dunque: non pensare neanche lontanamente che, lungo la strada verso la normalizzazione dei nostri rapporti, siamo liberi di mettere in secondo piano la questione palestinese.
A prescindere da quello che ciò può voler dire per i palestinesi in Cisgiordania, però, Hamas è un'altra faccenda. Non può esserci pace tra Israele e Hamas perché, fin dall'inizio e tuttora, quest'ultima ha giurato di spazzare via Israele. Non dovete credermi sulla parola. Leggete i suoi "General Principles and Policies" pubblicati dall'organizzazione nel 2007. Nel documento c'è scritto che la Palestina si estende «dal fiume Giordano a est fino al Mediterraneo a ovest». È una unità territoriale integra, vale a dire indivisibile. Inoltre, è anche «una terra santa» nel cuore della comunità araba e islamica e gode di uno «status speciale». Hamas dice che il progetto sionista – che è «razzista, aggressivo, coloniale, ed espansionista» – è completamente illegittimo, come lo sono anche la Dichiarazione Balfour, il Mandato britannico della Palestina e la Risoluzione delle Nazioni Unite per la spartizione della Palestina. L'istituzione di Israele è «del tutto illegittima». Il documento prosegue affermando che Hamas crede che «nessuna parte del territorio palestinese debba essere violata o concessa e che non debba esserci riconoscimento alcuno della legittimità dell'entità sionista».
Hamas sostiene che il suo dissenso è nei confronti dei sionisti, non degli ebrei e della loro religione. Il suo statuto fondativo, reso noto nel 1988, smentisce però questa affermazione. L'Articolo 7 di questo documento riporta le parole del Profeta Maometto: «L'Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: "O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo"». Come ci si comporta con un nemico implacabile che ha giurato di annientarti politicamente e fisicamente? Israele ha fatto affidamento a lungo sulla deterrenza e sulla difesa. Entrambe hanno fallito. Adesso Israele deve affrontare una situazione nuova. La sua reazione iniziale è consistita in lanci massicci di missili e nel blocco totale di Gaza. Il ministro israeliano della Difesa Yoav Gallant ha annunciato che «non ci saranno elettricità, cibo, carburante. Sarà un isolamento totale».
Questo non è che l'inizio. Credo che Netanyahu abbia deciso di procedere a un'invasione vera e propria della Striscia di Gaza e che, in queste circostanze, qualsiasi leader israeliano farebbe la stessa cosa. Lunedì, durante un briefing, il generale israeliano in pensione Noam Tibon, illustre e stimato esperto di antiterrorismo, acceso sostenitore della Soluzione Due Stati, ha detto: «Dobbiamo spingere la guerra dentro Gaza più a fondo possibile». Ha sostenuto che «Hamas deve pagarla» e che a Israele non resta altra scelta se non trionfare con una «vittoria decisiva». Ha ammesso che l'invasione sarà feroce e orribile e che potrebbe portare all'esecuzione degli ostaggi catturati da Hamas, ma ha anche lasciato intendere che queste spaventose conseguenze non dovrebbero intralciare l'operazione.
Non è questo il momento delle recriminazioni, ma le recriminazioni ci saranno. Al termine dell'operazione a Gaza, verosimilmente ci sarà una commissione d'inchiesta, come ci fu dopo la Guerra dello Yom Kippur cinquanta anni fa. Adesso è prematuro supporre che cosa riveleranno le indagini, ma stando a quello che è stato riferito – e che il governo ha smentito immediatamente –, Israele ha ignorato ripetuti avvertimenti provenienti dall'Egitto. Aharon Ze'evi Farkash, ex capo dell'intelligence dell'Israel Defence Forces (Idf), accusa il governo di aver dirottato in operazioni in Cisgiordania i soldati addetti alla difesa delle cittadine israeliane vicine alla Striscia di Gaza. Indubbiamente, da parte dell'intelligence c'è stato un fallimento colossale, e la reazione dell'Idf all'invasione è stata spaventosamente lenta.
Le guerre cambiano le nazioni. Per tutta la sua carriera, Netanyahu si è tratteggiato come il leader più adatto a garantire la sicurezza di Israele. Gli eventi degli ultimi giorni hanno invalidato questa sua affermazione. Suppongo che la sua carriera politica finirà subito dopo la guerra, aprendo così la strada a cambiamenti radicali nella politica di Israele. —
Traduzione di Anna Bissanti
© 2023, The Wall Street Journal

 

martedì 10 ottobre 2023

La fine di Netanyahu

 La fine di Netanyahu 



Francesca Mannocchi,  I civili intrappolati senza via di scampo così Israele punisce i miliziani di Hamas, La Stampa, 10 ottobre 2023

Il quotidiano israeliano Haaretz, ieri mattina, titolava un durissimo editoriale con queste parole: «Netanyahu è responsabile di questa guerra tra Israele e Gaza». Si legge: «Il primo ministro, che si vantava della sua vasta esperienza politica e della sua insostituibile saggezza in materia di sicurezza, non è riuscito a identificare i pericoli verso i quali stava consapevolmente conducendo Israele quando ha istituito un governo di annessione ed esproprio, quando ha nominato Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir a posizioni chiave, abbracciando al tempo stesso una politica estera che ignorava apertamente l’esistenza e i diritti dei palestinesi». Tesi rafforzata anche da Anshel Pfeffer, corrispondente da Israele per The Economist, che ieri scriveva: «Netanyahu ha cercato di ignorare Gaza durante i suoi molti anni in carica. Non ha mai fatto progetti per il suo futuro e dopo ogni round di combattimento si è affrettato ad occuparsi di altro. Ora sarà ricordato per sempre dagli israeliani per questo disastro. Questa è la sua eredità».

Marco Travaglio, Dagli amici li guardi Iddio, Il Fatto, 10 ottobre 2023

Chi ama Israele perché è l’unica democrazia del Medio Oriente, per quanto sfigurata da 16 anni di governi Netanyahu (salvo brevi intervalli), dovrebbe leggere i suoi principali quotidiani e prendere esempio. Da quelli conservatori a quelli progressisti, dal Jerusalem Post ad Haaretz al Time of Israel, sono unanimi nel puntare il dito sull’unico vero responsabile politico della débâcle che ha regalato ad Hamas una vittoria insperata quanto inedita: “Bibi”, il premier più corrotto e più incapace, ma anche più longevo della storia dello Stato ebraico. Il “Mister Security” che non ha saputo garantire la sicurezza del suo Paese e del suo popolo, mettendo la firma sulla più cocente sconfitta dai tempi delle due guerre in Libano. Forse che la stampa israeliana se la fa con i terroristi di Hamas? O non sa distinguere fra aggressore e aggredito? O è al soldo dell’iran? No, assolve semplicemente al primo dovere dell’informazione libera: raccontare, analizzare e commentare i fatti senza sconti per nessuno. E i fatti dicono che Israele ha tutto il diritto di esistere nei confini tracciati dall’onu nel 1948; ha tutto il diritto di difendersi dalle aggressioni; merita tutta la solidarietà per le stragi e i sequestri di innocenti subiti nell’attacco terroristico di sabato. Ma oggi, trent’anni dopo gli accordi di Oslo fra Rabin e Arafat, non regge più la giustificazione dei territori occupati in attesa di restituirli in cambio del riconoscimento dai Paesi arabi, come Begin fece con Sadat a Camp David nel 1978. Anche perché, diversamente da allora, nessun vicino di Israele può (anche se volesse) distruggerlo. E della causa palestinese i Paesi arabi si sono sempre bellamente infischiati.

Persino un falco e un eroe di guerra come Ariel Sharon si era rassegnato all’idea dei due Stati, ritirandosi da Gaza e iniziando a farlo dalla Cisgiordania, e poi mollando la destra del Likud col fido Olmert per fondare il partito centrista Kadima. Non per bontà, filantropia o irenismo, ma per pragmatismo: non puoi convivere a lungo con milioni di palestinesi che ti odiano in casa tua o alla tua porta, reprimendoli dalla culla alla tomba e violando le risoluzioni Onu. I dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e il resto di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza altri 2. Ebrei e palestinesi ormai si equivalgono e, siccome i primi fanno molti più figli dei secondi, il sorpasso è vicino. Annettere la Cisgiordania significherebbe consegnare in pochi anni parlamento e governo ai rappresentanti degli arabi: la fine dello Stato ebraico. Sharon e Olmert l’avevano capito vent’anni fa. Netanyahu neppure oggi.