martedì 31 marzo 2015

Resistenza a spasso tra i libri

Enrico Manera

Istruzioni per l’uso. Quella che segue è una breve lista di libri recenti e/o importanti sulla Resistenza e sul 1943-‘45. Non è né completa né esaustiva, è una scelta di testi di orientamento, inquadramento, riflessione, divulgazione, narrazione, approfondimento locale.
Per un discorso più completo rinvio alla bibliografia ragionata di Metella Montanari, La Resistenza, Unicopli 2008 o al catalogo Istoreto.
Un ringraziamento a tutt* in Istoreto, per la consulenza e i suggerimenti.

Orientamento
Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, 2004
Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 2006
Enzo Collotti, Renato Sandri, Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza.
Vol. 1: Storia e geografia della Liberazione, Einaudi, 2000.
Vol. 2: Luoghi, formazioni, protagonisti, Einaudi 2006.
Eric Gobetti (a cura di) 1943-1945. La lunga liberazione, Milano, Franco Angeli, 2007

Novità/ristampe

Giovanni De Luna, La resistenza perfetta, Feltrinelli 2015
Alberto Cavaglion, La Resistenza spiegata a mia figlia, Feltrinelli 2015
Norberto Bobbio e Claudio Pavone, Sulla guerra civile. La Resistenza a due voci, Bollati Boringhieri, 2015
Antonio Giolitti, Di guerra e di pace. Diario partigiano (1944-1945), Donzelli, 2015
Santo Peli, Storie di Gap, Laterza, Roma-Bari, 2014
Ilenia Carrone, Le donne nella Resistenza. La trasmissione della memoria, Infinito edizioni, 2014
Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi 2014
Ada Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, 2014
Giulio Questi, Uomini e comandanti, Einaudi, 2013
Sergio Luzzatto, Partigia. Una storia della Resistenza, Mondadori, 2013
Michela Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico”, Einaudi, 2012.
Marisa Ombra, Libere sempre, Einaudi, 2012
Aldo Agosti e Chiara Colombini (a cura di), Resistenza e autobiografia della nazione. Uso pubblico, rappresentazione, memoria, Edizioni, SEB 27, 2012
Filippo Colombara, Vesti la giubba di battaglia. Miti, riti e simboli della guerra partigiana, Derive Approdi 2012
Daniele Biacchessi, Orazione civile per la Resistenza, Corvino Meda-Promo Music, 2012
Piemonte/Torino
Nicola Adduci, Gli altri. Fascismo repubblicano e comunità nel Torinese (1943-1945), Franco Angeli, 2014.
Giulio Bolaffi, Partigiani in Val di Susa. I nove diari di Aldo Laghi,, Franco Angeli, 2014.
Simone Teich Alasia, Un medico della Resistenza, SEB 27, 2010
Marisa Ombra, La bella politica. La Resistenza, "Noi donne", il femminismo, SEB27, 2009
Marisa Sacco, La pelliccia di agnello bianco, SEB27, 2008
Edi Consolo, Le Alpi, La Resistenza, i paesaggi, SEB27, 2007
Carlo Chevallard, Diario 1942-1945. Cronache del tempo di guerra, Blu Edizioni, 2005
Nuto Revelli, Le due guerre, Einaudi 2005
Pietro Chiodi, Banditi, Einaudi, 2002

Narrativa

AA.VV., Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Einaudi, 2005
AA.VV., Storie della Resistenza, a cura di D. Gallo e I. Poma, Sellerio, 2013
SIC, In territorio nemico, minimum fax 2013
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Bur 2013
Giacomo Verri, Il partigiano inverno, Nutrimenti 2012
Paola Soriga, Dove finisce Roma, Einaudi 2012
Angelo Del Boca, Viaggio nella luna, La Mandragora 2011
Laurent Binet, HHhH, Einaudi, 2011
Beppe Fenoglio, I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi 2006
Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi 2005
Romain Gary, Educazione europea, Neri Pozza, 2006
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 1993

Libri per ragazzi

Luca Randazzo, L’estate di Giacomo. La guerra e un partigiano di undici anni, Rizzoli, 2014.
Daniela Morelli, La porta della libertà, Mondadori, 2012
Roberto Denti, Ancora un giorno, Piemme, 2011
Lia Levi, La villa del lago, Piemme Junior, 2011
Anna Sarfatti e Michele Sarfatti, Fulmine, un cane coraggioso: la resistenza raccontata ai bambini, Mondadori, 2011
Roberto Denti, La mia resistenza, Rizzoli, 2010
Lia Levi, La ragazza della foto, Casale Monferrato, Piemme Junior, 2005

domenica 29 marzo 2015

Federico Chabod, dall'antifascismo al fascismo e ritorno

Sergio Luzzatto
Braudel alla lettera D
Il Sole 24ore, 29 marzo 2015



«Federico Chabod eccelleva nelle conversazioni informali, sane, gioiose. Come si parla nei rifugi di montagna, per il puro piacere di ridere e di sentir ridere. Ma con l’impressione, anche, di dominare dall’alto i paesaggi ordinari del mondo e della vita. E Federico Chabod, figlio della valle d’Aosta, era e rimaneva un vero montanaro». Nell’autunno 1960, scrivendo in memoriam dell’amico e del coetaneo sulle pagine della «Rivista storica italiana», Fernand Braudel – il formidabile studioso del Mediterraneo cinquecentesco, e l’illustre docente al Collège de France di Parigi – dava voce al lutto della comunità scientifica internazionale per la prematura scomparsa, a cinquantanove anni, del maggiore storico d’Italia.
Conversazioni da rifugio a parte, di Chabod era nota e riusciva quasi proverbiale, negli ambienti della storiografia italiana e straniera, la riservatezza: una montanara ritrosia a parlare di sé, dei propri sentimenti, del privato. Riservatezza destinata a contare anche dopo la sua morte, per la difficoltà in cui ci si è trovati nel decifrare la correlazione – se così si può dire – tra Federico e Chabod: tra la vita dell’uomo e la vita dello studioso. Il che rende tanto più benvenuta, oggi, una coincidenza editoriale. La pubblicazione quasi in simultanea di una ponderosa biografia scritta da Antonella Dallou, Federico Chabod. Lo storico, il politico, l’alpinista, e di un’ampia selezione dell’epistolario curata da Margherita Angelini e Davide Grippa, Caro Chabod. La storia, la politica, gli affetti.
Non che il velo di opacità sopra lo Chabod più riposto venga adesso meno del tutto. Per quanto scrupolosa sia stata la ricerca archivistica di Dallou, e per quanto doviziosi siano i carteggi pubblicati da Angelini e Grippa, colui che ci parla in entrambi i volumi continua a essere Chabod piuttosto che Federico, il personaggio pubblico piuttosto che l’individuo privato. Né possono bastare, per squarciare il velo, singole tracce della sua vita affettiva o addirittura della sua vita intima. La scoperta che la moglie, Jeanne Rohr, chiamava Chabod il «panterino nero» («tutto mio»), e che scrivendo al marito si firmava «il tuo ranocchio». O la presenza, nella corrispondenza di Chabod con la madre Giuseppina, di obliqui riferimenti alla tragedia che aveva funestato la famiglia nel 1923: il suicidio di un fratello minore di Federico, il talentuoso diciannovenne Leonardo, coinvolto in episodi valdostani di squadrismo fascista.
I trascorsi squadristici di «Nardo», e l’irrimediabile sua scelta di pagarne la responsabilità con la vita, contribuiscono forse a spiegare l’ambivalenza del rapporto di «Rico» con la militanza politica? All’inizio come alla fine del Ventennio, Chabod scelse di farsi antifascista militante. Nel 1925, fu lui a scortare Gaetano Salvemini, maestro di storia minacciato dai fascisti fiorentini, oltre il passo del Piccolo San Bernardo, nella libera Francia della Terza Repubblica. Dal 1944 al ’46, fu lui a svestire i panni curiali del professore universitario per indossare dapprima i panni grezzi del capo partigiano, poi quelli scomodi del presidente azionista di una Regione Valle d’Aosta lacerata dal conflitto tra indipendentisti, separatisti, annessionisti. Ma nel mezzo, Chabod scelse di farsi tutt’altro che oppositore del fascismo. Dietro il paravento di un’opportuna separazione tra lotta politica e mestiere di storico, coltivò le opportunità di una carriera ai vertici delle istituzioni culturali di regime.
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sabato 28 marzo 2015

Recalcati sul suicidio del pilota

Massimo Recalcati
Andreas, suicida e boia: la sindrome di Narciso sul volo della morte
la Repubblica, 28 marzo 2015














Andreas Lubitz, il giovane copilota del volo Germanwings che si è schiantato con il suo aereo sulle cime alpine dell’Alta Provenza, ha deciso di sopprimere la propria vita. Non lo ha fatto nel chiuso della propria camera. Ha programmato di farlo sul suo posto di lavoro. Ha voluto farlo nel cielo. Quante volte ci avrà pensato prima? Quante altre volte avrà sfiorato l’abisso della morte? E, soprattutto, per quale ragione darsi la morte, per quale ragione decidere di togliersi la vita? Non possiamo rispondere a queste domande. Non è possibile fare nessuna psicopatologia del copilota del volo di linea della Germanwings 4U9525, Barcellona-Düsseldorf.
Non si può però trascurare l’orrore di questo atto. Perché nella sua scelta di darsi la morte questo giovane non ha tenuto in conto che avrebbe portato con sé altre vite umane. Non ha considerato che il proprio atto suicidario lo eleggeva a boia, a giustiziere di fatto. Altre vite oltre la sua sono morte con lui. Vite che non volevano morire, vite che volevano vivere, che erano, alcune tra loro, appena venute alla luce del mondo.
Non si tratta di demonizzare l’atto suicidario in sé, che resta un atto profondamente umano. Per questo Lacan aveva fatto del gesto suicida di Empedocle che si getta nel cratere infuocato dell’Etna il paradigma della differenza tra vita umana e vita animale. La vita umana, diversamente da quella animale che è assorbita integralmente dall’istinto e dalla sue leggi necessarie, ha sempre il potere di dire di “no!” alla vita, di scegliere di vivere o di morire.
L’atto suicida del copilota Andreas Lubitz appartiene, rispetto a quello di Empedocle, ad un altro universo. Non segnala affatto l’elevazione simbolica della vita umana al di là di quella animale, ma la sua alienazione nelle spirali mortifere del narcisismo. Non è vero che non ha tenuto in conto che stava dando la morte ad altre vite. Egli si uccide decidendo di uccidere altre vite perché ritiene che tutto il mondo si esaurisca nel proprio Ego. Il sentimento dell’alterità gli è totalmente assente. La sua depressione rivela qui il suo fondamento narcisistico. Se io non sono nulla nel mondo anche il mondo deve essere nulla.
Accade anche in quei delitti dove chi si suicida è stato un attimo prima l’assassino brutale delle sue vittime, non a caso, solitamente, suoi familiari o suoi cari: se mi lasci mostrandomi che non ho più alcun valore io distruggo la tua e la mia vita. Per questa ragione il suicidio del copilota va distinto da quello, altrettanto esecrabile, dei kamikaze terroristi. In questi casi l’Ego non trionfa ma sembra sottomettersi — sino all’estrema ratio del sacrificio individuale — al potere ipnotico della Causa. Il terrorista suicida rinuncia alla propria vita per fare la volontà impersonale della Causa. In primo piano c’è un fanatismo collettivo; lo sterminio degli innocenti avviene per realizzare i disegni superiori della volontà di Maometto, del popolo, della Storia o della Razza.
È l’identificazione cieca alla Causa che toglie ogni dubbio all’azione del terrorista rendendolo paradossalmente, anziché carnefice, martire. Nel caso invece di Lubitz non c’è nessuna Causa in gioco, se non quella irrinunciabile del proprio Ego. Per questa ragione è un suicidio tragicamente in linea con la cifra fondamentale del nostro tempo: la sola Causa che conta in Occidente rischia di essere quella dell’affermazione solitaria del proprio Ego. L’Altro non esiste, è un’ombra debole, solo una parvenza. Sapeva il giovane copilota che la sua immagine sarebbe rimbalzata su tutti i media. Sapeva che il suo ego sarebbe stato protagonista. Coloro che ha trascinato con sé nel baratro della morte erano le comparse necessarie a fargli da sfondo. Il suo odio per la vita non poteva fare superstiti. Non c’è niente di più folle del narcisismo dell’ego.

giovedì 26 marzo 2015

Solmi, l'eretico di Einaudi

E’ morto oggi, all’età di 88 anni, Renato Solmi, germanista, già tra gli esponenti di spicco della casa editrice Einaudi dove ha lavorato tra il 1951 e il 1963.
Nato ad Aosta il 27 marzo del 1927, laureatosi a Milano in storia greca con una tesi su Platone in Sicilia, negli anni ’50 ha completato la sua formazione alla scuola di Francoforte, seguendo le lezioni Theodor W. Adorno, che per primo ha introdotto e tradotto in Italia (in particolare, Minima moralia, nel 1952, appena un anno dopo la prima edizione tedesca). A lui si deve anche la traduzione di Angelus novus di Walter Benjamin (1962) e della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno (pubblicata nel 1966 con lo pseudonimo di Lionello Vinci e solo nel 1980, nell’edizione della collana Einaudi Paperbacks, accreditata a Solmi).
Dopo l’allontanamento dall’Einaudi, Solmi ha insegnato per circa trent’anni Storia e filosofia nei licei di Torino e di Aosta. Nel 2007 ha pubblicato con Quodlibet la sua Autobiografia documentaria, oltre 800 pagine di scritti saggistici, dai filosofi più amati al ’68, dalla nuova sinistra americana ai movimenti pacifisti.
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Renato Solmi

Perché Giulio Einaudi mi licenziò
Corriere della Sera, 6 luglio 1999

Pubblichiamo una parte dell' intervento di Renato Solmi che uscira' nel prossimo numero dell' "Indice". Il brano si riferisce ai primi anni 60.

Le prime avvisaglie della frattura vennero dallo scetticismo di Calvino e Bollati di fronte alle posizioni politiche espresse da me e da Raniero Panzieri il quale rappresentava a Torino il rinnovamento rispetto alla sinistra tradizionale. La presenza nella casa editrice e a Torino di una figura singolare di uomo (e di combattente) politico come quella di Raniero Panzieri, che, nel frattempo, era uscito definitivamente dal Psi senza entrare a far parte del Psiup, e conduceva la sua battaglia isolata (ma seguita con estrema attenzione e partecipazione da un gruppo di giovani militanti assiduamente impegnati sul terreno sindacale e in un'attività di inchieste di carattere sociale e di elaborazione teorica autentica), per una ripresa del movimento rivoluzionario in Italia, su basi completamente nuove rispetto al passato, e in netto antagonismo con la linea politica dei grandi partiti di massa, non poteva fare a meno di suscitare, da un lato, uno stato di tensione e di allarme negli ambienti della sinistra tradizionale, sindacale e politica, e di dare luogo, per contro, a un atteggiamento di viva curiosità e di crescente interesse in tutti quelli che, come me, indipendentemente dalla loro condizione sociale o dalla loro occupazione lavorativa, erano ancora orientati, nonostante tutti gli errori commessi e tutte le delusioni sperimentate in passato, in una prospettiva di carattere rivoluzionario, e che, di conseguenza, erano pronti a recepire e ad accogliere avidamente, non appena si rendessero visibili o percettibili, tutti i segnali che apparivano rivolti in quella direzione, e a rispondere positivamente a tutte le sollecitazioni in questo senso. Verso uno sbocco finale di questo segno (e cioe' verso la prospettiva dell' avvento di una societa' socialista, che avrebbe finito per affermarsi, prima o poi, anche se in forme di volta in volta diverse, in tutte le parti del mondo) sembravano convergere, infatti, tutte le elaborazioni filosofiche e culturali piu' serie e piu' articolate, come tutte le analisi economiche e sociologiche piu' interessanti e piu' valide: dal pensiero di Lukacs e dei suoi discepoli, sparsi qua e la' in tutti i paesi europei, a cui mi sentivo, per tanti aspetti, particolarmente vicino, al lavoro dei neomarxisti americani che si raccoglievano intorno al gruppo della "Monthly Review"; dagli sviluppi piu' originali della scuola di Francoforte ai maggiori esponenti della storiografia economica e sociale in Inghilterra e nel resto del mondo anglosassone; dalle tendenze piu' avanzate della pedagogia e della psicologia contemporanea alle forme piu' critiche e problematiche dell' arte e della letteratura d' avanguardia. Il fenomeno della contestazione giovanile e studentesca, che si sarebbe manifestato in forma cosi' drammatica ed esplosiva negli anni immediatamente successivi, era stato preparato da lunga data da questo lavoro di carattere culturale e teorico, che si era venuto compiendo su scala globale e senza alcuna soluzione di continuita' nel corso degli ultimi decenni, e nel cui ambito si situava, nella sostanza, anche l' attivita' della casa editrice in tutto cio' che aveva prodotto di meglio nel corso del secondo dopoguerra. Che tutti questi fattori contribuissero a spingermi verso un rinnovato impegno di carattere politico e culturale, ulteriormente accresciuto e rafforzato dall' assillo costituito dalla minaccia di una conflagrazione atomica sempre possibile, che, per le ragioni che ho detto, ero forse portato ad esagerare e a sopravvalutare oltre il lecito, dovrebbe risultare abbastanza chiaro e comprensibile ...
Ricordo bene, a questo proposito, due episodi che risalgono a questo periodo: una professione aperta di scetticismo, non del tutto priva di accenti canzonatori, ma tutt' altro che superficiale o improvvisata (come non ci sarebbe nemmeno bisogno di precisare, trattandosi di lui), da parte di Italo Calvino, nei confronti dei timori da me frequentemente espressi in merito alle riflessioni e alle anticipazioni teoriche sulla guerra atomica e sulle sue conseguenze che venivano condotte e sviluppate, in quel periodo su larga scala, e in modi a dir poco impressionanti, da numerosi strateghi e politologi americani (come il famigerato Herman Kahn), riflessioni ed anticipazioni che, a suo avviso, non avrebbero mai avuto la minima possibilita' di tradursi in pratica e di realizzarsi concretamente sul piano dei fatti (una previsione, come si vede, molto "realistica", che potrebbe apparire confermata, oggi, da una considerazione retrospettiva degli sviluppi che hanno avuto, o che non hanno avuto, luogo nel corso degli ultimi decenni); e una sincera e - per certi aspetti - sorprendente (data la riservatezza abituale del suo carattere) manifestazione improvvisa di dispetto e di rincrescimento, da parte di Giulio Bollati, per il fatto che io, a suo dire, mi fossi schierato ormai toto corde e senza riserve dalla parte di Raniero Panzieri e avessi rinunciato a sostenerlo e ad assecondarlo, come gli era sembrato, invece, che avessi intenzione di fare in precedenza, nei suoi sforzi di pianificazione complessiva dell' attivita' editoriale in una prospettiva di lungo respiro (cio' che, in realta' , non era mai stato e non era affatto nelle mie intenzioni, ma che, evidentemente, era stato avvertito o presentito da lui come una tendenza imminente e irreversibile della mia condotta). Avrei fatto meglio a tenere conto di questa avvisaglia, di per sé fin troppo eloquente, della tempesta che era destinata a scoppiare di li' a poco e che avrebbe determinato la fine subitanea e prematura dei miei rapporti di lavoro permanente con la casa editrice.

Platone e Brecht: le passioni di Renato, il figlio del poeta 

Renato Solmi, nato ad Aosta nel 1927, e' figlio del poeta Sergio. Si laureo' a Milano in storia greca su Platone. Lavoro' giovanissimo all' Istituto di studi storici di Napoli, ancora vivo Croce. Entro' all' Einaudi nel ' 51 come redattore. Tra il ' 56 e il ' 59 fu a Francoforte, dove conobbe Adorno e Horkheimer. Nel ' 59 torno' in via Biancamano, da cui venne allontanato nel ' 63 in seguito al caso Fofi. E' stato insegnante liceale a Torino e Aosta. Studioso anche di letteratura e filosofia tedesca, ha proposto, tradotto e curato, per Einaudi, i "Minima moralia" di Theodor W. Adorno (1954) e l' "Angelus Novus" di Walter Benjamin (1962). Anche dopo le dimissioni ha collaborato con lo Struzzo, traducendo, tra l' altro, opere di Seymour Melman, Marcuse, Brecht, Lukacs, Gunther Anders, Noam Chomsky.

L' "affaire" che divise il comitato.
Da una parte Norberto Bobbio dall' altra Massimo Mila E Cantimori fu drastico

In un bel memoriale uscito nell' ultimo numero dello "Straniero", la rivista diretta da Goffredo Fofi, Luca Baranelli racconta un caso editoriale del ' 63 entrato ormai negli annali della storia editoriale italiana come un vero e proprio episodio di censura o di autocensura: si tratta della bocciatura einaudiana del libro dello stesso Fofi intitolato L' immigrazione meridionale a Torino. Il libro, rifiutato dalla maggioranza del consiglio editoriale dell' Einaudi per ragioni di opportunita' politico - economiche (attaccava la Fiat e "la Stampa" di Torino, ma anche i partiti e il sindacato della sinistra), sarebbe stato pubblicato l' anno dopo da Feltrinelli. Baranelli era allora redattore dello Struzzo e racconta "dall' interno" divisioni e fratture che quel caso aveva provocato nel comitato. Sulle prime lo stesso Einaudi sollecito' all' autore una profonda revisione del testo. Che "emendato" venne poi sottoposto ai membri del comitato per le discussioni del 13 e del 27 novembre. Il risultato fu appunto una spaccatura insanabile tra "conservatori" e "avventuristi", come avrebbe ammesso molti anni dopo Giulio Einaudi con un non celato "senso di colpa". Da una parte i "censori": lo storico Delio Cantimori (il piu' drastico oppositore), Einaudi, il direttore editoriale Giulio Bollati, Italo Calvino, il caporedattore Daniele Ponchiroli, Norberto Bobbio, gli storici Franco Venturi e Corrado Vivanti e altri ancora; dall' altra i favorevoli: il "rivoluzionario" Raniero Panzieri, fondatore dei "Quaderni rossi", Massimo Mila, lo slavista Vittorio Strada, lo storico dell' arte Enrico Castelnuovo, lo stesso Baranelli e Renato Solmi. Ora e' proprio Solmi a raccontare per la prima volta quella vicenda, che porto' a due lettere di licenziamento inviate da Giulio Einaudi allo stesso Solmi e al consulente Raniero Panzieri, i due piu' convinti sostenitori della causa Fofi. Il testo di Solmi, un vero e proprio saggio autobiografico, uscira' nel nuovo numero dell' "Indice" in occasione della pubblicazione del monumentale volume di Luisa Mangoni sulla storia dello Struzzo dagli anni ' 30 agli anni ' 60, Pensare i libri (Bollati Boringhieri, pagg. 976, lire 100 mila). Ricorda Solmi: "Quello stesso giorno, o forse il giorno successivo, tornando a casa, ebbi la sorpresa di trovare la lettera di licenziamento stilata con mano incerta e con scrittura approssimativa da Giulio Einaudi, che, fra tutti quelli che avevano preso posizione contro la pubblicazione del libro, era forse quello che appariva maggiormente irrequieto e che dava l' impressione di essere tormentato dagli scrupoli di una coscienza non del tutto sicura". Le ragioni addotte dall' editore: negli aspri scontri sul testo di Fofi, Solmi si era "espresso in termini offensivi nei confronti Bdi altri membri della casa...". "Quel giorno" era precedente, come conferma la Mangoni, alla prima discussione (13 novembre), e dunque la rottura doveva gia' essere maturata ben prima della decisione definitiva. "Cosi' - continua Solmi - in modo del tutto imprevisto e del tutto inatteso per me, si e' consumato l' esito di una vicenda che avrebbe segnato pesantemente il seguito della mia vita...".
 L' "affaire" del ' 63 impresse anche una svolta alla politica culturale dell' Einaudi: l' ala giovane, rivoluzionaria e operaista, che vedeva un maestro in Franco Fortini, veniva espulsa. Vinceva la "vecchia guardia". Il che fece dire a Giovanni Pirelli, in una lettera di quei giorni a Einaudi: "Sono convinto che vi sono filoni di ricerca basati sul marxismo leninismo e fermenti di cultura rivoluzionaria che devono organizzarsi al di fuori della Casa editrice e senza legami organici con essa". (Paolo Di Stefano)

mercoledì 25 marzo 2015

Lazar, le tre sinistre

Marc Lazar
Le tre sinistre
la Repubblica, 25 marzo 2015



GLI attacchi contro Matteo Renzi durante la riunione della sinistra del Partito democratico, sabato scorso a Roma, non sono il segno di un fenomeno tipicamente italiano, ma testimoniano di un processo generale, in atto in molti partiti della sinistra europea — ad esempio in Francia e in Spagna — anche se con lievi differenze da un Paese all’altro. Per lungo tempo la sinistra europea era organizzata in due grandi famiglie, la prima riformista, l’altra rivoluzionaria e radicale; mentre oggi le sue diverse sensibilità la suddividono in tre principali settori, uno dei quali manifesta una chiara perdita di velocità.
Il primo, quello della sinistra liberale e pragmatica, è incarnato in maniera quasi emblematica da Matteo Renzi. Deliberatamente post-ideologico, il primo ministro ha già proclamato più volte di ritenere superata la divisione sinistra destra: per lui contano solo le riforme economiche, amministrative e politiche necessarie al rilancio dell’Italia e dell’Europa. Ispirandosi al metodo della triangolazione, caro a Bill Clinton, che consiste nell’impossessarsi dei temi dell’avversario, Renzi si propone di attirare elettori dal centro-destra e da categorie normalmente poco inclini a votare a sinistra. Per lui il partito del XXI secolo non avrà più nulla a che vedere col classico partito di massa nato alla fine del’800, con strutture rigide e una forte dottrina, radicato nella società, con numerosi iscritti. Ma non sarà neppure il partito acchiappatutto della seconda metà del secolo scorso, che cercava di ammorbidire la propria dottrina per conquistare fasce sociali diversificate.
Il partito moderno è quello del leader che si rivolge agli individui, grazie al suo carisma e a tutti i moderni mezzi di comunicazione. Un leader forte, talora decisionista, al limite dell’autoritarismo, capace se occorre di giocare una carta populista per cercare di ridestare nei cittadini più diffidenti verso le istituzioni e per i loro dirigenti il gusto della politica. In breve, una sinistra che si adatti alle mutazioni di società più individualiste, e alle odierne “democrazie del pubblico” — pur continuando a richiamarsi ad alcuni suoi valori storici: l’uguaglianza — distinta però dall’egualitarismo — o la giustizia sociale, per orientare la propria azione pubblica. In questo senso Manuel Valls in Francia, pur con la sua peculiare personalità e le sue singolarità, è vicino a Matteo Renzi.
A questa sinistra se ne contrappone un’altra, in maniera sempre più dura e violenta: quella radicale, che afferma di incarnare la “vera sinistra”. Presente in Italia con Sel, e da ultimo con Maurizio Landini, e in Francia col Front de gauche di Jean-Luc Mélenchon, questa “sinistra della sinistra”, incoraggiata dal successo di Syriza in Grecia e dall’avanzata di Podemos in Spagna, ricorre a una retorica della rottura radicale col liberismo, con l’Unione Europea e coi partiti tradizionali; ma in concreto propone un programma di difesa del welfare, o magari la sua estensione, e un’ampia ridistribuzione sociale. Anche questo schieramento, che dispone di forze variabili, manifesta in ciascun Paese le sue particolarità, cercando ovunque di affermare la propria autonomia politica. E si sforza di crearsi, a seconda dei sistemi elettorali in vigore, uno spazio elettorale suo proprio — a volte col rischio di seguire una strategia suicida, come in Francia in occasione delle elezioni dipartimentali: di fatto, qui il Front de gauche ha contribuito all’indebolimento del Partito socialista, rimanendo a sua volta sconfitto. Tutto ciò ha scavato un fossato sempre più profondo, quasi incolmabile, tra queste due sinistre, a beneficio (tranne che in Italia, almeno per ora) delle formazioni populiste di estrema destra, così come di quelle che rifiutano di collocarsi su quest’asse.
Esiste infine una terza sinistra, strattonata tra le due prime e molto eterogenea: quella di mezzo. In Italia fa capo a D’Alema, Bersani, Cuperlo e Civati, e attacca Renzi sia per la sua gestione del partito, sia per alcune sue riforme (anche se non tutte) e il suo metodo di governo. Per il momento questo gruppo conduce la propria battaglia all’interno del Pd e non pensa a una scissione, anche perché il suo margine di manovra è troppo stretto. Lo stesso avviene in Spagna con Izquierda socialista in seno al Psoe, o in Francia con la “fronda” del Ps, più influente, in seno al suo partito, della sinistra Pd, che si contrappone a Valls e a Hollande, ma in fondo non ha una vera alternativa da proporre. Non è né social-liberale, né radicale di sinistra. Questi ninistes (da ni, che in francese vuol dire né) si proclamano socialdemocratici, nel momento stesso in cui le ricette della socialdemocrazia sono in crisi, sia per la concezione del partito che per l’azione al governo. Presi come in una tenaglia tra due poli — la sinistra social-liberale e quella radicale — sono alla ricerca di un’identità perduta.
Oggi questa tripartizione squilibrata, che illustra l’importante evoluzione in atto in seno alla sinistra europea, sta disorientando elettori e simpatizzanti. Ma indubbiamente preannuncia, in un futuro più o meno prossimo, importanti ricomposizioni politiche e drammatiche rotture. (Traduzione di Elisabetta Horvat)


martedì 24 marzo 2015

De Luna, l'aristocratica e il comunista

Simonetta Fiori
Giovanni De Luna ricostruisce una vicenda ambientata in un castello piemontese per ricordare cosa fu la lotta partigiana
La Resistenza “riabilitata” dal diario di Leletta

la Repubblica, 24 marzo 2015


LA RESISTENZA arrivò nel castello insieme a “Barbato”, il comandante partigiano che aveva l’abitudine di tracciare per terra una linea. Pensaci bene prima di superarla, diceva ai più giovani, perché poi non si torna indietro. Il passo autorevole e i baffi imperiosi gli procurarono la stanza più bella del Palas, quella con il letto a baldacchino. I baroni Oreglia d’Isola — un’antica casata di fede cattolica — erano sideralmente lontani dal mondo comunista, ma non potevano negare l’accoglienza al più coraggioso dei resistenti, l’uomo che venti mesi più tardi avrebbe liberato Torino dalle brigate nere.
Un castello, dunque. Una grande tenuta di boschi, vigne e mulini a mezza strada tra Saluzzo e Pinerolo, a Villar, all’ombra del Montoso. E una sontuosa casa patrizia, ricca di libri antichi e di addobbi, pareti affrescate e ceramiche di pregio. Singolare cornice per l’epica resistenziale, quasi da sospettare che si tratti di una felice invenzione per celebrare il settantesimo della Liberazione. E invece è tutto vero. Sono vere la contessa Caterina e sua sorella Barbara che soccorrono i partigiani feriti nascondendoli nelle soffitte del maniero, e talvolta salgono su in montagna per recuperarne i corpi senza vita. Sono veri i combattenti delle brigate Garibaldi che alternano azioni di guerra con momenti di conversazione colta nei saloni del Palas. È vero il repubblichino Novena, con il suo carico di risentimento e inganno anche dentro le mura del castello. Ma soprattutto è vera la protagonista Leletta, la diciassettenne figlia della “Barona” e voce narrante della storia: è attraverso il suo sguardo che vediamo scorrere «la gloriosa epopea », venti mesi di guerra civile che significarono tragedia e sangue ma anche una «scuola di vita » per distinguere tra coraggio e viltà, amicizia e opportunismo, slancio ideale e grettezza.
L’antifascismo fu una reazione esistenziale prima ancora che una decisione politica matura. E il diario di Leletta restituisce con semplicità il significato di una scelta che accomunò aristocratici e comunisti, preti e mangiapreti, signori e contadini, monarchici e repubblicani. Anche per questo Giovanni De Luna ha voluto intitolare il suo bel libro La Resistenza perfetta: il Palas diventa simbolo di una storia che in tutti i modi si è cercato di delegittimare, ottenendo il risultato di sporcarne il senso comune soprattutto tra i più giovani.
La Resistenza come un pranzo di gala, impreziosito dagli argenti di casa Oreglia? No di certo. Anche dal castello si assiste alle efferatezze nelle file partigiane, Lucia e Caterina derubate e poi ammazzate su ordine del “Moretta” solo per un vago sospetto di collaborazionismo. Ma i dialoghi annotati da Leletta, e i numerosi diari consultati da De Luna, registrano un rapporto con la violenza che è subìto più che golosamente ricercato. Il mestiere delle armi, quando esercitato con esuberanza, suscita sperdimento, non fierezza. Le gesta di “Zama”, io partigiano che fece in quelle valli la prima vittima fascista, sono accolte con “orrore reverenziale”. E “Gagno”, audace comandante gappista, resta “di stucco” quando lo vede uccidere la prima volta. Anche il compagno “Balestrieri” confessa di provare «una sensazione di pena per me stesso» mentre mira alla testa del maggiore tedesco: preme il grilletto ma ne è travolto.
Altro spirito aleggia nelle file avversarie, un surplus di ferocia che cresce insieme al sentimento di sconfitta, riuscendo a penetrare tra le mura del castello. È dentro il cortile del Palas che nel febbraio del 1945 viene selvaggiamente picchiato il garibaldino “Lampo” per mano del camerata Novena. «Oh signor Novena come sta?», era stata la disinvolta accoglienza di Leletta quasi all’alba. Erano arrivati per perquisire la villa, sospettata di complicità con la Resistenza. E con loro s’erano portati “Lampo”, appena catturato in montagna. Volevano indurlo a confessare le relazioni pericolose con il barone e la sua famiglia. «Non sono mai venuto nel castello», si ostina a negare lui. Pochi giorni dopo viene ammazzato, colpito al volto con un pugno di ferro, gli occhi estratti dalle orbite. A Novena sono stati attribuiti 195 omicidi, chissà se li ha commessi tutti. Una volta si divertì ad armare la mano del figlio tredicenne, «vai, dilettati anche tu».
Nulla sfugge a Leletta, che riferisce meticolosamente sul suo diario. Nel 1944 ha la freschezza dei 18 anni, curiosa degli uomini più delle ideologie. È affascinata da “Barbato”, nome di battaglia di Pompeo Colajanni, ma più per l’impegno generoso profuso nella battaglia che per le teorie arruffate. Coglie la differenza tra il suo «quartetto» di cavalieri rossi e quegli «imboscatucci» degli amici aristocratici, che invece di combattere cercano riparo nella zona franca dell’Ordine di Malta. Impara a sparare anche lei, insie- me al fratello Aimaro, «incauti e contenti». Perché le armi sono una necessità, e non se ne può fare a meno, ricorda lo storico in polemica con quella sorta di «interdetto culturale» che oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti (i partigiani ingiustamente assimilati ai terroristi)). Non diventa mai comunista Leletta, né può diventarlo. Però conserva la stella rossa del suo comandante perché intuisce l’energia vitale che scorre in quelle fila. «Ah, dottoressa Aurelia, se avessi vent’anni di meno », scherza il partigiano con galanteria. In realtà ha solo 38 anni, troppi per quell’epoca.
L’aristocratica e il comunista. Nel dopoguerra assisteranno al lento disfarsi di quella rete di affetti e solidarietà intessuta dentro il castello. Ciascuno riprende il suo posto in un mondo che non ha tagliato completamente i ponti con il passato. I fascisti tornano in libertà grazie a Togliatti, con motivazioni spesso raccapriccianti: giocare a calci con la testa del partigiano appeso viene considerato un “incidente”, non una sevizia efferata. Anche per Novena solo dieci anni di galera, poi una vita da benzinaio a Velletri. Colajanni assume importanti incarichi politici nelle file del Pci, come qualche altro suo compagno di brigata. E Leletta? Segue la sua vocazione religiosa. Nel 1947 entra in convento come suor Consolata, poi diventa terziaria domenicana. Per il resto della sua vita non farà che ascoltare gli altri, come in fondo aveva fatto dentro il Palas. Muore nel 1993, sei anni dopo “Barbato”. Nel 2012 si è aperta la causa per la sua beatificazione. La beata Leletta che sapeva usare il parabellum.

IL LIBRO La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna (Feltrinelli, pagg. 256 euro 18)

lunedì 23 marzo 2015

La casa sul lungofiume a Mosca


Manuel Vasquez Montalban
La Mosca della Rivoluzione 
trad. di Hado Lyria, Feltrinelli, Milano 1995


Lungo lo Zamoskvoreče occidentale continuiamo a incontrare esempi del classicismo moscovita restaurato o in via di restaurazione, come in via Serafimovič, intitolata a uno dei più fedeli scrittori del bolscevismo, autore del romanzo Il torrente di ferro, che presenta una evidente sproporzione tra la sua brevità e la lunghezza e profondità dell'impegno politico, in una densa narrazione della guerra civile. Ma nonostante il famoso scrittore da cui prende il nome, questa strada passerà alla storia della Mosca stalinista e della Mosca della perestrojka grazie al complesso residenziale costruito tra il 1928 e il 1932 dall'architetto Iofan, riservato ad alti rappresentanti della vita politica e culturale. La facciata principale dell'imponente palazzo dà sul lungofiume Bersenevskaja, e vi appaiono in bassorilievo alcuni degli illustri, e in gran parte sventurati, inquilini degli appartamenti: Petrovskij, Dimitrov, Lepešinskij, Serafimovič, Stasova...; sì, ma anche il maresciallo Tuchačevskij e molti altri dirigenti che qui vennero arrestati, vittime delle purghe staliniane. Ci troviamo davanti alla "Casa sul Lungofiume", chiamata così soprattutto dopo che Jurij Trifonov pubblicò uno splendido romanzo con questo titolo. La Casa sul Lungofiume comprende circa cinquecento appartamenti e sotto lo stalinismo diventò un concentrato di paura, delazione e rassegnazione, con gli occhi dei suoi abitanti fissi sul Cremlino dove Stalin poteva disporre delle loro vite solo sollevando la cornetta del telefono. Non a caso Bucharin aveva chiamato il dittatore "il Gengis Khan col telefono", e anche Bucharin la pagò assai cara.
Il citato romanzo di Trifonov è stato uno dei best-seller della cultura critica. Vi si descrive l'atmosfera pesante del palazzo con gli occhi del protagonista, che non ci vive, ma che lo vede come la roccaforte abitata dalla classe dirigente. Diventato adulto riuscirà a entrarci corteggiando la figlia del professor Gančuk e col tempo diventerà uno degli intellettuali che, per viltà o per ambizione di potere, contribuiranno alla caduta del prestigioso professore, eccesivamente poco devoto allo stalinismo culturale, nonostante abbia un irreprensibile passato bolscevico e sia un marxista convinto. E' curiosa la coincidenza della metafora della repressione culturale "metodologica" adoperata da Trifonov nel suo libro, perché coincide con l'aneddoto iniziale che porta Eugenija Ginzburg alla disgrazia, alla purga, a un lungo esilio in Siberia, come racconta un'altra impressionante testimonianza del Gulag, Cielo di Siberia. Il tormento della Ginzburg comincia precisamente con una "chiamata telefonica", che all'alba del 1° dicembre 1934 la convoca davanti al Comitato Regionale del Partito, di cui è militante attiva. Le chiedono di collaborare a una campagna di denuncia di elementi antisovietici corresponsabili dell'assassinio di Kirov, e lei adempie alla consegna, ma non è abbastanza combattiva nei riguardi del professore El'vov, insigne trockijsta e scienziato dell'Istituto di Pedagogia con il quale la Ginzburg aveva attivamente collaborato. Comincia così a cadere in disgrazia, e vive confinata in Siberia dal 1937 al 1947. In seguito "nel 1949", viene esiliata da Mosca vita natural durante. La parabola letteraria di Trifonov sembra quasi l'aperitivo della tragedia reale della Ginzburg e di tanti altri. La Casa sul Lungofiume, "la mole grigia, sembrava sospesa sul vicolo, di mattina copriva il sole e di sera giungevano da lassù le voci della radio e le musiche dei grammofoni. Sembrava che lì in alto si dovesse vivere una vita del tutto diversa da quella vissuta in basso, nella casupola dipinta di giallo come voleva una tradizione secolare".


La casa sul lungofiume
real_gone 
http://il_posto_delle_fragole.ilcannocchiale.it/2010/09/11/la_casa_sul_lungofiume.html 


Il palazzone grigio nelle foto (scattate da me qualche settimana fa, a parte la foto d'epoca) è uno dei luoghi "letterari" che di più amo di Mosca, reso celebre dal lungo racconto di Jurij Trifonov, Dom na naberežnoj (La casa sul lungofiume, Editori Riuniti). Mi è caro per due motivi. Il primo, ovvio, è perché ho apprezzato molto il libro, un racconto di formazione, un libro sul peso della memoria. Il protagonista è un mediocre, Glebov, un uomo cinico e opportunista nell'oscuro periodo storico della Russia che lo vede diventare adulto, l'epoca staliniana. Un incontro, all’inizio del libro, innesca un lunghissimo flashback che rivela al lettore gli altri personaggi e tutte le vicende che hanno ruotato attorno all'esistenza di Glebov. Ma la memoria ha un peso insostenibile e un retrogusto fortemente amaro per il protagonista perché rimanda a quel periodo in cui, con bieco opportunismo, egli ha costruito meschinamente una carriera accademica cogliendo lo spirito del tempo ma tradendo amici, valori e persino l'amore. Contraltari di questa sono le storie di sconfitta e i declini degli altri personaggi, tutti legati alla grande casa sul lungofiume, l'immenso edificio dove risiedeva l'intelligencija e la classe dirigente dell'epoca, luogo simbolo di uno status e metafora della scalata sociale che il protagonista sogna e infine riesce a realizzare, al prezzo avvilenti compromessi con se stesso. Fra gli amici di Glebov Trifonov rappresenta anche se stesso e la sua famiglia, ennesima vittima del terribile clima di delazione e di caccia alle streghe che fu il periodo staliniano. 
Adesso questo palazzone sul lungofiume è un complesso di appartamenti residenziali molto upper class che comprende un cinema, piscina e un supermercato… in cima troneggia un gigantesco logo della Mercedes. La zona in cui sorge è tra le più belle della città: ad un passo dal Cremlino, ad un passo dalla Cattedrale del Cristo Salvatore (e dalla ulica Precistenka, dove sorgono il Puškin e le casa museo di Tolstoj), a fianco della vecchia fabbrica della Krasnij Okt’jabr (centro di una bella movida notturna), a poche centinaia di metri dalla (staraja) Tret’jakovskaja galereja e da Poljanka, il quartiere dove sorge una delle librerie più belle e fornite di Mosca, la “dom knigi” Molodaja Gvardija. 


domenica 22 marzo 2015

Charlie Brown, i personaggi

Io sono un convertito a Charlie Brown, All'inizio non mi piaceva affatto, Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avven­turoso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a un certo pun­to è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono as­solutamente realistici. È avvenuta addirittura un'identificazione: Char­lie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua, Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto co­me diagnosi, prognosi ed esorci­smo. (Oreste Del Buono)

Charlie Brown e i fumetti.
Umberto Eco intervista Elio Vittorini e Oreste Del Buono

Linus, n. 1



Charlie Brown, Snoopy e compagni nascono nel 1950 ad opera dell’americano Charles Schulz con la serie intitolata “Peanuts” (tradotto dall’inglese significa “noccioline”) ed è attualmente pubblicata nel mondo intero. Si tratta della vita e dei problematici pensieri di un gruppo di ragazzini che frequentano la scuola elementare.
Nelle striscie e nei cartoni animati dei “Peanuts” non hanno fatto mai la loro comparsa gli adulti e anche i dialoghi fatti con la maestra, sono quasi dei monologhi dove dalla risposta del protagonista si intuisce quale sia stato il discorso dell’insegnante. Uno dei protagonisti principali è senz’altro Charlie Brown (chiamato da tutti sempre per nome e cognome), un ragazzino contraddistinto da una testa rotonda (cosa che tutti i suoi compagni gli fanno notare) e un ciuffo di capelli sulla fronte, normalmente indossa un maglioncino a zig-zag e un paio di pantaloncini corti.
Charlie Brown è un bambino molto sensibile e problematico al punto da essere vittima di un grande complesso di inferiorità nei confronti dei suoi simili. Si sente stupido, antipatico ed imbranato ed incarna un pò le paure di tutti gli adolescenti. La sua più grande passione è il baseball, dove fa sia il giocatore che l’allenatore di una scalcinata squadretta composta dai suoi amici, puntualmente sconfitta, questo fa aumentare ancora di più il suo sconforto. E’ anche un’amante della scrittura e degli aquiloni che però, non riesce mai a far volare.
Molti dei complessi e problemi di Charlie Brown nascono anche ad opera delle parole ciniche e irriverenti del suo esatto contrario: Lucy Van Pelt, una ragazzina il cui pragmatismo è pari alle problematiche di Charlie Brown. Lucy non perde occasione per far notare all’amico i suoi difetti sopratutto quando giocano a baseball. Lucy è spesso scorbutica, disfattista, insensata, egoista, arrogante e diffidente. Di buono ha l’innato senso degi affari e la sua simpatia che nasce proprio dai suoi difetti.
Ogni volta che il povero Charlie Brown fa qualche riflessione si problemi della vita della vita, l’ignoranza e la presunzione di Lucy snobbano puntualmente l’intelligenza e la sensibilità dell’amico. Ma guarda caso Lucy ha un fratellino di qualche anno più piccolo, che ha un carattere affine a quello di Charlie Brown, questi è Linus. E’ ragazzino che veste sempre con una maglietta a righe orizzontali e i calzoncini.
Spesso si coccola stringendosi al viso la sua inseparabile coperta e mettendosi il pollice in bocca. Quando i genitori decidono di lavargli la coperta, scoppia in una crisi di pianto e di panico. Come Charlie Brown, Linus è un bambino sensibile e costruttivo, ed è con lui che ragiona sul senso della vita e sulle cose. Spesso si rifugia in un campo di cocomeri ed esprime i suoi dubbi amletici ad un’entità invisibile chiamata “Grande Cocomero”.
In tutto questo ovviamente, Lucy non può che scoraggiarlo. Nelle strisce dei “Peanuts”, così come non compaiono gli adulti, non compaiono nemmeno gli animali fatta eccezione del bracchetto più famoso dei fumetti: Snoopy a dire il vero compare anche il suo amico Woodstock, un uccellino molto sveglio e sorprendente.
Snoopy è il cane di Charlie Brown e se ne sta spesso e volentieri sopra il tetto della sua cuccetta dove dorme, pensa, sogna, scrive romanzi con la macchina da scrivere e gioca ad impersonare un famoso pilota da caccia della prima guerra mondiale “Joe Falchetto”.
Immaginando di essere sopra un aereo, anzichè sopra la sua cuccetta, sogna di avere dei tremendi duelli aerei con il terribile Barone Rosso. battendo a dove. Non avendo la parola (solo i pensieri), riesce però a capire tutto quello che dicono i ragazzi e a farsi intendere da loro quando ha fame o quando desidera qualcosa. Anzi, in molte circostanze è riuscito a togliere dai guai i nostri protagonisti, con soluzioni sorprendenti (come quella di guidare una ruspa e ripulire un torrente dai massi che intralciavano la barca di Charlie Brown e compagni).
La simpatia di Snoopy nasce anche dal fatto che mentre i problematici amici, discutono su delle soluzioni da adottare per un certo tipo di problema, lui c’è già arrivato ed è già operativo. E’ appassionato di pattinaggio e di surf e ogni si concede lunghi viaggi in compagnia dell’amico Woodstock. Un altro personaggio caratteristico dei “Peanuts” è il pianista Schroeder, bambino biondo che ha la grande passione per la musica classica e per Beethoven in particolare. Passa le sue giornate a suonare su un piccolo pianoforte per bambini. Spesso Lucy, (eternamente innamorata di Schroeder, ma non corrisposta) cerca di distrarlo con discorsi materialistici e spoetizzanti, questo non fa altro che scatenaere la sua inevitabile ribellione.
Tra i gli altri ricordiamo anche lo sporchissimo Pig Pen, Violet, Sally, “Piperita” Patty, tutti bambini che vivono una esistenza afflitta da mille falsi problemi psicologici che li angustiano. Però il giorno della festa di Halloween, si travestono tutti da cocomeri e festeggiano, dimenticandosi dei loro problemi. I “peanuts” di Schulz sono diventati famosissimi: le loro avventure sono state raccolte in libri e hanno dato lo spunto a vari cartoni animati. Pensate che i nomi di Charlie Brown e di Snoopy sono stati dati al modulo lunare e al modulo di comando dell’astronave della missione “Apollo 10″.
Inoltre viene preso con grande attenzione da parte di letterati, saggisti e psicologi, in quanto in un modo o nell’altro, fanno rifettere su quelli che sono i piccoli problemi di tutti i bambini (e non solo) di questo mondo. Grazie ai “Peanuts” il fumetto ha conquistato un posto di tutto rispetto nella nostra cultura moderna.


 http://guide.supereva.it/cartoni_animati/interventi/2004/07/166055.shtml

David Michaelis, Schulz e i Peanuts. La vita e l'arte del creatore di Snoopy, Charlie Brown & Co., trad. A. Bottero, Tunué 2013













sabato 21 marzo 2015

Gherardo Colombo, come ti erudisco il pupo






La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noja di sentirsi correggere da chi ne sa più di loro

— Vuoi che te lo dica? — replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. — Fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio.
— E questo mestiere sarebbe?
— Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.
— Per tua regola — disse il Grillo-parlante con la sua solita calma — tutti quelli che fanno codesto mestiere, finiscono quasi sempre allo spedale o in prigione.
— Bada, Grillaccio del mal’augurio!... se mi monta la bizza, guai a te!...
— Povero Pinocchio! mi fai proprio compassione!...
— Perché ti faccio compassione?
— Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno. —
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crí-crí-crí, e poi rimase lí stecchito e appiccicato alla parete.




Guido Vitiello
Lettera di un pm al figlio 
Il Foglio, 21 marzo 2015 















Una lettera a un figlio che esce il 19 marzo, giorno della Festa del papà, dovrebbe destare un bel po' di sospetti su chi sia il vero destinatario del dono. La "Lettera a un figlio su Mani pulite" di Gherardo Colombo li conferma tutti. Ma la data di pubblicazione conta fino a un certo punto, il veleno è nel genere stesso. Chi sono questi figli a cui si scrive per spiegar loro di volta in volta, la Costituzione, la Resistenza, il Sessantotto? Sono finzioni retoriche che consentono di collocarsi nella posizione del buon padre, o del Seneca in veste da camera, e di godere piuttosto oscenamente della propria virtù.
... io che fin da ragazzo ho lottato per la Costituzione, io avvilito dall'arroganza del potere senza però arrendermi mai, io che neppure tentavano di corrompermi perché sono un osso duro, io così saggio che propongo di superare il carcere, anche se poche pagine prima difendevo con le unghie e con i denti la custodia cautelare (si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio).
... Ma perché giocare retorica contro retorica? E' più forte, pruriginosa direi, la voglia di gridare a questo "figlio" l'allarme di Massimo Troisi a Robertino, ostaggio della virtuosissima madre Ida: "Robe', tu ti devi salvare, va mmiez'a strada, tocca 'e femmene, va' a arrubbà, fa' chello che vuo' tu!".