giovedì 5 dicembre 2024

Maša nel gulag





Vassilij Grossman, Tutto scorre... Adelphi, Milano 1987 


 … Tutte queste donne – pure o cadute, esauste o con sette spiriti – vivevano nel mondo della speranza. Una speranza ora sveglia, ora sopita, ma che non le abbandonava mai. Anche Maša sperava – d’una speranza tormentosa; ma la speranza permette di respirare anche quando tormenta. Dopo il regime duro dell’inverno siberiano, lungo come una condanna al lager, era arrivata una pallida primavera, e Maša era stata mandata, insieme ad altre due donne, a riparare la strada che portava alla «cittadina socialista» dove abitavano, in villette di legno, i comandanti del lager e il personale salariato.

Da lontano le era parso di scorgere, alle alte finestre, le sue tendine di quando abitava sull’Arbat, e la sagoma del ficus. Vide una fanciullina con la cartella di scuola salire i gradini del ballatoio esterno ed entrare nella casa del dirigente amministrativo del lager a regime duro. La guardia di scorta aveva detto: «Ehi tu. sei venuta a vedere il cinema?». Quando poi, alla luce del crepuscolo, tornarono al lager, verso il deposito della segheria, la radio di Magadan prese a suonare. Maša e le due donne che con lei sì trascinavano, scalpicciando nel fango, misero giù le pale e si fermarono. Sullo sfondo del cielo scolorito si rizzavano le torri di vedetta, e in esse, come mosconi intirizziti, stavano le sentinelle nei loro neri pellicciotti a vita, mentre le tozze baracche sembravano essere spuntate dalla terra, incerte se rientrarvi nuovamente.

La musica non era triste, era una musica allegra, da ballo, e Maša cominciò a piangere, ascoltandola, come le pareva di non avere mai pianto in vita sua. Anche le due donne al suo fianco – una di loro era una dekulakizzata, la seconda invece era una di Leningrado, anziana, con gli occhiali dalle lenti screpolate – piangevano, ritte accanto a Maša. E sembrava che le screpolature sulle lenti degli occhiali fossero segni lasciati dalle lacrime. L’uomo di scorta rimase interdetto: le detenute piangevano di rado, i loro cuori erano rappresi dal gelo, come la tundra. Con una spinta alla schiena l’uomo le sollecitò: «Basta adesso, piantatela, andate a farvi fottere, donnacce, ve lo chiedo come un favore». Seguitava a guardarsi attorno, mai gli sarebbe venuto in mente che le donne piangevano a causa della radio.

Maša stessa, del resto, non capiva perché il suo cuore si fosse improvvisamente riempito d’angoscia e disperazione; come se tutto ciò che era accaduto nella sua vita si fosse unito in un solo groppo: l’amore della mamma, l’abito di lana a quadretti che le stava così bene, Andrjuša [il marito], i bei versi, il grugno del giudice istruttore, l’aurora con l’improvviso scintillio del sole sul mare azzurro, a Kelasuri, vicino a Suchum, il chiacchiericcio di Jul’ka [la figlia], Semisotov, le vecchie monache, gli sfrenati litigi delle donne-uomo, l’angoscia che le veniva dal fatto che la caposquadra, socchiudendo gli occhi, aveva preso a fissare lo sguardo su Maša, allo stesso modo con cui la guardava Semisotov [il capo sorvegliante]. Perché mai, d’un tratto, al suono allegro di quella musica da ballo ella aveva cominciato a sentire cosi intensamente sulla pelle la sporcizia della camicia, e le scarpe pesanti come rozzi ferri da stiro, il puzzo di sudore della giubba; perché all’improvviso, fendendole il cuore come un rasoio, quella domanda: perché, perché era capitato a lei, Maša, perché proprio a lei quel freddo gelido, quella depravazione spirituale, quella progressiva accettazione del suo destino di ergastolana?

La speranza, che sempre le era gravata sul cuore con il suo vivo peso, era scomparsa, morta. Al gaio suono di quella musica da ballo Maša aveva perduto per sempre la speranza di rivedere Julja, smarrita tra gli orfanotrofi, gli istituti per l’infanzia abbandonata, le colonie, gli asili, nell’immensa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Al gaio suono di quella musica ballavano i ragazzi, nelle case dello studente e nei club studenteschi. E Maša capi che suo marito non si trovava in nessun posto, che era stato fucilato, e che lei non l’avrebbe rivisto mai più.

Ed ella rimase senza speranza, assolutamente sola… Mai avrebbe riveduto Julja, né oggi, né da vecchia con i capelli bianchi, mai. Dio, Dio, abbi misericordia di lei; Signore, abbine pietà, proteggila Tu.

Un anno dopo Maša usci dal lager. Prima di tornare in libertà essa giacque sull’assito di legno d’abete di una gelida baracca seminterrata; nessuno la sollecitava perché andasse al lavoro, nessuno la insultava; gli inservienti della baracca sanitaria distesero Maša Ljubimova in una cassa rettangolare fatta di assi inchiodate, di quelle che il reparto tecnico di controllo aveva scartato, gettarono un ultimo sguardo al suo viso – v’era in esso un’espressione di dolce estasi infantile e di sbigottimento, quella stessa con cui aveva ascoltato, nei pressi della segheria, quella gaia musica, dapprima rallegrandosi, e poi comprendendo di non avere più speranza.

https://claudiogiunta.it/2016/04/si-ma-cosa-ce-dentro-6-tutto-scorre-di-vasilij-grossman/








Nessun commento:

Posta un commento