martedì 30 ottobre 2018

Michel Vovelle, giacobino senza macchia



Vovelle-èl⟩, Michel. - Storico francese (Gallardon, Eure-et-Loir, 1933 - Aix-en-Provence 2018). Prof. di storia moderna all'univ. di Aix-en-Provence (1976-83) e (1984-93, poi emerito) di storia della Rivoluzione francese alla Sorbona. Già presidente della Société des études robespierristes e della Commission internationale d'histoire de la Révolution française, presidente onorario della Société d'histoire moderne et contemporaine. Studioso di storia sociale e delle mentalità in una prospettiva di lunga durata, ha contribuito a un profondo rinnovamento delle ricerche sulla Francia rivoluzionaria. Tra le opere: Piété baroque et déchristianisation (1973); Les métamorphoses de la fête en Provence (1976; trad. it. 1986); Idéologies et mentalités (1982; trad. it. 1986); La mort et l'Occident (1983; trad. it. 1986); La mentalité révolutionnaire (1985; trad. it. 1987); La Révolution française (4 voll., 1986; trad. it. 5 voll., 1993); La découverte de la politique (1993; trad. it. 1995); Les folies d'Aix ou la fin d'un monde (2003); Les mots de la Révolution (2004; trad. it. 2006); La Révolution française expliquée à ma petite-fille (2006; trad. it. 2007).



Beatrice Da Vela 

 
Il 6 ottobre scorso si è spento Michel Vovelle, lo storico francese che ha saputo coniugare una rigorosa impostazione marxista allo studio della mentalità sociale e dell’ideologia. Ammetto che mi è scesa una lacrima, perché gli studi di Vovelle hanno acceso e alimentato la mia passione per la storia.
Vovelle ha scritto tantissimo, ma non tutti i suoi testi hanno avuto uguale fortuna in Italia (molti a lungo non sono stati tradotti). Io ve ne voglio consigliare tre che non potete perdervi e che vi faranno innamorare del suo modo di fare storiografia.

La morte e l’Occidente

Questo è forse lo studio più famoso. È un’indagine accuratissima su come la percezione della morte, il rapporto con essa e dunque le ritualità sia cambiato in Europa dal Medioevo a oggi. Il libro combinadati statistici (ove disponibili), fonti storiche di vario genere, metodo antropologici e persino letterario per ricstruire come le persone abbiano affrontato il mistero della morte, quali spiegazioni abbiano dato, quali siano state le visioni oltremondane che hanno attraversato i secoli. Non soltanto, La morte e l’Occidente si occupa anche di riti e ritualità e indaga il rapporto, spesso complesso e contraddittorio tra rito (pubblico e privato) e sentimento di lutto.
Oltre a essere una lettura scorrevole, che di fatto attraverso il tema ripercorre la storia delle nostre radici culturali, il libro è interssantissimo dal punto di vista metodologico perché mostra come un sapiente approccio multidisciplinare potenzi la nostra conoscenza e come il rigore del materialismo storico dia forse i suoi risultati più strabilianti in combinazione con altre metodologie.

La mentalità rivoluzionaria

La mentalità rivoluzionaria è il saggio che consiglio sempre a chi si avvicini al periodo della Rivoluzione Francese, anche solo per vie traverse (per esempio a chi sia interessato al nostro Ugo Foscolo). Se si vuole davvero capire cosa sia stata la Rivoluzione Francese oltre la fattualità storica e come abbia cambiato per sempre la mentalità occidentale, bisogna leggere questo studio. La mentalità rivoluzionaria è stato il primo studio a rispondere alla domanda per nulla banale sulle motivazioni psicologico-antropologiche del processo rivoluzionario e sul suo effetto nel modificare le visioni del mondo preesistenti e nel crearne di completamente nuove.
Il saggio si articola in sei parti, che si occupano rispettivamente dei prodromi della Rivoluzione, della distruzione del mondo passato, della costruzione di un nuovo universo di valori e riferimenti e infine delle reazioni di rifiuto del cambiamento. Inutile dire che la parte più interessante è proprio quella centrale (parti terza, quarta e quinta), nelle quali si ricostruisce la complessità della costruzione sociale, teorica e pratica, dei rivoluzionari, attraverso l’analisi delle dottrine politiche, ma anche della quotidianità. Particolarmente affascinante e nodo centrale per immergersi davvero nel modo di pensare dei rivoluzionari francesi sono i capitoli dedicati a quello che Vovelle chiama l’homo novus rivoluzionario. Proprio la definizione di un’umanità ideale, con una nuova socialità e nuovi spazi di vita, il cui fare deve essere il bene comune, è uno dei temi portanti della Rivoluzione, terreno di dialogo e di scontro acceso tra i più importanti politici dell’epoca.

I Giacobini e il Giacobinismo

Dei tre libri che ho segnalato, forse I Giacobini e il Giacobinismo è quello più tecnico e anche il più politico. Il libro è lo studio più approfondito sulle differenti correnti dell’ideologia giacobina.
Chi si aspetta un libro sugli anni 1789-1794 si troverà spiazzato dalla prefazione del libro: solo una delle tre parti, infatti, è dedicata a quello che Vovelle chiama “giacobinismo storico”, indossolubilmente legato agli eventi della Rivoluzione Francese, mentre le altre due sono dedicate al giacobinismo “trans-storico”, cioè a come gli ideali teorizzati da Robespierre e dagli altri teorici giacobini siano sopravvissuti alla fine della rivoluzione e, attraverso trasformazioni e rinnovamenti nel linguaggio, siano diventati parte del dibattito storico-politico novecentesco e contemporaneo (a tal proposito basti ricordare che sull concetto giacobino di vertu si è imperniata la campagna elettorale di Mélenchon). Scritto con il consueto stile accessibile anche ai non specialisti, il libro è anche una riflessione sulle radici della sinistra europea, sul rapporto tra marxismo e giacobinismo e su quanto sia necessario, oggi più che mai, lo studio e la comprensione dei processi rivoluzionari perché, dice Vovelle, “Quan’danche non restasse altro di quest’eredità che la memoria di una volontà collettiva di cambiare il mondo e di unire a questo scopo le volontà individuali in un gigantesco sforzo di generosità, di proselitismo e di azione concertata, il giacobinismo […]lascia ancora il ricordo di un’esperienza esaltante. E ci sorprendiamo a sperare che, sul banco su cui Jaurès sognava, attraverso il tempo, di andare a sedersi accanto a Robespierre al club dei giacobini, ci sia ancora un posticino per noi.”

martedì 23 ottobre 2018

Aris Accornero sulla cogestione


 
 
Aris Accornero, Perché non ce l’hanno fatta? Riflettendo sugli operai come classe, Quaderni di sociologia, 17/1998

Questa riflessione non può concludersi senza un cenno alla prospettiva di assimilazione degli operai all’imprenditore attraverso forme di comproprietà e di corresponsabilità che mettessero ambedue le classi in condizioni di dirigere insieme l’azienda e, per questa strada, di gestire insieme la comunità o la società. Qualcosa è stato attuato, e la forma forse più nota è il sistema tedesco della co-determinazione (Mitbestimmung), introdotta per legge nell’industria siderurgica tedesca del secondo dopoguerra proprio per bilanciare un potere di classe che aveva fomentato il bellicismo. Un’altra forma, più diffusa ma con minore impatto, è stata in vari paesi la distribuzione di azioni gratuite da parte di grandi impreseconcession agreement che aveva salvato l’azienda).
. Questa partnership fondata su un titolo di proprietà ha manifestato un limite già presente fin dall’Ottocento: la dimensione esclusivamente aziendale; né le leggi hanno premiato una rappresentanza «di classe» del lavoro nel capitale anche dove i lavoratori hanno scambiato le proprie spettanze con azioni della compagnia, come nel caso della United Airlines e dell’Alitalia in crisi. Poche imprese sono del resto disposte a far entrare i sindacalisti nei consigli di amministrazione, mentre i sindacati cercano di scansare rischi e responsabilità accettando soltanto di entrare in organi di sorveglianza. (Clamoroso fu il caso Crysler: il leader della Uaw uscì traumatizzato e il sindacato deluso dall’organo dov’era stato portato dal
Quel che va rilevato è l’inconsistenza degli approcci ispirati anni addietro a un progresso tecnologico che pareva alle soglie della fatidica automazione, e alle conseguenti aspettative sull’operaio-tecnico, la cui «frazione più avanzata» S. Mallet credette di vedere in azione alla Caltex dove i sindacalisti studiavano i bilanci come «azionisti coscienziosi», e alla Thomson-Houston, dove la nuova classe operaia gli appariva «idonea alla gestione» perché uno degli interpellati gli aveva detto: «Io me ne frego delle storie di paga, qui è la tecnica che mi interessa». Sta di fatto che in tutti questi anni una domanda di cogestione non è salita dal mondo del lavoro, nonostante le dotazioni culturali offerte agli operai da intellettuali e politici che credevano nella prospettiva integrazionista. Anche se questa è tornata da poco in auge, in termini teorici con la «economia della partecipazione» e con la «fine della società dei salariati», e in termini pratici con i fondi di investimento dei lavoratori (qui in Italia tramite la previdenza integrativa con fondi attinti dal trattamento di fine rapporto), non pare che gli operai ne siano finora usciti con il profilo di una ruling class, nemmeno in termini di gestione tecnico-produttiva, neppure con la Mitbestimmung nelle imprese tedesche, e tanto meno con la collaborazione aziendale nelle giapponesi, dove il clima è di deferenza più che di parità. Può essere che il quadro di partecipazione e di commitment contestuale al superamento del modello taylor-fordiano schiuda qualche spiraglio: se son rose fioriranno. Ma per adesso, il bilancio resta quello tratteggiato più sopra.

sabato 13 ottobre 2018

Elogio del bar Pietro

Luca Iaccarino, Al bar Pietro lo spirito è quello della vecchia piola, la Repubblica, 13 ottobre 2018
Diciamocelo: questa è una rubrica avventurosa, quasi salgariana. A seconda della porta che varco può succedere di tutto: ci può essere un cuoco gentile o un pirata brutale, una sala garbata o una caverna muffita, piatti squisiti o ranci rancidi. È il fantastico mondo del pop, bellezza, che può essere sublime o letale (quasi in senso letterale). Così in tanti anni ho recensito locali che mi sono piaciuti, altri che mi hanno lasciato perplesso, alcuni che ho adorato, talaltri che hanno persino tentato di farmi fuori. E poi ci sono quelli – pochi – che mi hanno fatto battere il cuore: le vere piole. Piole, taverne, trattoriacce ce n’è più poche ma qualcuna resiste: perlinato e bottiglie di amari, atmosfera anni ‘70 e clientela popolare, piatti franchi e Barbera sfuso. E questo è ciò che ritrovo – venerdì scorso in compagnia dell’amico Andrea – al Bar Pietro di via San Domenico. Che spleen il Bar Pietro. Compie 50 anni ora, ché fu fondato nel ’68 ed era ritrovo del circolo dei sardi democratici intitolato a Antonio Gramsci. Il signor Pietro – che ancora è qui a sovrintendere – lo rilevò a fine Settanta e da qualche anno è in mano alla veneziana Giovanna coadiuvata da Filippo. Durante la settimana propone tavola fredda di temperamento – i “panini della piola” con frittata, carpione, milanese –, aperitivi con lo spritz fatto come si deve, ma il venerdì si cucina, e soprattutto pesce.
Dunque ci accomodiamo a un tavolino delle due salette del bar e principiamo con quattro “mezze uova farcite” perfette da antipastino (con pomodoro, cipolla e cappero: €1 cad). Poi le cose si fanno serie: linguine alla marinara di gran gusto (6), insalata di polpo con sedano e patate come si deve (7), alici fritte non male (e a che prezzo: 4,50). Non aspettatevi grande gastronomia, neh: cose semplici, buone, fatte con cura a prezzi popolari. Con rammarico saltiamo la frittata cipolla e zucchine (4,50) e i tortelloni burro e salvia (€5) ma tra vini, Punt e Mes e compagnia siamo veramente allo stremo (con un conto da 40 euro tondi in due).
Alticci, ci mettiamo a chiacchierare con osti e avventori: è venerdì e lo spirito della piola è anche – soprattutto – questo, trovare qualcuno con cui far flanella. E il mio cuore batte forte per la flanella.
Bar Pietro – Piola sardo-veneziana Via San Domenico 34 - Torino Tel. 011.5213522 Chiuso il lunedì

 https://machiave.blogspot.com/2017/10/il-bar-pietro-una-storia.html

lunedì 8 ottobre 2018

La bellezza delle donne nel Valais

 

Rousseau, La Nouvelle Héloïse, 1761, I, lettre 23


... Un autre usage qui ne me gênait guère moins, c’était de voir, même chez des magistrats, la femme et les filles de la maison, debout derrière ma chaise, servir à table comme des domestiques. La galanterie française se serait d’autant plus tourmentée à réparer cette incongruité, qu’avec la figure des Valaisanes, des servantes mêmes rendraient leurs services embarrassants. Vous pouvez m’en croire, elles sont jolies puisqu’elles m’ont paru l’être: des yeux accoutumés à vous voir sont difficiles en beauté [occhi avvezzi a vedervi non sono di facile contentatura in fatto di bellezza].
Pour moi, qui respecte encore plus les usages des pays où je vis que ceux de la galanterie, je recevais leur service en silence avec autant de gravité que don Quichotte chez la duchesse. J’opposais quelquefois en souriant les grandes barbes et l’air grossier des convives au teint éblouissant de ces jeunes beautés timides, qu’un mot faisait rougir, et ne rendait que plus agréables. Mais je fus un peu choqué de l’énorme ampleur de leur gorge, qui n’a dans sa blancheur éblouissante qu’un des avantages du modèle que j’osais lui comparer; modèle unique et voilé, dont les contours furtivement observés me peignent ceux de cette coupe célèbre à qui le plus beau sein du monde servit de moule.

mercoledì 3 ottobre 2018

Bobbio e la questione internazionale




1  La réputation du philosophe turinois Norberto Bobbio (1909-2004) ne cesse de grandir dans le monde. Son nom est normalement associé à la théorie du droit et à une reflexion sur la démocratie. Il fut aussi un auteur Droz (On Mosca and Pareto, 1972) et collabora à la Revue européenne des sciences sociales (par quatre articles, de 1979 à 1981). Moins connus sont ses travaux, la plupart occasionnels, sur les relations internationales, dont deux furent traduits en français dans son ouvrage de 1999 L’État et la démocratie internationale (Bruxelles, Complexe). Jean-Baptiste Le Bohec s’appuie sur l’ensemble de ces textes et en délivre une analyse systématique qui dépasse assurément les intentions de Bobbio lui-même – ce dernier n’ayant jamais visé à faire une théorie méthodique des relations internationales (voir Mario G. Losano, Norberto Bobbio. Una biografia culturale, Rome, Carocci, 2018, p. 195) –, mais dont on ne saurait sous-estimer l’intérêt.
2  Issu d’une thèse de doctorat soutenue à l’université de Rennes 1 en mai 2013, Norberto Bobbio et la question internationale se compose de cinq parties. La première (« Critique du marxisme ») est centrée sur les questions que Bobbio pose au marxisme ou, pour mieux dire, à certains marxistes depuis son livre, sans doute le plus fameux, Politica e cultura de 1955. À bien d’égards, soutient-il, le marxisme n’a pas tenu ses promesses : cela est vrai, entre autres choses, de sa prévision d’un dépérissement progressif de l’État, mais ça l’est aussi de sa contribution à l’étude des relations internationales. La théorie léniniste de l’impérialisme en fournit la preuve tant il est vrai que les guerres ont rarement des causes économiques. Selon Bobbio, elles relèvent principalement de la politique de puissance des États, même des plus petits, dès qu’ils en ont l’opportunité. Cela confère à l’ordre international le caractère d’un désordre permanent, d’une anarchie.
C’est ce qu’expose la deuxième partie de l’ouvrage (« Philosophie des relations internationales ») axée sur le long article de 1966 « Il problema della guerra e le vie della pace » (repris en 1979 dans un recueil du même titre) et qui consacre un chapitre au rapport ami-ennemi à partir de la correspondance entretenue par Bobbio avec Carl Schmitt de 1948 à 1980 (publiée par Piet Tommissen en 1995 dans la revue Diritto e Cultura). L’article de 1966 défend le principe d’un pacifisme actif – détaillé selon ses formes instrumentale, institutionnelle et finaliste – comme moyen pour atteindre la paix. La voie du pacifisme actif est praticable à deux conditions. Cette deuxième partie présente la première de ces conditions. Elle consiste en un changement des régimes des États qui ignorent ou déprécient le pluralisme des partis et la séparation des pouvoirs. Les États sont tous appelés à se doter d’institutions démocratiques et représentatives : « bien que l’anarchie internationale serve de point de départ à la théorie bobbienne des relations internationales, cette situation n’est pas indépassable. À la différence des réalistes, qui jugent ce système incurablement anomique, il s’agit pour le philosophe d’y faire progresser le droit et la démocratie. » (p. 137).
4  La troisième partie (« Philosophie de l’histoire ») montre que l’objectif d’une paix durable tire sa solidité, chez Bobbio, du fait qu’il va de pair avec une philosophie de l’histoire explicite qui, comme toutes les philosophies du même genre, comporte une idée de progrès que Bobbio, suivant en cela l’exemple de Kant, comprend justement comme extension du droit. Les philosophies de l’histoire s’attachent traditionnellement à expliquer la constance du mal, à lui donner un sens et donc à légitimer la guerre qui est la plus universelle des relations funestes entre les peuples. La condition atomique change pourtant la donne d’après Bobbio. En effet, « comment justifier encore une guerre à laquelle rien ne peut succéder ?» (p. 167). « La force que les philosophies de l’histoire exercent, et l’impasse à laquelle elles conduisent l’humanité […] sont liées selon Bobbio à leur formidable travail de justification de la guerre, qui s’enracine profondément dans notre psychisme collectif. Asservis à ces croyances, nous adhérons malgré nous à ces justifications.» (p. 179). Bobbio invite à tourner le dos à ces philosophies et à aller plus loin. Un monde en danger requiert une vision renouvelée des fins vers lesquelles tendrait l’histoire et il va de soi que ces fins découlent de valeurs indémontrables par définition. On peut néanmoins soutenir rationnellement le besoin de recourir à ces valeurs (p. 147). La quatrième partie (« Les fins de l’histoire ») expose alors comment Bobbio conçoit l’histoire et le dessein auquel elle obéirait : elle est à la fois histoire de la liberté et histoire de l’égalité. Dans cette perspective, la diffusion atteinte par les droits de l’homme reflète le niveau du progrès social.
Reste à établir quelle est la seconde condition à laquelle la voie du pacifisme actif doit se soumettre pour être praticable, en plus de la démocratisation des régimes autoritaires. C’est l’objet de la cinquième et dernière partie de l’ouvrage de Le Bohec (« Le droit et la démocratie internationale ») qui précise qu’elle réside dans l’organisation fédérale de la collectivité internationale, « une société de sociétés » pour le dire avec le Montesquieu du Livre IX de L’Esprit des lois : les États, tout en demeurant indépendants, transfèrent des compétences à des institutions communes. Bobbio renoue ici avec les pères du fédéralisme qui lui sont chers, dont son Carlo Cattaneo. Un chapitre de cette partie traite du « Tiers » en politique, d’après un livre de Bobbio sur ce même sujet (Il Terzo assente, 1989) et défend l’idée que dans l’attente d’une pleine transformation fédéraliste du système international, la création d’un pouvoir tiers au-dessus des parties serait en mesure de résoudre les conflits entre les États, ou du moins de s’y essayer. Ce Tiers existe déjà : ce sont les Nations unies. Sa relative « absence » en souligne l’inefficacité trop souvent constatée.
On s’en tiendra pour conclure à ces quelques remarques de forme. D’assez nombreuses coquilles émaillent le texte, sans pour autant nuire à son intelligibilité, sauf peut-être dans deux cas : « celer » pour « sceller » (p. 208) ou « emprunt » pour « empreint » (p. 334). Des imprécisions sont également à signaler au début de l’ouvrage. La grève d’août 1922 ne fut pas « la dernière réaction populaire majeure contre la politique des fascistes au pouvoir » (p. 12) étant donné que la « marche sur Rome », qui ouvre au fascisme les portes du pouvoir, date du mois d’octobre de la même année. Bobbio ne suivit pas les cours de Benedetto Croce, Piero Gobetti et Piero Calamandrei à l’université de Turin à partir de 1927 (p. 12). Et pour cause : Croce et Gobetti (ce dernier mort, qui plus est, en 1926) n’étaient pas des universitaires, tandis que Calamandrei, quant à lui, enseignait à l’université de Florence. 

 Giovanni Carpinelli, « Jean-Baptiste LE BOHEC, Norberto Bobbio et la question internationale », Revue européenne des sciences sociales [En ligne], mis en ligne le 03 octobre 2018, consulté le 03 octobre 2018. URL : http://journals.openedition.org/ress/4149