Il futuro della sinistra, Corriere della Sera La Lettura, 8 dicembre 2024
Il fronte progressista in Europa non se la passa tanto bene. I politologi Maurizio Ferrera e Marc Lazar affrontano diagnosi e propongono rimedi: partire dalla lotta per la giustizia sociale e per l’eguaglianza (che non è egualitarismo); rispondere all’esigenza di sicurezza fisica, sociale ed economica; tutelare parità di genere e diversità; allargare la partecipazione democratica; proteggere da crisi climatica, pandemie, guerre (intanto).
MARC LAZAR — Nessuno può contestare questi dati, nei quali si riflette un mutamento epocale: il passaggio dalla società industriale basata su un’ampia classe operaia alla società dei servizi, caratterizzata da una struttura di classe molto più eterogenea e frammentata. A metà degli anni Sessanta i partiti di sinistra catturavano fra la metà e i tre quarti del voto operaio, e gli operai rappresentavano fra il 40% e il 50% degli occupati. La terziarizzazione ha dimezzato la quota di operai, i partiti di sinistra hanno dovuto ibridare la propria base elettorale, cercando di attrarre i nuovi ceti medi. E in parte ci sono riusciti, ma a detrimento dei ceti popolari classici e dei nuovi ceti popolari, per esempio quelli che soffrono della precarizzazione del mercato del lavoro e i disoccupati.
MAURIZIO FERRERA — In molte metropoli europee una quota consistente di voti per i partiti riformisti proviene in effetti dagli elettori di classe media, quelli che sono più istruiti e abitano nei quartieri residenziali. Ma — al netto degli smottamenti sociali dovuti alla deindustrializzazione — la sinistra ha anche perso il voto di molti operai, per non parlare dei lavoratori atipici e dei nuovi poveri. Queste categorie si astengono oppure votano per la sinistra estrema o i partiti della destra populista. Come si spiega questo fenomeno?
MARC LAZAR — Da un lato, con la delusione per le politiche che i partiti riformisti hanno adottato quando sono stati al governo, non esattamente le stesse sul piano economico di quelle dei partiti di centrodestra ma che sembrano abbastanza vicine. Questo ha alimentato la diffidenza verso la politica e le istituzioni di cui fanno parte i partiti della sinistra. Dall’altro lato, con la crescente disaffezione per i meccanismi della democrazia rappresentativa e la svolta in parte neoliberista delle istituzioni europee. Le dinamiche di globalizzazione e integrazione economica sovranazionale hanno moltiplicato le diseguaglianze, eroso le prestazioni del welfare state, creato insicurezza sociale. La crescita dei flussi migratori, dal canto suo, ha suscitato paure e resistenze di natura culturale e identitaria strumentalizzate e amplificate dai nazional-populisti di destra. Insomma, gli strati sociali più svantaggiati hanno maturato una profonda sfiducia sia orizzontale (rispetto a chi è diverso) sia verticale (rispetto ai partiti tradizionali e alle istituzioni).
MAURIZIO FERRERA — Prima hai menzionato anche trasformazioni di natura antropologica.
MARC LAZAR — Mi riferivo alla cosiddetta «rivoluzione silenziosa», iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, che ha portato alla diffusione di valori e temi «post-materialisti» (questione femminile, ambiente, nuovi diritti individuali) lentamente assorbiti dalla sinistra. Poi è arrivato un contraccolpo culturale, che ha portato di nuovo alla ribalta questioni concrete e materiali (reddito, lavoro, welfare) e ha alimentato crescenti paure nei confronti della diversità e delle istanze libertarie. Attenzione, però: in larga misura questi ceti sono coscienti dei rischi legati al cambiamento climatico e sono tolleranti nei confronti dei nuovi comportamenti e costumi. Ma rifiutano nuove norme «imposte dall’alto», perché diffidano delle élite. Gruppi sociali prima vicini alla sinistra se ne sono distaccati, aggregandosi intorno a valori e agende politiche tradizionaliste e conservatrici. Tutti questi cambiamenti si sono prima intrecciati fra loro e poi avvitati su sé stessi, creando una sorta di «singolarità» critica, amplificata dal lungo decennio di crisi iniziato a cavallo fra gli anni 2000 e 2010.
MAURIZIO FERRERA — La sinistra non è però rimasta ferma. Prima della «singolarità», si è sperimentata la cosiddetta Terza Via, promossa dal premier britannico Tony Blair, che ha influenzato altri leader. Ricordo la tavola rotonda del novembre 1999 sulla Progressive Governance, che a Firenze riunì Blair, il presidente americano Bill Clinton, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder, il premier francese Jospin e Massimo D’Alema (c’era anche il presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso). Si trattò di una svolta importante, un momento di convergenza mai registrata prima verso nuovi valori e nuove tematiche. Nel volume degli Annali è riportato in Appendice un bellissimo carteggio tra Norberto Bobbio e lo storico Perry Anderson, in occasione della traduzione in inglese del libro di Bobbio Destra e Sinistra. Il grande filosofo italiano riconosceva a Blair di avere posto il problema di come aggiornare l’«ethos della eguaglianza» (il tratto distintivo della sinistra) in un nuovo contesto caratterizzato da crescenti diseguaglianze. E apprezzava il tentativo del New Labour di abolire la camera dei Lord e di rendere più accessibile l’istruzione universitaria.
MARC LAZAR — La Terza Via è spesso indicata come capro espiatorio per l’attuale crisi della sinistra. Blair è accusato di avere abbandonato le idee originarie del socialismo, di essersi arreso al liberismo economico, di aver divorziato dalla classe operaia. Insieme al suo ispiratore, Anthony Giddens, Blair ha cercato di elaborare una visione positiva della globalizzazione, del mercato, della rivoluzione tecnologica, delle nuove istanze di libertà. E di cambiare lo stesso lessico della sinistra: dall’eguaglianza di risultati all’eguaglianza di opportunità; dalla contrapposizione fra padroni e operai a quella fra vincitori e perdenti delle trasformazioni in atto. Il blairismo e le sue politiche vanno però collocate all’interno del contesto britannico. Fuori dal Regno Unito, la Terza Via è stata più che altro un brand alla moda, che ciascun leader adattava alle proprie convenienze nazionali. In Francia, poi, non attecchì per niente: Jospin espresse forti perplessità. Per i socialisti francesi non si trattava di andare oltre la socialdemocrazia, come diceva Giddens, ma di rinnovarla senza stravolgerne i fondamenti. La Terza Via è stata un momento importantissimo di discussione nella socialdemocrazia. E alla metà degli anni Novanta i partiti della sinistra sono stati al potere in quasi tutti i Paesi europei. Per diverse ragioni, sono stati però incapaci di coordinarsi tra loro sul terreno delle politiche economiche. Non solo non hanno fatto un vero bilancio «teorico» della Terza Via ma neppure delle loro esperienze al potere. Anche questo ha fortemente destabilizzato i loro elettori.
MAURIZIO FERRERA — Veniamo al presente. Dal libro esce un quadro di sfide complesse e in parte contraddittorie. La crisi di adattamento è questa volta difficilissima da gestire. Hai detto che la sinistra è come precipitata in una «singolarità». Questa metafora evoca la possibilità di un nuovo big bang. Ma anche il rischio che scelte iniziali sbagliate producano scenari indesiderabili. C’è un punto fermo da cui partire per avviare la rifondazione del riformismo progressista?
MARC LAZAR — La visione socialista ha un tratto per così dire invariante: la lotta per la giustizia sociale, in risposta a quello che Émile Durkheim definiva «il grido di dolore» dei più bisognosi, e per l’eguaglianza non sinonimo di egualitarismo. Poggiando su queste fondamenta, la sinistra deve oggi rispondere a quattro insiemi di esigenze molto sentite dai cittadini. Innanzitutto l’esigenza di sicurezza fisica, economica e sociale, soprattutto per i ceti più vulnerabili. Secondo, il desiderio di conservare i diritti di eguali opportunità e libertà (pensiamo alla parità di genere, alla tutela delle diversità) e di allargare gli ambiti di partecipazione democratica. Terzo, avere rassicurazioni e proposte sugli iper-rischi che minacciano le società odierne: mutamento climatico, pandemie, guerre. Infine, ascoltare una narrativa politica e culturale per il presente e il futuro capace di tenere insieme società sempre più diverse.
MAURIZIO FERRERA — Vorrei sottolineare in particolare l’esigenza di una nuova narrativa capace di integrare due dimensioni: quella «visionaria» (valori motivanti e immagini di un futuro migliore) e quella «operativa» (strategie concrete di cambiamento, proposte di policy). Al tuo primo punto fermo, quello che riguarda la giustizia sociale, ne aggiungerei poi un secondo: l’impegno al rafforzamento dell’Europa, come condizione per raggiungere un nuovo equilibrio fra libertà ed eguaglianza e assicurare una prosperità inclusiva. Nella mia Postfazione al volume, suggerisco che la sinistra riformista dovrebbe chiarire che la propria comunità di riferimento non può essere che l’Europa. Oggi non basta più chiedersi «quanta e quale giustizia sociale all’interno dell’Europa», occorre anche precisare «quanta e quale Europa sociale (fondi di coesione e solidarietà, garanzie e investimenti sociali) deve esserci all’interno dei sistemi nazionali». Solo collaborando a livello di Unione Europea è possibile uscire dalla singolarità e risolvere la difficile crisi di adattamento.
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