Helmut Failoni, Modernissimo Puccini, voce del Novecento, Corriere della Sera, 12 dicembre 2024
Puccini fuori dai luoghi comuni, mescolati e rimescolati. Puccini lontano da quella definizione, a volte troppo abusata, di sentimentalismo, in cui la sua musica è stata spesso forzatamente chiusa. Puccini visto invece da angolazioni inaspettate. Che lo (ri)collocano nella modernità, che lo (ri)posizionano nel Novecento musicale. A Giacomo Puccini (Lucca, 22 dicembre 1858 – Bruxelles, 29 novembre 1924) — del quale quest’anno ricorre il celebratissimo centenario della morte — il compositore ed ex assessore alla Cultura di Milano Filippo Del Corno (1970) ha dedicato il libro Puccini ’900. La seduzione della modernità (Edizioni Curci, pp. 128, 17), con prefazione di Riccardo Chailly, profondissimo conoscitore della musica del lucchese.
L’autore, in un libro strutturato idealmente, come una curiosa composizione, in sette capitoli, che dal prologo, attraverso due intermezzi e tre atti, sfociano nell’epilogo, catalizza l’attenzione su aspetti e legami del compositore con il Novecento. Lo contestualizza con uno sguardo macroscopico, che si allunga ben oltre i confini all’interno dei quali la sua musica è relegata. Crea legami di pensiero con i suoi contemporanei. Trova corrispondenze. Nel Tabarro (prima esecuzione a New York, 1918), opera ambientata a Parigi, scrive Del Corno: «Puccini inserisce in partitura suoni e rumori che configurano veri e propri campionamenti di realtà cittadina: cornette di automobili, sirene di rimorchiatori… (…). In questa vicinanza sonora tra esclamazioni parlate e affioramenti melodici, tra il fluire quasi onomatopeicamente fluviale della sonorità orchestrale e gli inserti concreti di rumori cittadini, Puccini compie un nuovo e potente ritratto di città». E aggiunge: «Questa immagine sonora rappresenta una delle più implacabili e realistiche raffigurazioni sociali della città contemporanea che abbia luogo su un palcoscenico del primo Novecento, e rende quest’opera compagna e precorritrice di Lulu di Alban Berg, di Die Dreigroschenoper di Bertolt Brecht e Kurt Weill, di Porgy and Bess di George Gershwin, di A csodálatos mandarin di Béla Bartók».
Più avanti: il suono non è solo il colore strumentale dell’orchestra o il profilo melodico delle parti vocali, ma è anche rumore. E il suo utilizzo è connesso alla stagione delle avanguardie novecentesche: «I rumori della città di Tabarro sono contemporanei, in ogni senso, a quelli del paradossale e irriverente Parade di Erik Satie». Nella prefazione, Chailly sottolinea che «in Tabarro Puccini sembra presagire il Naturlaut cittadino che trova voce in Edgar Varèse con lavori come Déserts», di trent’anni dopo e ricorda la spinta innovatrice e sperimentale di Puccini, come l’utilizzo della fonica nel finale del primo atto de La fanciulla del West, uno strumento nuovo, creato appositamente per l’opera, con una serie di lamine metalliche vibranti collocate in una cassetta armonica che emanano un suono dal vibrato particolarissimo. Parlando de La Rondine, Del Corno rileva che in alcuni punti dell’opera «il tratto musicale sembra prefigurare quello usato di lì a pochi anni da esponenti delle avanguardie più spregiudicate (…) come accade ad esempio in Le boeuf sur le toit di Darius Milhaud». Senza dimenticare la presenza di Puccini alla prima italiana del rivoluzionario Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg e il successivo incontro fra i due compositori, così (apparentemente) distanti per poetica e linguaggio. «In realtà — scrive Del Corno — Puccini e Schönberg sono fratelli».
Nessun commento:
Posta un commento