giovedì 28 marzo 2019

Il fascino ambiguo di un racconto



Ci si può innamorare di una storia? Certo che sì, il fenomeno è vecchio come la letteratura, prendete l'Odissea, leggetela per la prima o per la settima volta e vedrete cosa succede. E se la storia ha per protagonista un criminale, che succede? Succede che l'amore resta, mentre l'oggetto dell'amore barcolla un po'. Si rivela un eroe abusivo, un protagonista che non è come vorrebbe apparire. La sostanza delittuosa delle imprese da lui compiute si oppone all'ammirazione tranquilla. Mariolina Bertini chiama le cose con il loro nome, non c'è che dire. Parla pure di una confessione spesso inaffidabile. Se non è vero è ben trovato, diceva Voltaire. Ma se non è vero, che cosa resta? Resta la genialità di un truffatore che si impadronisce anche del racconto e ottiene la bellezza cristallina di una apparenza sfuggente. Magnifico e miserabile: sta qui forse il fascino ambiguo del racconto. 

Mariolina Bertini, In questo mondo di ladri (di libri): le sfacciate imprese di Massimo De Caro, Giacomo Verri Libri, 28 marzo 2019


Nella primavera del 1929, mio padre fu detenuto per tre settimane alle Carceri Nuove di Torino, per aver firmato una lettera di solidarietà a Benedetto Croce, insultato da Mussolini. Di quella sua breve esperienza ricordava soprattutto due cose: le cimici – difficilissime da debellare al ritorno a casa – e l’incontro con un personaggio che gli era parso di un’irresistibile simpatia, il sedicente Gran Capo Cervo Bianco, nativo americano per parte di madre, che dopo un momento di celebrità stava scontando con qualche anno di detenzione l’uso disinvolto dei fondi devoluti da certe credule contesse alla causa della Cultura Pellerossa. Il ricordo divertito, quasi affettuoso, che mio padre aveva di quel compagno di prigionia, definito dagli psichiatri del tempo “mattoide” e “bugiardo patologico”, mi è tornato in mente leggendo Max Fox o le relazioni pericolose (Einaudi, 2019, pp. 310, € 20), la ricostruzione biografica dedicata da Sergio Luzzatto a Massimo De Caro, bibliofilo e falsario che, nominato nel 2011, grazie a Dell’Utri, direttore dell’antica biblioteca napoletana dei Girolamini, approfittò del suo ruolo per svuotarne gli scaffali, convogliando verso la collezione del suo protettore e verso il mercato antiquario internazionale migliaia di volumi, alcuni dei quali di grandissimo pregio. Racconta Luzzatto che, intervistando via skype “il suo impostore” che era ai domiciliari a Verona, “da una registrazione all’altra, lo trovavsempre più simpatico”; proprio come mio padre e un altro detenuto politico, Massimo Mila, avevano trovato simpatico quel finto sachem che dopo esser stato ricevuto in pompa magna da Mussolini era precipitato dal suo precario piedestallo e non aveva più nemmeno i soldi per il tabacco. In entrambi i casi, la simpatia si rivolgeva a un brillante millantatore che stava pagando il suo debito con la società, e che non poteva guardare ai passati splendori che con profondo scoramento. C’era però una differenza. Agli occhi di tutti – tranne forse delle contesse che erano state alleggerite di qualche milione – il Gran Capo Cervo Bianco era una figura più pittoresca che riprovevole; Massimo De Caro invece, ribattezzato dalla stampa “il mostro dei Girolamini”, una volta scoperto aveva battuto tutti i record di impopolarità, incarnando una nuova maschera della nostra commedia politica, il saccheggiatore senza scrupoli dei beni culturali imprudentemente affidati alle sue cure.
È un libraio antiquario torinese, nel 2015, ad attirare l’attenzione di Sergio Luzzatto – che all’Università di Torino insegna Storia moderna – sulla vicenda di De Caro; gli consiglia di andarsi a leggere la sentenza che nel 2013 ha condannato il direttore della biblioteca dei Girolamini e i suoi complici, perché “è roba da film”. Luzzatto, che conosceva quello scandalo soltanto per sommi capi, si immerge, “un po’ allibito, un po’ rapito”, negli atti giudiziari che lo riassumono; poi prende contatto con lo storico dell’arte Tomaso Montanari, che è stato tra i primi a denunciare le malefatte di De Caro. Da uno scettico Montanari viene a sapere che “il mostro dei Girolamini” gli ha scritto da poco; non solo si dichiara  profondamente trasformato, ma anche desideroso di rimediare attivamente agli antichi errori organizzando “percorsi rieducativi” per i detenuti nell’ambito dei Beni Culturali.
Al pentimento di De Caro Montanari non crede affatto, ed è ben deciso a stare alla larga da lui; più curioso e possibilista, Luzzatto è invece tentato dall’idea di avvicinare il reprobo, farsi raccontare la sua versione dei fatti e da quella partire per una ricostruzione della sua storia. Due modelli letterari gli suggeriscono che può trattarsi di un’esperienza pericolosa ma affascinante: L’Avversario di Emmanuel Carrère e L’Impostore di Javier Cercas. Due opere basate su fatti reali e incentrate, entrambe, su figure di mentitori patologici. De Caro non è un efferato assassino come il protagonista de L’Avversario che, spacciatosi per vent’anni per medico di successo, quando rischia di essere scoperto stermina l’intera famiglia; e non è nemmeno, come l’eroe di Cercas, un finto deportato alla ricerca dell’immeritata aureola del martirio. Ha però alle spalle, a quarantadue anni, una bella carriera di mistificatore: entrato giovanissimo nel mercato dei libri antichi, è riuscito a ingannare i migliori specialisti del settore con due perfette contraffazioni di edizioni secentesche di Galileo Galilei; non si è mai laureato, ma grazie a qualche donazione a un’università privata di Buenos Aires, vanta altisonanti titoli accademici; dal mondo dei bibliofili è passato con una piroetta al mercato delle energie rinnovabili, ottenendo, anche grazie ai suoi contatti con l’entourage di D’Alema, lucrosi contratti per promuovere le attività in Italia di un oligarca russo; infine, prima di approdare alla direzione dei Girolamini, dove sarebbe stato colto con le mani nel sacco, è stato consulente del Ministro dei Beni Culturali Galan, e come tale ha “visitato” senza destare sospetti molte delle più antiche biblioteche della penisola, tornandosene a casa con la cartella gonfia di prime edizioni, cinquecentine e incunaboli. Emmanuel Carrère, scrutando in ogni dettaglio la vita del finto medico Romand, ha voluto – con L’Avversario – interrogarsi sulla parte di menzogna che c’è in ogni esistenza umana; Luzzatto, nel momento in cui decide di ripercorrere l’anomala carriera di De Caro, affidandosi alle sue stesse parole, si propone anche lui di andare al di là degli aneddoti per rispondere a una serie di domande importanti:
Chi era davvero – si chiede – Marino Massimo De Caro? Che cosa erano stati i suoi primi quarant’anni? Com’era arrivato fin lì, nel cuore della Napoli spagnola, a dirigere e svaligiare i Girolamini? In che misura la sua storia, quell’incredibile storia da ladro di biblioteche consigliere del ministro dei Beni culturali, era rappresentativa unicamente di lui, di un originalissimo suo percorso di vita? In che misura parlava invece, più largamente, di un mondo intorno a lui? Del sottomondo dei suoi complici, il sacerdote, il guardaspalle, la segretaria, ma anche di un sopramondo altrimenti blasonato, politici e presuli, antiquari e collezionisti?
La  prospettiva di Luzzatto non è però quella di un’inchiesta di tipo giornalistico, adottata a suo tempo negli articoli di Montanari o ne Il Sottobosco di Claudio Gatti e Ferruccio Sansa (Chiarelettere, 2012). La vita del bibliomane-falsario, raccontata da lui stesso,  lancia allo storico una sfida più sottile:
Forse mi attirava verso De Caro – scrive Luzzatto – la dimensione più vertiginosa dell’«histoire du présent»: mi attirava l’ombra dispettosa che qualunque impossibile storia del presente finisce per gettare sulla storia del passato, anche la più rispettabile. Mi attirava la sensazione – vagamente dolorosa – che le responsabilità dello storico siano quanto di più degno nel suo mestiere, ma anche quanto di più sfuggente.
È dunque lungo la linea d’ombra che separa la verità dalla menzogna che l’autore di Max Fox procederà per trecento pagine, registrando un racconto–confessione spesso inaffidabile nella sua  spudorata autoindulgenza, ma anche debordante di particolari autentici, di episodi rivelatori, di curiose e straordinarie aperture sui segreti del mercato antiquario e in particolare sulla complicità tra librai anche celebri e facoltosi collezionisti, solidali nell’occultare l’origine furtiva di tanti preziosi volumi di oscura provenienza. Il ritmo del racconto è vertiginoso, grazie al dono di Luzzatto per la narrazione, dono che già emergeva nelle sue opere più specificamente “storiche”, come la biografia di Padre Pio, e anche grazie alla picaresca sfacciataggine di De Caro. Non dice certamente tutto, De Caro, ma offre comunque al lettore un nutrito feuilleton di avventure rocambolesche, che lo vedono ad esempio distrarre, con l’aiuto della sua bella assistente ucraina, il vecchissimo frate-custode della biblioteca di Montecassino, sfuggita miracolosamente alle devastazioni della seconda guerra mondiale ma non  alla sua insaziabile voracità di cinquecentine e di prime edizioni di Galileo. L’episodio più romanzesco, a proposito del quale Giuliano Ferrara ha evocato il film di Orson Welles F for fake, è sicuramente quello della falsificazione del Sidereus nuncius galileiano, ricco di dettagli tecnici che avrebbero incantato Georges Perec.
Il 28 marzo del 2007, i lettori del “Corriere della Sera” apprendono da un articolo in prima pagina, intitolato Così Galileo dipinse la luna, un ritrovamento straordinario: quello di una copia sconosciuta di un’opera di Galileo, il Sidereus nuncius, le cui cinque incisioni della luna sarebbero state disegnate e acquerellate nel Seicento dall’autore in persona. Approdato dal Sud America a una libreria antiquaria di New York, l’inestimabile volume è stato sottoposto a tutte le possibili verifiche, e ne attestano l’autenticità due illustri studiosi, lo storico dell’arte tedesco Horst Bredekamp, della Humboldt-Universität di Berlino, e lo storico della scienza canadese William R. Shea, titolare della cattedra galileiana dell’Università di Padova. Mentre la clamorosa notizia viene ripresa dai giornali di tutto il mondo, il professor Bredekamp mette in cantiere una monografia di cinquecento pagine che uscirà entro la fine dell’anno: Galilei der Künstler, Galilei l’artista, un innovativo ritratto del grande astronomo fondato sulla recente scoperta delle sue doti pittoriche. Soltanto nel 2009 un professore americano, Owen Gingerich, rivelerà la verità: quel Sidereus Nuncius che aveva superato le più sofisticate analisi chimiche e radiologiche era un falso perfettamente confezionato, con materiali antichi. Le più recenti tecnologie non erano riuscite a smascherarlo; ma il buon vecchio metodo di Sherlock Holmes ne era venuto a capo, spiegava il professore. Mettendo a confronto la tempistica delle osservazioni astronomiche di Galileo e quella della stampa del Sidereus Nuncius Gingerich aveva dimostrato, al di là di ogni dubbio, che le incisioni acquerellate delle fasi lunari dell’”esemplare di New York” non potevano essere autentiche.  Il vivace  racconto della confezione del falso, fatto a Luzzatto da De Caro, è certamente il capitolo più epico e esilarante di Max Fox. Partendo da una copia autentica del Sidereus Nuncius rubata in una biblioteca e scannerizzata a Verona, De Caro mette in moto a Buenos Aires una macchina organizzativa complessa e impeccabile. Un cartaio fabbrica per lui carta da stracci filigranata indistinguibile da quella antica; un restauratore-pittore dipinge le famose lune con colori d’epoca, falsificando anche la firma di Galileo; l’ingegno multiforme di De Caro gli suggerisce infine di dotare la sua creatura di un fantasioso pedigree, che ne attesta la vendita a un libraio antiquario amico suo da parte di una fantomatica Società democratica italiana di Buenos Aires, che l’avrebbe ereditata da un socio nel 1897. Comprensibilmente fiero del successo di questa beffa grandiosa al mondo degli scienziati e dei bibliofili, De Caro la paragona alla  burla delle finte sculture di Modigliani ritrovate in un fossato a Livorno ai tempi della sua infanzia; Luzzatto sottolinea però la differenza tra la messa in scena senza scopo di lucro dei giovani livornesi e la redditizia attività truffaldina del suo versatile interlocutore.
È possibile, terminata la lettura di Max Fox, non provare, almeno per le spericolate e immaginose imprese del De Caro falsario, un pizzico di ammirazione? Credo di no, ed è questa considerazione che ha indotto Tomaso Montanari a definire l’opera di Luzzatto un’”indegna apologia” del suo protagonista. In realtà Luzzatto, pur dichiarando esplicitamente e sin dall’inizio la sua “simpatia” per De Caro, non manifesta nessuna indulgenza per i suoi misfatti, non manca mai di sottolineare le omissioni o le possibili falsificazioni presenti nei suoi racconti e non si pronuncia sulla genuinità del suo tardivo ravvedimento. Al lettore la scelta se provare simpatia o ripugnanza per un personaggio che, per ingegnosità e spregiudicatezza, ricorda più Panurge, lo scaltro briccone di Rabelais, che l’eroe stendhaliano de Il Rosso e il Nero, cui Luzzatto lo paragona. Quale che sia comunque il giudizio su De Caro, dalla lettura di Max Fox si ricava una certezza: appiccicare l’etichetta di “mostro” anche al più evidente dei colpevoli non ha altra utilità, se non quella di offrire alla pubblica opinione il dubbio conforto di un capro espiatorio su cui convogliare momentaneamente la propria indignazione. Lanciare anatemi contro il “mostro dei Gerolamini” e auspicare – per usare i termini favoriti del ministro Salvini – che “marcisca in galera” è certamente meno utile che chiedersi  come le sue imprese ladresche e truffaldine siano state rese possibili dallo stato di incuria in cui versano nel nostro paese le biblioteche pubbliche (i cui fondi vengono costantemente tagliati) e da un mercato antiquario il cui diffuso malcostume, anche ai vertici, meriterebbe di essere scrutato molto da vicino.