lunedì 29 novembre 2021

Il mito dell'individuo sovrano

Oggi molti scoprono l'invadenza dello Stato. Pensavano di essere liberi e invece si trovano prigionieri di regole imposte dall'esterno. Ma è mai esistito l'individuo libero da costrizioni oppressive? Libero di sparare, per esempio, senza essere tenuto a pagare per le conseguenze? Io sono certo libero di immaginare me stesso al centro del mondo e insofferente delle incursioni altrui nel mio spazio privato. Fatto sta che questo individuo sovrano è una pia illusione. Noi siamo costitutivamente attraversati dalla presenza degli altri. Si pensi alla lingua. Noi inoltre siamo parte di una collettività che può avere un legittimo interesse alla sua tutela. Per questo la libertà di uccidere non è giudicata ammissibile. Nessuno ha il diritto di sterminare i suoi simili con le armi o con l'aiuto di un virus. Proponiamo sul tema qui appena delineato una riflessione della filosofa Donatella Di Cesare. Qual è la sua idea di libertà?
 

Io credo che noi non possiamo più pensare la libertà come “La mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro”. Perché questo è un modo moderno, oggi potremmo dire modernista, di pensare la libertà che fa acqua, ormai lo sappiamo, da tutte le parti. Cioè l’idea che ci sia un soggetto autonomo, un soggetto direi sovrano, il soggetto sovrano quasi sovranista, che presidia i propri confini. Perché il sovranismo non è solo quello della nazione e dello stato nazione. Il sovranismo è anche quello del soggetto autonomo, che presidia i propri confini e poi ci sono gli altri. E poi di tanto in tanto io scelgo se rispettare l’altro o no, se essere responsabile per l’altro oppure no. Questo concetto di libertà è un concetto superato. È un concetto che è stato giustamente criticato da tutta la filosofia del Novecento da Heidegger in poi. Penso a Essere e tempo. Già da Essere e tempo viene non solo criticato ma destituito questo soggetto sovrano. Non c’è il soggetto sovrano. Sovrano di nulla. Non c’è questa autonomia già solo se io, come dicevo all’inizio, riconosco che in me c’è sempre l’altro. Pensiamo soltanto al rapporto con la lingua. La lingua che io parlo con cui mi esprimo è già sempre la lingua dell’altro. Pensiamo già all’altro della lingua che è in noi e ci plasma, che plasma la nostra interiorità. Pensiamo per esempio alla riflessione di Wittgenstein che lei menzionava prima. Cioè tutta la riflessione di Wittgenstein, le osservazioni sulla psicologia, sono tutte in questa direzione. Wittgenstein dice “Decostruiamo il mito dell’interiorità”. Perché la lingua che io parlo è appunto sempre una lingua dell’altro. Quindi nel momento in cui io parlo la lingua dell’altro non sono più sovrano perché sono interdipendente con l’altro? Ma certo. Assolutamente. E poi pensiamo anche a tutta la riflessione successiva. Penso a tutta la riflessione per esempio della seconda metà del Novecento. Quindi penso per esempio a Emmanuel Lévinas. In fondo tutta la filosofia di Lévinas è tutta una filosofia che è anche una critica del liberismo. Perché il liberismo nasce da questa idea di libertà. Levinas mette in discussione questa idea del soggetto sovrano. Lévinas è veramente molto severo. Arriva al punto di dire che questo soggetto egocentrico, centrato su di sé, è quello che ha portato poi all’eliminazione dell’altro, che ha portato ad Auschwitz. Per rispondere alla sua domanda io penso di non essere un soggetto libero e autonomo. Penso che non ci sono prima io e poi ci sono gli altri. Prima ci sono io soggetto autonomo e poi ci sono gli altri e di tanto in tanto io scelgo se rispettarli o no, se rispondere per loro o no. Ma io sono io in quanto rispondo all’altro, in questa mia risposta all’altro, proprio nel volgermi all’altro che mi chiama. E l’altro viene sempre prima di me. Perché io, il posto in cui sono, quanti altri mi hanno preceduto? Quindi, non vengo prima io. Questo primato dell’io sovrano che politicamente diventa il primato del cittadino sovrano è gravissimo. Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che il dibattito pubblico avviene sempre secondo concetti filosofici che i filosofi hanno già messo da un secolo in discussione. 

https://www.mentinfuga.com/donatella-di-cesare-a-lezione-di-democrazia/

domenica 28 novembre 2021

Draghi al Quirinale

Antonio Socci, Perché Draghi è l’uomo migliore per il Quirinale, Libero, 28 novembre 2021 L’elezione del nuovo presidente della Repubblica è un appuntamento che – nelle cronache dei giornali – sembra un gioco a nascondino o un banale Risiko (per qualcuno un “rosico”). I partiti non sanno dove sbattere la testa. In questa nebbia fitta di chiacchiere però ha fatto irruzione finalmente un pensiero, una riflessione geopolitica che fa capire almeno la vera posta in gioco nella partita del Colle. Il piccolo e denso libro di Giulio Sapelli e Lodovico Festa - «due sovranisti molto chic» li ha definiti Giuliano Ferrara – ha un titolo perentorio: «Draghi o il caos. La grande disgregazione: l’Italia ha una via d’uscita?» (Guerini e Associati). Il pamphlet ha dietro l’erudizione storica, politica ed economica di Sapelli, nella prima parte, per sfociare poi nella brillante analisi dell’oggi (e qui si sente di più la prosa giornalistica di Festa). Riprendo, dalle loro pagine, alcuni flash perché aiutano a inquadrare i termini del problema. Cominciamo dal primo, ovvero Mario Draghi che – secondo loro - fu «nominato grazie agli Stati Uniti al vertice della Bce». Perché quella scelta? «Nella contesa globale di potenza» scrivono i due autori «quella americana è una forma di capitalismo differente da quella “renana”, franco-tedesca, attribuendo da sempre un ruolo ben diverso alla deflazione e al debito pubblico. E proprio per questo motivo richiede anche forze intellettuali in grado di contestare il verbo tedesco, austero e filocinese». Dunque «l’originalità e la forza di Draghi rispetto alla retorica europeista imperante» scrivono Sapelli e Festa «risiede nel fatto che ha rappresentato la versione americana e non tedesca di tale capitalismo, come prova il suo ruolo – sempre contestato dalla Bundesbank – nella Bce e la lotta che ha condotto per anni contro l’austerità stupida che ancora oggi sta distruggendo l’Europa… e il suo intervento riparatore a Francoforte, intervento che gli ha conferito quella speciale autorevolezza che ora pone al servizio dell’Italia». Veniamo agli altri elementi del titolo: il caos e la «grande disgregazione». Sono un’amara descrizione della situazione dell’Italia, sprofondata in una crisi economica ventennale (che è anche crisi politica, crisi di identità e crisi demografica), ora aggravata dal ciclone del Covid, nonché da una delegittimazione sempre più preoccupante delle istituzioni, dei partiti e del tessuto democratico. Se è stato decisivo che un tecnico come Draghi, uomo delle istituzioni, assumesse quest’anno in prima persona la guida di un governo di unità nazionale, per affrontare l’emergenza più drammatica, è anche vero – secondo Sapelli e Festa - che ora la politica deve riprendere il suo ruolo di governo. PROFILO IDEALE Mentre il profilo di Draghi è perfetto per l’istituzione massima dello Stato: la presidenza della repubblica. Perché «quel che serve alla nostra nazione» argomentano i due autori «è un periodo di garanzia dall’alto che protegga la nostra vita politica e aiuti a far crescere partiti radicati sul territorio dove tra storia, famiglia e piccola impresa si esprime la nostra principale “forza”». Per chiarire il prezioso ruolo che Draghi può svolgere dal Quirinale i due autori ricordano «due “tecnici” senza l’azione dei quali non avremmo avuto lo sviluppo capitalistico nazionale che impetuosamente si è realizzato negli anni Cinquanta per poi consolidarsi fino alla fine degli anni Ottanta. Senza un “tecnico” come Alberto Beneduce, la sua Iri, il salvataggio della Commerciale da lui reso possibile non ci sarebbe stato neanche un “tecnico” come Raffaele Mattioli che poi tra Mediobanca ed Eni, collaborando con i governi Dc e dialogando con i comunisti, è stato tra gli uomini decisivi per porre le basi del miracolo economico post Seconda guerra mondiale. In questo senso la perfetta potenza di un supertecnico» concludono Sapelli e Festa «si manifesta non quando sostituisce il potere politico ma quando con la massima influenza possibile, si affianca al potere politico e lo indirizza verso lo sviluppo». La logica del libro è ferrea: «Se la nostra analisi sullo stato disperato in cui versano le istituzioni italiane è fondata, se si ritiene che la ricostruzione della disgregazione italiana, precipitata del decennio 2010-2020, sia corretta… allora quella che abbiamo definito “la chance” Draghi per salvare la Repubblica, va giocata nella partita del Quirinale con il massimo della consapevolezza». A rinforzo di questa tesi Sapelli e Festa sottolineano che «il caos italiano» è determinato da due fattori: «Una carenza di credibilità internazionale accentuata dalle mosse franco-tedesche tese a semplificare così la loro egemonia sulla governance europea, e una parallela e gravissima rottura tra società e istituzioni italiane». DEM NEL PANICO Tenere ancora Draghi a Palazzo Chigi potrebbe risolvere il primo problema, ma per quanto? Oltretutto le elezioni del 2023 sono dietro l’angolo…. Inoltre così si lascerebbe «andare alla deriva il sistema politico» perché «senza rinascita dei partiti la democrazia italiana non ha futuro». Del resto il caos e la disgregazione riguardano anche l’Unione Europea e continuare a farci commissariare dalla Ue, come è accaduto nel decennio scorso, non solo è disastroso per l’Italia, ma anche per la Ue: «L’Italia ha un ruolo centrale nell’Unione europea: se accetta di essere commissariata» concludono Sapelli e Festa «permette quella dialettica degli egoismi e delle chiusure che abbiamo vissuto particolarmente nell’ultimo decennio; se riacquista un’alta capacità di iniziativa fondata sul risanamento del suo Stato (e conseguentemente fino in fondo della politica) costringe tutti a fare i conti con le esigenze di riforma dell’Unione che sono urgenti quanto quelle italiane». Il libro di Sapelli e Festa merita di essere letto. Si possono avere preferenze diverse sul futuro inquilino del Quirinale, ma bisognerebbe saper sfornare, a supporto, analisi dello stesso valore. Dal Pd – che sembra essere oggi il principale avversario dell’elezione di Draghi al Colle – traspare solo la paura di non poter eleggere ancora una volta uno dei suoi candidati. Politica di piccolo cabotaggio.

martedì 23 novembre 2021

Il mito di Faust

Claudio Magris, L'eterna rinascita del mito di Faust Corriere della Sera, 23 novembre 2021 I più grandi personaggi della letteratura universale — ma anche della musica e di altre arti — che ricorrono nelle opere e nei secoli come Ulisse, Faust, Antigone o don Giovanni, sembrano appartenere non tanto e non solo all’uno o all’altro degli autori che ne hanno scritto, quanto alle diverse civiltà che hanno dato loro vita e all’umanità stessa, che si interroga sul proprio destino e sul senso del proprio vivere, agire e morire. Nel mito faustiano il patto col diavolo sigilla una scommessa che riguarda l’esistenza intera — la sua esperienza totale e la sua conoscenza, il piacere più sensuale e immediato e la consapevolezza del dolore, dell’assoluto e del nulla. Faust firma il contratto consapevole di dover forse accettare la dannazione eterna pur di cogliere l’attimo in cui la vita riveli la pienezza del suo significato. La storia di Faust vive e viene ripresa nei capolavori di Goethe, Marlowe, Calderòn de la Barca, Lenau, Heine, Bulgakov, Valéry e tanti altri, grandi e minori, come in tante opere musicali e cinematografiche. Si inserisce, sin dalle origini, nelle dispute tra Riforma e Controriforma e, prima ancora, nelle antiche leggende e tradizioni paleo-cristiane, in numerosi testi anonimi collegati soprattutto alle tradizioni ermetiche e alla demonologia, nel teatro di marionette; acquista un rilievo centrale nell’Illuminismo. Una storia senza fine, che coinvolge il Sabba medioevale delle streghe e quello nazista. Il secondo Faust di Goethe abbraccia pure l’incertezza tra salvezza e perdizione, tanto più inquietante perché fa i conti con gli inevitabili rapporti fra progresso e violenza, rapporti demonicamente attuali già nel testo goethiano, come quando il grande e nobile progetto di Faust — costruire una libera terra dove possa vivere un libero popolo — deve passare attraverso la violenza, la distruzione del piccolo pezzo di terra dove vivono felici due vecchi coniugi i quali devono essere eliminati dall’avanzata del progresso moderno, che ha bisogno di vasti spazi ed è indifferente ai piccoli destini. Mefistofele interviene pure in soccorso della pericolante economia dell’impero stampando a tutto spiano cartamoneta straccia. Ma Goethe ha una visione globale e il suo Faust è anche — forse soprattutto, dal punto di vista poetico — la tragedia di Gretchen, di Margherita, del suo amore pure e totale, che echeggia nel suo canto all’arcolaio e nel Re di Thule, la canzone dell’amore e della fedeltà. Gretchen è la donna stritolata dalla violenza, dall’irresponsabilità e dall’egocentrismo maschile — Faust deve muoversi nel Grande Mondo, in cui non c’è spazio per l’amore e per la fedeltà, per la vita vera e condivisa. Anche se, pur nell’errore presente in ogni affannarsi nel mondo, come Faust sa bene e proclama esplicitamente, l’oscura consapevolezza di una giusta via è una possibilità di salvezza. Ma se nel capolavoro di Goethe Faust si salva, anche se in modo ambiguo, molti altri finiscono dannati. Si può oggi credere nella salvezza di Faust? È improbabile, ma non impossibile, che non ne fosse certo neppure il poeta. Lasciava che fosse l’opera stessa a deciderlo, così come non aveva fretta di finirla, nonostante la sua enorme complessità e il poco tempo che gli restava della sua vita. Il mondo faustiano di Goethe è un mondo di metamorfosi, che si aprono all’incantevole e inquietante scorrere della vita; nel suo Divano occidentale-orientale la bellissima Suleika invita ad amare, per un attimo, nella sua bellezza e nella sua bocca l’infinità eterna di Dio. Ma il Faust goethiano, specialmente il secondo, è l’inquietante rappresentazione di un mondo allora ancora futuro e per noi oggi presente, un mondo in cui l’artificio, l’artificiale sono diventati la vera natura e fiori e piante non conoscono più stagioni. Un mondo in cui si può creare homunculus, l’uomo artificiale — il futuro libero suolo per un libero popolo è già Silicon Valley. Forse solo di Gretchen si può dire «è salva»; degli altri, che fanno la storia passando come Faust sopra di lei si può forse dire soltanto che sono «passati». Il secondo Faust è veramente incommensurabile; è anche estremamente difficile metterlo in scena. Lo fece, molti anni fa, Giorgio Strehler: avevo potuto assistere spesso alle prove al Piccolo Teatro e avevo così potuto veder nascere e formarsi quel meraviglioso spettacolo. L’unico problema era Strehler; grandissimo regista e straordinario anche nel correggere gli attori, in quell’occasione si era talmente identificato, con una vera megalomania, con Faust da recitare in modo enfatico, talora oltre misura. Faceva parlare Giorgio Strehler, non Faust. Una volta, dopo aver recitato un brano, si voltò e mi chiese: «Te gà piasso?» «No», non potevo fare a meno di rispondergli. Per conoscere il Faust, quando ero al Liceo, si consigliava di leggere Il mito di Faust di Vincenzo Errante, ottimo libro che oggi certo mostra la patina del tempo. Ora è uscito uno splendido volume di Paolo Scarpi, Faust. Dalla leggenda al mito (Marsilio), che coglie a fondo, con concisa e incisiva chiarezza, il senso profondo e plurisecolare di questo mito che continua a rinascere sempre in nuove forme e in nuovi contesti. Un dono vitale, prezioso in un mondo in cui sembra che tutti scrivano e che nessuno legga. Il libro di Scarpi è un esempio di completezza, di finezza interpretativa e di scrittura nitida e coinvolgente. Mi permetto di aggiungere agli esempi presentati e interpretati da Paolo Scarpi altri due, che mi sembrano di grande forza poetica e che non mi stanco mai di ricordare. In un tardo frammento — forse l’ultimo — di Svevo il vecchio sta andando a letto, dove la moglie sta già dormendo, e pensa che è mezzanotte, l’ora in cui potrebbe apparirgli Mefistofele e riproporgli l’antico patto. Lui sarebbe subito pronto a cedergli l’anima, ma non saprebbe cosa chiedergli in cambio; non la giovinezza, spesso insensata e smarrita, anche se la vecchiaia è difficile e crudele; non l’immortalità, perché la vita è dolorosa, sebbene la morte sia angosciosa. Si rende allora conto di non avere nulla da chiedere al diavolo e pensa che Mefistofele debba essere imbarazzato perché i prodotti della ditta che egli rappresenta non sono richiesti. Il diavolo non viene, non c’è ed è questa la tragicità, il nulla. All’idea di Mefistofele che si gratta imbarazzato la barba, il vecchio si mette a ridere, mentre la moglie accanto a lui, sotto le coperte, mezza sveglia e mezza addormentata, borbotta «beato te che a quest’ora hai ancora voglia di ridere» e si gira dall’altra parte. Quel riso e quel sonno dissimulano la disperazione nell’amabile consuetudine quotidiana e costituiscono una delle ultime spiagge cui è giunta, nel suo nichilismo, la coscienza occidentale, consapevole che la vita, svanite le gerarchie morali e affettive, non induce più in tentazione. C’è anche un’altra grandissima pagina della letteratura universale in cui il diavolo non arriva: nel Grande Sertaõ, il romanzo o meglio l’epos di Guimarães Rosa, un capolavoro assoluto, il protagonista, un semi-fuorilegge dei grandi altipiani brasiliani, è incalzato, nel suo vagabondo errare dal tentatore, dal male, «il Manfarro, Quello che non esiste, l’Io-Sfrenato, il Lui» finché una notte va ad attenderlo nella brughiera. Il diavolo non si presenta, perché egli è il nulla, il non-essere sempre in agguato. Il cavaliere del Sertaõ accetta la sfida del nonessere, giungendo a quel confine oltre il quale ci si perde, ma guardando nel nulla riconquista la totalità epica della vita senza farsi risucchiare da quel vuoto e tuffandosi «nell’andirivieni» delle cose. Già il Faust di Goethe veniva rigenerato dall’aurora, dalla vita che sempre ricomincia, ma questo avviene nel suo primo Faust, mentre nel geniale megastore del secondo Faust anche il cavaliere del Sertaõ si troverebbe in difficoltà.

lunedì 22 novembre 2021

La montagna Sainte Victoire

La foto non è l'oggetto reale. Diciamo allora che ho visto con i miei occhi la montagne Sainte Victoire. E l'ho subito vista anche con gli occhi di Cézanne. Provo a dire meglio: l'ho vista con occhi segnati dalla rappresentazione pittorica di Cézanne. L'azzurro del cielo che già trascolora sugli spalti rocciosi della montagna. Oppure un cielo ocra celeste chiaro che trova rispondenza nelle tonalità del poderoso massiccio sottostante. Uno spettacolo di imponenza maestosa nella luce. Natura e sentimento della natura fusi in uno stato di contemplazione estatica: la rappresentazione pittorica  passa con grande naturalezza nella percezione immediata della realtà. Per via di Cézanne e dei suoi quadri, la montagna cambia aspetto, è la stessa e non è più la stessa; non si può ammirare la montagne Sainte Victoire senza vederla con altri occhi, più o meno trasfigurata. (Giovanni Carpinelli) ---------------------------------------------------------------------------------------------------
 Un paesaggio, un edificio o un semplice oggetto, attrae irresistibilmente il pittore e lo risucchia in una sorta di vortice. Finisce per concentrarsi su quello, come se in esso fosse racchiuso il segreto della sua opera, o della sua vita. E lo dipinge da diversi punti di vista o dallo stesso, in un solo periodo o a distanza di anni. Creando una serie, come Claude Monet con la cattedrale di Rouen e le ninfee, oppure opere indipendenti, diverse una dall' altra, come Paul Cézanne con la montagna Sainte-Victoire. L' ha dipinta quaranta volte a olio, e altrettante ad acquarello. La ripetizione è caratteristica della sua pittura analitica - tant'è che si concentrò sempre sugli stessi motivi: i bagnanti, le mele, i giocatori di carte, la moglie. Ma se queste opere sconcertanti - ritenute quasi subito la matrice dell'avanguardia del Novecento - mi lasciano ammirata e però impassibile, quelle sulla Sainte-Victoire esercitano su di me la stessa fascinazione ossessiva, quasi ipnotica, che la montagna esercitava su di lui. E quando sono andata in Provenza, mi sono accorta che la montagna non c' era più. Cioè: dopo aver visto una Sainte-Victoire di Cézanne, non si può più vedere la montagna vera, ma solo quella dipinta da lui. Così, per me, fanno le opere d' arte. Non aboliscono la realtà, ma la sostituiscono. Creano un mondo parallelo. La Sainte-Victoire l'aveva sempre avuta sotto gli occhi, poiché era l' attrazione turistica di Aix-en-Provence, la sua città natale: cartolina già usurata dai paesaggisti locali, meta di escursioni e di scavi (vi erano stati rinvenuti fossili e uova di dinosauro). Ma Cézanne dovette consumare quasi tutta la vita per scoprire che quel blocco di calcare, mille metri di altitudine a dominio della piana circostante, non era solo una montagna. All' inizio, era stata lo scenario romantico della sua adolescenza. Nella sottostante valle verde dell' Arc, prendeva il sole e faceva il bagno coi suoi amici del College Bourbon, fra cui l'inseparabile Émile Zola. Non pensava ancora di dipingerla: figlio di un banchiere, era destinato a studiare legge - e comunque sognava solo di andar via dalla provincia. Come fece quando, a 22 anni, raggiunse Parigi per diventare pittore. Lo notarono per il caratteraccio, la barba selvaggia, il linguaggio scurrile, lo stile brutale - insomma per il personaggio del pittore anti-accademico, rifiutato dai Salon. Dagli impressionisti, il cui movimento costeggiò, apprese la lezione decisiva: dipingere all' aperto, nella natura. Però, salvo una volta, la montagna sembrava scomparsa dalla sua memoria e dalla sua pittura. Finché, nel 1886, lasciò Parigi per stabilirsi definitivamente ad Aix. Voltò le spalle alla metropoli, alla speranza di gloria e alle relazioni sociali, e scelse di vivere isolato, dedicandosi solo all' esercizio della pittura, come un artigiano (dissero che vestiva «come un vetraio»).E quasi subito, la Sainte-Victoire diventa il motivo dominante. Prima la dipinge da lontano, dalla casa della sorella; poi dalle cave abbandonate di Bibémus. Infine, dopo il 1902 identifica il punto giusto. Quell' anno, infatti, Cézanne si trasferisce nella casa-atelier che si è fatto costruire a Les Lauves, su una collina sopra Aix. È come una rivelazione. Cézanne esce dalla sua casa atelier con la scatola di colori, risale la collina per un chilometro e sistema il cavalletto in un uliveto. Tutte le ultime Sainte-Victoire (una decina a olio, 17 ad acquerello) sono dipinte da questo stesso punto di vista frontale, con spostamenti a sinistra o a destra che sembrano corrispondere al movimento reale del pittore. Sono quadri molto simili, spesso dello stesso formato: la montagna invade la superficie pittorica. La Sainte-Victoire di Zurigo è una delle ultime. Cézanne la dipinge forse intorno al 1904: è invecchiato precocemente, soffre di diabete, lamenta la crescente miopia. Il quadro sembra dipinto in fretta, con una fitta trama di pennellate verticali, furiose, frante, quasi febbrili. Si ha l' impressione di guardare un' immagine fuori fuoco, un flusso di sensazioni a colori, un quadro astratto, una foresta vibrante, una tappezzeria indecifrabile. La visione è così sintetica che solo aguzzando lo sguardo nella tessitura cromatica si riconoscono le forme e i volumi: la macchia ocra in basso sulla sinistra riassume una casa, i tocchi di verde sono gli olivi della piana, i bianchi della canapa non dipinta i riflessi della luce sui campi. La montagna è una massa blu che si erge a due terzi della tela: la linea parallela all' orizzonte rende l' estensione, la linea perpendicolare la profondità; le nuvole verdi del cielo riflettono gli alberi, perché ciò che vediamo non è l' apparenza del paesaggio colto in un istante, ma la sua essenza unitaria e armoniosa nella persistenza della durata. Forse il quadro fu lasciato incompiuto. O forse Cézanne ritenne che il non-finito fosse il linguaggio più appropriato per restituire la sensazione esatta della sera - quando i contorni fluttuano, la montagna sta per essere inghiottita dall' oscurità, la pesantezza si dissolve e lascia spazio alla malinconia. A un amico, in quei giorni, scrisse di essere vicino alla realizzazione di sé in arte: l' esperienza di una vita intera gli aveva infine permesso di appropriarsi dei mezzi per esprimere l' emozione. Nell'ottobre del 1906, durante una sessione di pittura all'aperto, fu sorpreso da un temporale ed ebbe un malore. Fu ritrovato più tardi, fradicio e intirizzito. Aveva sempre detto di voler morire col pennello in mano e quasi ci riuscì: la polmonite se lo portò via in pochi giorni. Guardando le sue estreme Sainte-Victoire, dipinte da Les Lauves, si comprende che quel monolite roccioso, duro, frustato dal vento, che svetta solitario sulla pianura sottostante, assomigliava a lui - e per questo in esso si era riconosciuto. Cézanne è seduto davanti alla montagna. Elimina dal quadro tutto ciò che disturba: le tracce degli uomini, le strade, il viadotto - perfino le case e gli alberi. Dialoga con lei, da solo a sola: guardandosi come in uno specchio. Melania Mazzucco, Scalare con i colori la montagna Sainte-Victoire l'ossessione che sconfisse Cézanne, la Repubblica, 14 aprile 2013 * vera, o più vera, è la montagna di Cézanne. L'altra, quella percepita senza particolari interferenze, rischia di essere banale, sciocca. 

venerdì 19 novembre 2021

L'improbabile elezione di Draghi

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Stefano Feltri, Tra Rai e Quirinale, la stagione eccezionale del governo Draghi è già finita, Domani, 19 novembre 2021 Vari segnali indicano che l’armonia temporanea tra partiti che ha caratterizzato il governo Draghi si sta incrinando. Prima le tensioni intorno alle nomine per i tg della Rai, poi il voto di due emendamenti che passano nonostante il parere contrario del governo. Lo schema Rai applicato al Quirinale indica due scenari possibili: Draghi sostenuto dal centrodestra, con il Pd costretto ad accodarsi e un Movimento Cinque stelle incerto. Scenario alternativo: i leader marginali Renzi e Di Maio costruiscono una candidatura alternativa a quella di Draghi che spacchi la maggioranza attuale attirando il Pd. Il nome giusto sarebbe quello di Paolo Gentiloni. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Commento. 1. Draghi finora sul Quirinale non si è pronunciato. E' probabile che non escluda la possibilità di una sua elezione. Vuole veramente andarci a tutti i costi? Se fosse eletto da una maggioranza di centro-destra, dovrebbe chiamare al governo una personalità gradita a Meloni e Salvini. Due figure di un europeismo non proprio spiccato. Oppure dovrebbe conferire l'incarico di formare il governo a una personalità legata a Forza Italia, sperando nel sostegno del Pd. Sembrano scenari poco plausibili. Ipotesi finora non contemplata dagli analisti: visto lo scenario che si verrebbe a creare nel caso di una elezione su quelle basi, Draghi potrebbe ritirare la sua candidatura. Che cosa avrebbe poi da guadagnare il Pd prestandosi a un gioco simile non si capisce. Più lineare si rivela invece il percorso che potrebbe portare all'elezione di Gentiloni o di una figura analoga. Monica Maggioni al Tg 1 è del resto già il segnale di uno sviluppo successivo che lascia Draghi a palazzo Chigi. 2. Tutto questo presuppone che Draghi faccia scena muta fino all'inizio delle votazioni e che parli solo per reagire a alcune dichiarazioni di voto. A me, tuttavia, sembra più realistico un altro scenario ancora. Draghi potrebbe prendere la parola alla vigilia del voto o anche qualche giorno prima. Non per rinunciare alla candidatura, ma per porre alcune condizioni e assumere degli impegni. Le condizioni potrebbero avere a che fare con le sue convinzioni di natura politica generale, l'europeismo e l'atlantismo per esempio. Gli impegni potrebbero riguardare l'esigenza di evitare a ogni costo le elezioni anticipate. Questo, in definitiva, mi sembra allo stato attuale l'evento più probabile.

giovedì 18 novembre 2021

L'alba e il tramonto in Virgilio

L'alba Eneide,III,521 Iam rubescebat stellis Aurora fugatis E già rosseggiava l'aurora, fugate le stelle (Luca Canali) E già, fugate le stelle, arrossiva l'Aurora (Vittorio Sermonti) Anticipiamo parte della lettura che Vittorio Sermonti, stasera a Perugia, dedica a Virgilio e all' Eneide «Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis...» «E già, fugate le stelle, arrossiva l' Aurora, /quando vediamo lontano oscuri colli e, umile / sull' orizzonte, l' Italia. "Italia!" grida Acate per primo,/ "Italia!" salutano E già, fugate le slle, arrossiva i nostri con urla di giubilo». Che succede? Succede che nel rosso dell' aurora a migranti stipati sul ponte dei loro barconi appare, affiorando appena dalla superficie dell' acqua, la costa del Salento, piatta: infatti, qualcosa come "piatta" varrà qui l' aggettivo humilis apposto a "Italia" ( humilemque videmus Italiam ); anche se il nome ripetuto tre volte in due versi, il batticuore furioso con cui la riconosce gente che non l' ha mai vista prima, sembrano dilatare l' indicazione planimetrica alla sacra umiltà della più terrestre, della più terrosa, della più terra-terra... perché no? della più terra-terra delle terre. Naturalmente - serve dirlo? - i migranti che urlano sono poveracci in fuga dall' antica città di Troia demolita e data alle fiamme dai Greci in capo a dieci anni di assedio: e agli ordini del famoso Enea, dopo uno spossante brancolar per mare alla volta di un approdo oscuramente promesso, hanno appena attraversato il canale di Otranto, facendo vela «di dove la via per l' Italia è un brevissimo tratto di correnti», cioè dalla baia epirota oggi golfo di Valona, Albania (ultima tratta della migrazione... penultima, a dire il vero: l' ultima partirà dalla Tunisia...). E il poeta di cui andiamo parlando è naturalmente il celebre Publio Virgilio Marone; gli esametri letti e tradotti cadono nel III libro della sua celeberrima epopea, chiamata Eneide ... e la traduzione l' ho fatta io, naturalmente. (...) Sui criteri che ho adottato basterà enunciarne uno: ho ridotto al minimo l' uso di tutto quel compìto ed elusivo repertorio verbale che si usa soltanto a scuola nelle versioni dal latino: in poche parole, ho semplicemente usato l' italiano che adopero per pensare, e alle volte anche quello che parlo...
Il tramonto Bucoliche, I, 37-38 et iam summa procul villarum culmine fumant, maioresque cadunt altis de montibus umbrae E già lontano fumano i tetti dei casolari e più lunghe dall'alto dei monti discendono le ombre. (Luca Canali) Ogni commento sciuperebbe la divina poesia di questi versi immortali, che compendiano l'incanto di un tramonto autunnale vissuto nella soave mestizia della campagna, quando, come scrive il Funaioli, sulla tragedia umana, intessuta di lacrime amare, di ricordi, di commozioni, di spasimi, scende come un oblio lene della faticosa vita la sera di un pomeriggio d'autunno, coi suoi casolari fumanti di lontano, colle sue ombre che sempre più grandi cadono dai monti e scolorano le cose e ne velano il pianto. (Carlo Piazzino)

mercoledì 17 novembre 2021

Contro Ricolfi, per il mantenimento della correttezza politica

Luca Sofri, tweet Trent’anni dopo l’inizio delle campagne strumentali di demolizione della correttezza che hanno fatto le fortune delle destre e dei loro giornali, Repubblica offre ai lettori libri contro “gli eccessi del politicamente corretto”. Nel 2026 mi aspetto la lotta contro il buonismo. Il libro ultimo si intitola "Manifesto del libero pensiero". Autori Luca Ricolfi e Paola Mastrocola. https://www.fondazionehume.it/societa/politicamente-corretto-5-mutazioni-pericolose/ Commento Diciamo pure che il politicamente corretto allude senza riprendere vecchie designazioni discriminatorie. Che cosa succede se si adotta come norma il suo contrario, la scorrettezza politica? Si autorizza il ricorso libero alla svalutazione preventiva dell'altro. E' politicamente scorretto considerare le parole "zingaro" e "ladro" come equivalenti. Se io mi sbarazzo degli scrupoli che mi impongono un uso prudente del linguaggio, mi attribuisco il potere di insultare/discriminare/colpire qualsiasi appartenente alla categoria degli zingari. Esiste questo potere? In base a quale legge? Ecco che viene fuori il trucco, l'esercizio della mia libertà si traduce in un danno alla reputazione di molte persone da me giudicate in blocco sulla base di un pregiudizio. Siamo in una sfera molto vicina a quella occupata dall'arroganza dei no vax o dei no green pass più fanatici. Non mi vaccino, divento portatore di un contagio dannoso per gli altri, e però rivendico ugualmente la libertà di movimento, di circolazione, di presenza in luoghi frequentati da persone che potrei danneggiare con la mia sbadataggine. La libertà diventa diritto alla sbadataggine, e tanto peggio per chi si ritrova contagiato. L'esaltazione dell'individuo viene spinta fino alla nocuranza per il destino dell'altro: è questo che vogliamo?

martedì 16 novembre 2021

Quello che Cacciari non dice

Oreste Pivetta, No vax no green pass, tutto quello che Cacciari non dice, Huffington Post, 16 novembre 2021 Tanto tuonò, ma non piovve. Alla vigilia della quarta ondata, pare esaurirsi il torrentello dei no vax, non pass, no, no, no... L’Italia è diventato il paese dove il “no suona”, perfino contro il fatal vaccino che dovrebbe liberarci o almeno ripararci dal male del secolo nostro, il covid. Il torrentello non rischia di espandersi in fiume, malgrado gli immancabili portatori d’acqua, gente comune infarcita di slogan che si moltiplicano via social, timorosa di invasioni aliene, o membri togati del consorzio degli intellettuali, azzeccagarbugli o dottor sottile, che si esibiscono per lo più dalle tribune televisive, più raramente in punta di penna, capaci dei più ingarbugliati distinguo in nome del diritto. Se si è parlato di intellettuali e pandemia, lo si è dovuto alle esternazioni estive di Giorgio Agamben e di Massimo Cacciari, l’ex sindaco di Venezia naturalmente in prima fila per via della sua inesauribile esposizione televisiva, esternazioni raccolte in una paginetta pubblicata nel sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici e moltiplicate davanti a decine di telecamere. Vi si può leggere che “la discriminazione di una categoria di persone... è di per sé un fatto gravissimo”, che in Unione Sovietica i cittadini per qualsiasi spostamento erano costretti ad esibire alle autorità il “passaporto interno” e che quindi noi “siamo come la Russia”, che ci troviamo in una fase di sperimentazione di massa, che il dibattito scientifico è del tutto aperto, che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, che tutti saremmo minacciati da “pratiche discriminatorie”, “quelli abilitati dal green pass più ancora dei non vaccinati... dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi”. Concludendo: “Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire”. Ovvio: non siamo a Mosca, il dibattito scientifico dovrebbe essere per natura sempre aperto, i danni a lungo termine non li conosciamo neppure per l’aspirina... Singolare che nello scritto (breve) di Cacciari e Agamben non compaiano mai le parole emergenza sanitaria, non si scriva di morte e di morti, non si faccia alcun cenno alla virulenza della malattia prima del vaccino, alle costrizioni cui sono tuttora costretti i vaccinati con tanto di green pass in tasca per colpa di chi ostenta a colpi di tosse e di sternuti la propria ribellione, si ignori, per discutere veramente di discriminazione, la storica, insuperata “discriminazione di classe” (almeno per gli effetti che induce rispetto alla malattia, qualsiasi malattia ovviamente) e non compaiano neppure riferimenti alla Costituzione, all’articolo 32, a concetti come collettività e comunità, come doveri e responsabilità. In forme dotte, sembra di avvertire quella idea, degna della miglior fantascienza, del microchip che ti sparano in vena per controllare ogni tuo movimento. Come se controllati già non lo fossimo tramite i più banali aggeggi elettronici: basta un cellulare perché il mondo intero, volendo, possa sapere dove trascorri la giornata, che cosa ti piace leggere, che tipo di pentole preferisci usare per cucinare. Il nome di Cacciari (ben più di quello del pur notevolissimo studioso Agamben) basta e avanza perché qualsiasi polemica a mezzo stampa o a mezzo tv deflagri. Nel caso in questione era stato come accendere un cerino in un bidone di benzina. Giornali e tv a caccia di filosofi o di intellettuali in genere, quelli che si accodano, quelli che ribattono. Paolo Flores d’Arcais elencava altre “pratiche” discriminatorie: l’obbligo della patente di guida per guidare, la necessità di un porto d’armi per girare con la colt, il divieto di fumo che escluderebbe i fumatori dai cinema, dai mezzi pubblici e persino dai ristoranti, eccetera eccetera. Il professor Barbero emergeva dalle sue ricerche storiche proponendo al vasto pubblico i suoi dubbi sulla liceità del passaporto verde. Per fortuna, con il tramontare del sole estivo, di fronte al rinnovato spauracchio del covid e alla inevitabile constatazione che solo il vaccino può risparmiare a tutti maggiori sofferenze, il silenzio è calato. Sembra, che al rinnovarsi del pericolo, una convinzione rassegnata pervada una parte dei no vax, per quanto resista una schiera di fondamentalisti del “tanto si vaccinano gli altri” e del “non ci dicono la verità, è tutto un inganno per assoggettarci al potere” (come se Amazon o qualche cosa d’altro di simile ne avessero bisogno per costringerci ad acquistare la loro merce). Ma un quesito si ripropone, un quesito non originale, che si tramanda di generazione in generazione, che banalmente si potrebbe ricondurre alla domanda: che fanno questi intellettuali? Propaganda alle loro tesi precostituite, ai loro pregiudizi; educazione alla ricerca di argomenti certi, all’analisi, alla critica, alla lettura degli eventi, alla conoscenza della nostra società, dei diritti e dei doveri che la contraddistinguono; riflessione sul concetto di libertà (come scriveva Fortini: la mia libertà comincia dove comincia la tua); discussione del rapporto con la scienza (gli intellettuali del momento, intellettuali “tecnici”, si chiamano epidemiologi, biologi, virologi)? Infine, esercizio di verifica del principio di responsabilità: dove conduce il mio raffinato pensiero, quali conseguenze produrrà in un momento di grande difficoltà per il mondo intero? A dirla brutalmente, nell’era della comunicazione attraverso i media (sia la televisione, siano i cosiddetti social) sembra che un bisogno più degli altri accenda gli animi e gli intelletti: la certificazione della propria esistenza, non proprio l’idea di una “funzione sociale”. Il sistema se ne può compiacere, ma a lungo andare la credibilità viene meno. Il “fare” dell’intellettuale si traduce nell’ “apparire”, secondo le regole imposte da un “mezzo dominante”. Ma a questo punto, a che serve l’intellettuale? A intrattenere, a consolare, a compiacere, a suscitare clamore (ad uso dei suddetti media), a illustrare una dottrina, indifferenti alle conseguenze? Quasi dimenticando, per onor di filosofia, che cosa sia stato e sia il covid, quanto abbia colpito la nostra vita, anche quella spirituale, che immaginiamo più vicina alla sensibilità dei filosofi.

domenica 14 novembre 2021

Wilbur Smith, il richiamo di mondi lontani

Antonio Carioti, Corriere della Sera Wilbur Smith, uno degli autori più prolifici e famosi al mondo, è morto a 88 anni nella sua casa di Cape Town, in Sudafrica. Ha scritto 49 romanzi e venduto oltre 140 milioni di copie. Il primo libro è del 1964, l’ultimo solo poche settimane fa. Sembrava nato apposta per narrare l’avventura, con un talento naturale impressionante. Lo scrittore Wilbur Smith, scomparso ieri all’improvviso all’età di 88 anni, aveva una sorta di tocco magico nel catturare l’affetto dei lettori, in particolare di quelli italiani, che lo seguivano con convinta e durevole assiduità. Si calcola che nel mondo i suoi oltre quaranta romanzi avessero venduto qualcosa come 123 milioni di copie, dei quali circa 24 soltanto nel nostro Paese. Produrre bestseller era il suo mestiere, sin dall’esordio nel 1964 con Il destino del leone (Longanesi, 1981; HarperCollins Italia, 2020). Il segreto di Smith? Una miscela d’ingredienti ben calibrati. Vicende appassionanti e drammatiche, personalità spiccate, sentimenti intensi, ambientazioni esotiche, a partire dall’Africa australe, dove l’autore era nato, per arrivare all’Egitto antico dei faraoni. La sua prosa afferrava il lettore e lo trascinava quasi di forza in un mondo pieno di suggestioni emozionanti, dal quale era impossibile staccarsi e che invogliava a conoscere altri passaggi delle sue lunghe saghe narrative in diverse tappe. Erano mirabolanti itinerari nel mondo della fantasia, ai quali il pubblico si affezionava facilmente. Aveva costituito anche una fondazione, intitolata a sé stesso e alla quarta moglie Niso, per promuovere la narrativa d’avventura con annesso un premio letterario. Smith sosteneva di essere stato accompagnato nella vita da una «fortuna sfacciata», ma aveva conosciuto anche momenti difficili prima di affermarsi come romanziere di successo negli anni Sessanta. Era nato il 9 gennaio 1933 a Broken Hill, oggi Kawbe, in quella che allora era la Rhodesia del Nord, protettorato britannico, e in seguito è diventata lo Stato indipendente dello Zambia. A diciotto mesi era stato colpito dalla malaria cerebrale, ma l’aveva superata felicemente. Gli piaceva ripetere che però era rimasto «un po’ matto» e questo lo aveva aiutato nella carriera di romanziere. Il padre di Smith, tipico colonizzatore dell’epoca vittoriana, era un uomo severo, pronto a infliggere punizioni corporali al figlio per le sue marachelle. Allevava bestiame nella sua tenuta di 12 mila ettari, dove il piccolo Wilbur, che adorava il papà come un semidio, aveva trascorso anni di giochi nella boscaglia e piccole battute di caccia con la fionda insieme ai figli dei dipendenti neri dell’azienda. A otto anni aveva ricevuto in dono il primo fucile e aveva presto imparato a sparare con grande precisione. Dalla madre Elfreda Lawrence aveva invece mutuato l’amore intenso per la narrativa di ogni genere. «Ogni sera — ricordava — mi leggeva storie della buonanotte». Smith aveva preso dimestichezza con i libri per ragazzi, poi con autori come Henry Rider Haggard, John Steinbeck, Rudyard Kipling. Era nata in lui l’aspirazione a scrivere, magari nella veste di giornalista, alimentata più tardi negli anni al collegio Cordwalles, in Sudafrica, grazie al sostegno di un insegnante d’inglese che gli si era molto affezionato. Il padre di Smith riteneva però che ci si dovesse guadagnare la vita in ben altro modo e il giovane Wilbur, dopo la laurea in Scienze commerciali alla Rhodes University, aveva intrapreso il mestiere di contabile per il fisco britannico. Poi si era sposato, ma il suo primo matrimonio, da cui erano nati due figli, era rapidamente naufragato, lasciandolo in difficoltà economiche. Non aveva però abbandonato il sogno di diventare un narratore e aveva pubblicato i primi racconti, con un soddisfacente riscontro. Invece il romanzo The Gods First Made Mad («Gli dei prima ti fanno impazzire») era stato rifiutato da parecchi editori e non è mai uscito. Lo stesso Smith, rievocando quel suo maldestro tentativo, ne parlava in tono fortemente autocritico, ammettendo di aver commesso «tutti i grossi errori nei quali un giovane scrittore può incappare». Tutt’altra musica per Il destino del leone, un successo immediato che nel 1964 aveva proiettato l’autore verso la notorietà, consentendogli di diventare un romanziere a tempo pieno, anche se nel Sudafrica bigotto di allora il romanzo era stato vietato. Le vicende drammatiche e strazianti dei fratelli Sean e Garrick Courtney, ambientate nel Natal ottocentesco, avevano affascinato una vasta platea di lettori e dato il via a una saga destinata a durare — coinvolgendo antenati e discendenti dei protagonisti — e a suddividersi in tre cicli che coprono un arco di tempo dal XVII secolo (Uccelli da preda, Longanesi, 1997) ai nostri giorni (Tempesta, HarperCollins Italia, 2021). Ai Courtney si sarebbero poi aggiunti, a cominciare dal romanzo Quando vola il falco (Longanesi, 1986), i Ballantyne: un’altra stirpe di avventurieri immersa nello scenario di un’Africa selvaggia e contesa lungo un periodo di circa un secolo. E infine le due famiglie si sarebbero incontrate in una ulteriore trascinante saga cominciata con Il trionfo del sole (Longanesi, 2006). Nel frattempo l’infaticabile Smith aveva prodotto dagli anni Novanta in poi la serie dei suoi romanzi egizi, che si dipanano nell’antica terra delle piramidi: un ciclo di alcuni libri nel quale spicca la figura dell’eunuco Taita, scriba, mago e generale. Altro personaggio al centro di una saga concepita da Smith è Hector Cross, ex ufficiale dei corpi speciali britannici, che ai giorni nostri diventa titolare di un’agenzia di sicurezza e affronta nemici spietati con la determinazione e la prestanza atletica di uno 007 aggiornato. La vita privata di Smith aveva attraversato diverse fasi. Dopo un secondo matrimonio andato a monte, aveva sposato nel 1971 Danielle Thomas, morta nel 1999 per un tumore al cervello, e quindi nel 2000 erano giunte le quarte nozze con la giovane tagika Mokhiniso Rakhimova, detta Niso. Aveva avuto dai primi due matrimoni una figlia e due figli, con cui i rapporti non erano stati facili. Ben saldo, come si è detto, era il legame di Smith con l’Italia, dove viaggiava spesso e le sue opere andavano a ruba. Con sincera gratitudine mista forse a un pizzico di adulazione, usava lodare l’eredità culturale dell’antica Roma e anche la missione civilizzatrice svolta dalle legioni nelle isole britanniche. Ma il suo primo amore restava ovviamente l’Africa. Grande ammiratore del presidente sudafricano Nelson Mandela, che definiva «eroe globale», auspicava che il continente riuscisse a difendere meglio il suo patrimonio naturale e a utilizzare in modo equo le tante risorse disponibili. Innamorato perdutamente del suo lavoro, Smith sosteneva di avere un gran numero di libri in testa «che chiedono a gran voce di essere scritti». In età avanzata continuava a lavorare con immutato entusiasmo, avvalendosi dell’assistenza di coautori ai quali riconosceva il loro ruolo: Giles Christian, Tom Harper, David Churchill, Tom Cain, Mark Chadbourn e altri. Con Chris Wakling aveva inaugurato una serie di libri per ragazzi. Nel 2018 aveva pubblicato il libro di ricordi Leopard Rock, soffermandosi in particolare sulle vicende più curiose e rocambolesche del periodo in cui trovava eccitante il pericolo. Ma la vocazione più imperiosa di Smith era sempre stata mettersi alla scrivania davanti a fogli da riempire. Sentirsi «creatore di mondi» lo rendeva felice.

giovedì 11 novembre 2021

Françoise Hardy, una canzone in forma di scioglilingua

Sous aucun prétexte Je ne veux Avoir de réflexes Malheureux Il faut que tu m'expliques Un peu mieux Comment te dire adieu Mon cœur de silex Vite prend feu Ton cœur de pyrex Résiste au feu Je suis bien perplexe Je ne veux Me résoudre aux adieux Je sais bien qu'un ex-amour n'a pas de chance, ou si peu Mais pour moi un explication vaudrait mieux Sous aucun prétexte Je ne veux Devant toi surexposer mes yeux Derrière un kleenex Je saurais mieux Comment te dire adieu Comment te dire adieu Tu es mis à l'index, nos nuits blanches, nos matins gris-bleu Mais pour moi une explication vaudrait mieux Sous aucun prétexte Je ne veux Devant toi surexposer mes yeux Derrière un kleenex Je saurais mieux Comment te dire adieu Comment te dire adieu Comment te dire adieu Source : Musixmatch Paroliers : Jack Gold / Arnold Goland https://www.youtube.com/watch?v=mwhX5V1Gn6w

lunedì 8 novembre 2021

Il dilemma di Ingrao

In vista dell'incontro Pietro Ingrao, tra eredità comunista e dissenso, previsto per mercoledì 10 novembre alle 18, al Polo del Novecento, pubblichiamo questo sempre attuale articolo. Michele Salvati, Il "dilemma di Ingrao", Sisifo, a. 1, n. 1, gennaio 1984 Vorrei fare solo un esercizio, parassitario rispetto alle categorie introdotte nel pezzo d’apertura di questo dibattito , e deludente nei suoi risultati. Esso consiste nell'incrociare le categorie di concentrazione e diffusione del potere politico adottate in quel pezzo con un 'altra gamma categoriale, ad un estremo della quale sta un intervento esteso dello stato nell'economia e nella società civile, quale avviene nelle forme più sviluppate di Stato di Benessere e di Economia Mista, mentre all 'altro estremo ci sta un intervento ridotto, qual era tipicamente quello dello Stato liberale nella seconda metà dell'ottocento . Ne risulta la semplicistica matrice di sotto disegnata intervento ridotto intervento esteso dello Stato nella società ed economia concentrazione liberalismo tradizionale “statismo” (es. Francia) “neocorporatismo” (es. Austria) diffusione del potere politico liberalismo anglosassone Italia oggi? La natura è semplicistica perché ben altre dimensioni dovrebbero essere aggiunte per affrontare i problemi suggeriti nel pezzo di apertura; rispetto a questo ha però il vantaggio di introdurre in modo pesante una dimensione che non può mai essere tenuta sullo sfondo: cioè l'ampiezza dell'intervento dello Stato nella società. Non lo può perché gran parte delle disfunzioni che oggi si lamentano nel processo democratico — quelle dovute alla complessità, soprattutto — sono intimamente legate a questa dimensione, anche se non solo ad essa. Non lo può perché ci sono grandi variazioni — certamente su un asse diacronico, ma anche su un asse sincronico — nella ampiezza dell'intervento dello Stato. Non lo può perché il suggerimento oggi dominante al fine di ridurre la complessità è quello di ridurre l'estensione dell'intervento (l'altro, ovviamente, è quello di ridurre il grado di diffusione del potere politico: com'è ben noto, i due rappresentano modalità complementari più che alternative). E non lo può perché le debolezze di proposta della sinistra oggi derivano in larga misura dal volere tenere insieme due obiettivi che a prima vista sembrano contradditori: un elevato grado di diffusione del potere politico e un elevato grado di intervento dello Stato nel mercato e nella società. Le riflessioni di Pietro Ingrao — la sua aspirazione non solo a «tenere insieme» quei due obiettivi, ma addirittura a vedere nel primo (una più diffusa e intensa partecipazione democratica) un necessario metodo di controllo efficiente del secondo (una forte responsabilità pubblico- politica nei confronti degli esiti del processo economico) — sono un esempio da manuale della debolezza di proposta di cui dicevamo. Le caselle della matrice meriterebbero innumerevoli qualificazioni, frutto di altri assi categoriali che abbiamo omesso. Per evitare l'equivoco maggiore, sottolineiamo subito che l'ambito principale su cui è giocata l'opposizione «concentrazione-diffusione» è quello centro-periferia: l'esempio degli USA è il caso canonico di una società civile forte, che ha nei processi di democrazia locale il nucleo fondamentale della legittimità del potere politico. C'è ovviamente un altro ambito su cui può giocarsi quella opposizione, quello corporativo-autogestionario: di diffusione del potere politico, o invece di avocazione da parte del centro, all'interno di diversi gruppi legati funzionalmente, invece che legati territorialmente. Ad esempio, tra diverse categorie di produttori (democrazia industriale); o tra produttori e fruitori di un servizio (la democrazia nella scuola, ad esempio; o la «democrazia sanitaria): una soluzione neo- corporativa fortemente centralizzata come quella austriaca — al di là delle differenze rilevanti secondo altri profili — è un caso di «concentrazione» di potere politico altrettanto forte dello «statismo» francese. Alla sinistra democratica non piace la concentrazione e piace invece la diffusione del potere politico (partecipazione), sia a livello locale sia a livello funzionale. E non piace una limitazione «da Stato minimo» nell'ampiezza dell'intervento: sia nell'ambito della produzione dei servizi e del controllo e direzione dell'attività produttiva privata, sia nell'ambito dei consumi e della redistribuzione del reddito, essa vede con favore che l'autorità politica si occupi di rettificare gli esiti prodotti dall'operare spontaneo della Società e del mercato. Questa coppia di orientamenti («il dilemma di Ingrao») è realmente contradditoria? Per salvare l'ampiezza dell'intervento dello Stato nella società (lo stato di benessere e la programmazione economica) va necessariamente ridotto il grado di partecipazione democratica, o attraverso una pista «statista», o attraverso una pista «neo-corporativa»? Insomma: una partecipazione più diffusa è una «palla al piede» o è una «marcia in più» per uno Stato di benessere e ad economia mista? Per rispondere a questa domanda occorre anzitutto aver superato o contenuto le obiezioni liberali contro lo Stato di benessere come economia mista, obiezioni che si collocano prima che si possa porre un problema di organizzazione (accentrata o diffusa) del potere politico. Gli odiatori dello Stato e della politicizzazione della società e dell'economia sono una tribù variegata i cui membri vanno dalla conservazione più autoritaria all'anarchia più sfrenata: sono però tutti convinti che più spazio si lascia al mercato e alla spontaneità sociale, e più se ne toglie allo Stato e alla politica, tanto più alto è il benessere collettivo. Personalmente non condivido queste convinzioni, e penso che la «società» e il «mercato» ipostatizzati dai liberali non abbiano le meravigliose proprietà che essi gli attribuiscono. Le loro convinzioni vanno però discorse seriamente, ciò che qui non posso fare, limitandomi ad avvertire che anche chi nega a livello di alta teoria l'ottimalità della loro soluzione può essere costretto ad accettarla in casi specifici come un second best; lasciare al mercato e alla spontaneità sociale un determinato ambito di vita associata (l'istruzione, ad esempio, o la sanità, o la fornitura di qualsiasi servizio) è sempre una alternativa possibile anche per chi ritiene che quell'ambito possa essere organizzato meglio in modo politico, ma di fatto viene organizzato peggio. Il liberalismo di ritorno di molti intellettuali e tecnici per cui una organizzazione politica democratica funziona tanto meglio quanto maggiore è il consenso sugli orientamenti di fondo dello Stato, in particolare su ciò che va ritenuto come oggetto di orientamento pubblico (e secondo quali fini), e su ciò che va lasciato alla autonomia dei privati. A questa osservazione si aggiunge una specificazione ulteriore: una volta definiti i confini, e isolati gli ambiti di orientamento pubblico, i criteri di fondo mediante i quali ognuno di questi ambiti è organizzato, e la proporzione di risorse ad essi destinata, non devono essere soggetti a continui mutamenti a seguito di pressioni politiche contingenti. Il «pubblico» va difeso dal «politico-contingente». E’ naturalmente la politica che definisce il pubblico e i suoi criteri di organizzazione: ma non deve ridefinirli in continuazione, con sterzate frequenti e distruttive delle routines organizzative. (b) Questo ci porta alla seconda condizione, poiché una delle ragioni, certo non l'unica, della inefficienza delle nostre strutture amministrative pubbliche consiste proprio nell'instabilità e continua mutazione del quadro normativo in cui si trovano ad operare: affinché i pubblici amministratori possano essere devoti alla logica del servizio, una logica del servizio deve anzitutto esserci. Naturalmente questa è una sola delle condizioni — per quanto importante. Ce ne sono altre, purtroppo anch'esse assenti nel nostro Paese, e presenti invece in altre tradizioni culturali- politiche. Nell'argomento non posso entrare ora: ma non credo di esagerare se affermo che un progetto di lunga durata di riforma della Pubblica Amministrazione è il vero «Hic Rhodus» della sinistra. È la sinistra che ha interesse a rafforzare la mano pubblica: l'inefficienza dello Stato è una vera bazza per i liberali, e finora ne hanno profittato politicamente molto poco.

domenica 7 novembre 2021

Emilio Guarnaschelli da Torino alla Russia di Stalin

Vittima italiana dello stalinismo Nato a Torino, segue fin da giovanissimo l'esempio del fratello Mario, militante comunista attivo nella clandestinità. Costretto a espatriare a Bruxelles nel 1931 per sfuggire all'arresto, lavora per il Soccorso Rosso e chiede un visto turistico per l'URSS nel 1933, attirato dall'idea di dare il proprio contributo alla costruzione del socialismo. Arrivato a Mosca, incontra la diffidenza dei compagni, informati che il fratello Mario, rimasto in Occidente, non è ben visto nel partito. Trova lavoro in fabbrica, si impegna nella propaganda a favore del regime, ma viene emarginato e non è riconosciuto come rifugiato politico perché dice troppo schiettamente quello che pensa. Rimasto senza mezzi propri di sussistenza, è aiutato da Nella Masutti, una ragazza italiana sedicenne trasferitasi con la famiglia in URSS per seguire l'ideale comunista. I due giovani si innamorano e quando Emilio viene arrestato per "attività trockiste" e inviato al confino a Pinega, vicino al circolo polare, nel 1935, Nella scappa dalla famiglia e riesce a raggiungerlo. Si sposano e rimangono insieme, condividendo fame, freddo e stenti, fino alla nuova condanna di Emilio, nel 1936. Nella riesce a lasciare l'Unione Sovietica insieme al resto della sua famiglia e si stabilisce in Francia. Emilio è trasferito alla Kolyma, nell'estremo nord siberiano, dove verrà fucilato nel 1938. La moglie cerca in tutti i modi, ma senza successo, di avere sue notizie e nel 1976 scrive una dura lettera di accuse al PCI, che viene cestinata senza risposta. Raccoglie le lettere indirizzate da Emilio al fratello Mario durante il soggiorno in Unione Sovietica e riesce a pubblicarle il Francia nel 1979, mentre in Italia il libro Una piccola pietra uscirà solo nel 1982. Nella interviene nel 1991 a Roma al primo convegno sulle vittime italiane dello stalinismo denunciando i silenzi dell'apparato del partito comunista e chiedendo, insieme alla vedova Baccalà, Pia Piccioni, che "sia eretta una lapide che li ricordi. Le vittime del terrore aspettano e voi avete il dovere di non disperdere il loro ricordo che servirà di esempio alle generazioni future". (Gariwo) La scheda anagrafica di Emilio Guarnaschelli Cognome: Guarnaschelli Nome: Emilio Figlio di: Ernesto Luogo e data di nascita: Nato a Torino il 30 luglio 1911 Origine sociale e percorso politico prima dell'arrivo in URSS: Di famiglia operaia e antifascista, nel 1932 emigra (Francia,Belgio). Trova lavoro a Bruxelles e ha contatti con il partito comunista. Si reca a Mosca per il 1° maggio 1933 con un visto turistico, senza l'appoggio del PCI Data dell'arrivo in URSS: 1933 Percorso politico e professionale in URSS: A Mosca trova lavori saltuari, sopravvive aiutato dagli amici. Prende la cittadinanza sovietica. Nell'ottobre 1934 chiede aiuto all'ambasciata italiana per ottenere i documenti per il rimpatrio. Mentre si trova al confino a Pinega, viene raggiunto da Nella Masutti, figlia del comunista Costante Masutti, con cui si sposa Data, luogo e motivi dell'arresto: Arrestato il 1 gennaio 1935 a Mosca per partecipazione a un'organizzazione controrivoluzionaria trockista. Processato insieme a Bellusich, Bernetich, Gaggi, e altri. Condanna: Condannato a 3 anni di confino il 4 marzo 1935 dal PP del Collegio Militare della Corte Suprema dell'URSS, in base all'art. 58-10. Inviato ad Archangel'sk e poi a Pinega. Nuovamente condannato a 5 anni di lager il 27 marzo 1936 per attività controrivoluzionaria trockista e inviato a Severo-Vostochnyj lager (Mjakit-Uat, Baia di Nagaevo). Infine il 7 aprile 1938 condannato alla pena di morte per sabotaggio dall'UNKVD del Dal'stroj Data, luogo e causa della morte: Fucilato il 28 aprile 1938 Riabilitazione: Riabilitato il 28 maggio 1957 Archivi: GARF f. 10035 op. 1 d. P-31289; RGASPI f. 513 op. 2. d.69; Archiv Glavnoj Voennoj Prokuratury ; CA FSB sled. delo n. 216243; ACS, CPC, busta 2560; FIG APC 1921-1943 fasc.1517; CSPG Fondo Masutti Martirologi: Magadan http://www.memorialitalia.it/ita/wp-content/plugins/memorial-italia-vittime-italiane-gulag/scheda_anagrafica.php?id=129 articolo 58-10 del Codice penale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa Propaganda controrivoluzionaria o agitazione (ovvero propaganda o agitazione con incitamento a sovvertire, minare, indebolire lo Stato o a compiere le attività controrivoluzionarie indicate negli altri articoli o distribuzione o preparazione di scritti che contengono tali incitamenti): almeno 6 mesi di prigione.

giovedì 4 novembre 2021

Gramsci e la teoria della conoscenza

Giuseppe Cospito, Introduzione a Gramsci, Genova, Il melangolo 1965, p.72 Il rifiuto del realismo ingenuo, che era ancora presupposto in Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin (peraltro mai citato esplicitamente da Gramsci), permette inoltre all’autore dei Quaderni di confrontarsi, sia pure senza l’ausilio di un appropriato linguaggio tecnico, con le punte più avanzate del dibattito epistemologico e scientifico del tempo, dall’atomismo logico di Bertrand Russell alla teoria della relatività di Einstein,accomunate dall’accantonamento di una visione dell’universo come meccanismo che aveva dominato dalla rivoluzione scientifica del Seicento alla “crisi dei paradigmi” di fine Ottocento,oltre che da una rivalutazione dell’impostazione del problema della conoscenza nel criticismo di Kant, cui non è estraneo lo stesso Gramsci, che in carcere si ripropone di “studiar[lo]” e di “rivedere i suoi concetti esattamente” (Q 10, II, § 40).

mercoledì 3 novembre 2021

Almodóvar complesso e totale

SIMONE LORENZATI Madres Paralelas di Pedro Almodovar (Spagna, 2021) Madres Paralelas di Pedro Almodovar (Spagna, 2021) Janis (Penélope Cruz) ha quarant’anni e fa la fotografa. E’ una donna matura, emancipata, apparentemente molto sicura di sé, mentre Ana (Milena Smit) è una ragazzina impacciata e triste, stritolata tra due genitori distratti quanto egocentrici, specie la madre, la cui presenza è palpabile pure quando è assente. Due donne, quindi, profondamente differenti, che si ritrovano nel corridoio di un ospedale madrileno a condividere l’esperienza più importante delle loro vite, ossia poco prima di dare alla luce le rispettive figlie. Cosa le accomuna davvero, in effetti, è il non aver assolutamente programmato la maternità. Ma se Janis non ha rimpianti, Ana vive quelle ultime ore di gravidanza con una crescente angoscia. Pedro Almodóvar, dopo il Leone d’oro alla carriera di un paio di anni fa, e dopo la presentazione del corto The Human Voice, quest’anno ha avuto il compito di aprire Venezia 78 con Madres Paralelas. E se con Dolor y Gloria il regista spagnolo aveva ricordato la sua infanzia, rendendo plasticamente omaggio a sua madre, con Madres Paralelas ecco che l’attenzione di Almodóvar si sposta verso una maternità tanto contemporanea quanto imperfetta. E’ un film che parla di memoria e di sentimenti, che coniuga istinto e legami di sangue fino ad allargare il suo campo d’indagine alla genetica di un Paese – ovviamente la Spagna - che ancora oggi non riesce, per davvero, a mettere la parola fine ad una vergognosa pagina di storia. Ed è la pagina dei desaparecidos, desaparecidos che, appunto, ancora oggi aspettano che venga data loro la dignità di un nome e di una tomba. La maternità di due donne diviene la metafora di un Paese che pare aver dimenticato i propri figli. Madres Paralelas, per la prova intensa dei suoi interpreti – su tutti una fantastica Penelope Cruz che porta sulle sue spalle gran parte della pellicola – e per le tematiche trattate, parla di una identità che viaggia su due binari paralleli, esattamente come lo sono quelli delle vite delle due protagoniste che finiscono per intrecciarsi divenendo un tutt’uno. Insomma con Madres paralelas il dramma borghese penetra nella tragedia di stampo classico adoperando come denominatore una meccanica del sospetto simil Dostoevskij, un dramma che, come detto, parte da una suggestione pubblica, anzi meglio dire politica, per poi ritornare sul senso della famiglia, biologica e non. Il racconto è tipicamente matriarcale nel senso più stretto del termine, lasciando alla sfera maschile una incapacità, parrebbe atavica, di entrare nelle viscere profonde della maternità. E il destino pare essere il punto di incontro tra le due protagoniste del film. Un destino che piano piano si trasforma in dilemma tessendo tra loro amore, tragedia e non detti rispetto ai quali, per una precisa scelta del regista, lo spettatore percepisce tensione ma anche speranza. Eppure, per l’intero arco del film, non viene mai meno l’affetto che il regista ripone verso i suoi personaggi ma, più in generale, verso l’umanità, scegliendo - come d’abitudine - di accogliere tutte le sfumature dell’esistenza, senza mai inseguire la morale e senza nemmeno mai lasciarsi andare a giudizi secchi. Almodóvar, in fondo, ancora una volta, si dimostra in grado di orientarsi in mezzo al caos, di controllare le esplosioni grazie al suo gusto per le composizioni, per le architetture, per i colori e per il montaggio ma, soprattutto, grazie alla capacità di non perdere mai di vista il quadro generale dell’insieme. Ed è un quadro in cui il film prova a conciliare la dimensione pubblica con quella privata riuscendo, tuttavia, a mischiare sia il punto di vista dei personaggi sia quello degli spettatori. Madres paralelas è probabilmente uno dei migliori film di Almodóvar, certamente è il migliore degli ultimi anni. Troviamo la maturità della regia insieme ad un ritorno dell’autore agli spazi del dramma borghese e della tragedia, caratterizzata da personaggi insieme semplici eppure complessi, in un mix ottimamente riuscito di tensioni pubbliche e di necessità private. Attraverso le ottime interpretazioni di Milena Smit, di Aitana Sánchez-Gijón e di Penélope Cruz (giustamente premiata a Venezia con la Coppa Volpi di migliore attrice), e servendosi di un meccanismo narrativo che mescola passato e presente, pubblico e privato, il film costruisce una storia veramente notevole, in grado di mutare tanto i personaggi quanto gli spettatori che vi assistono. Senza, tuttavia, mai dimenticare, nemmeno per un attimo, l’indulgenza. Il che non è affatto poco.