martedì 28 settembre 2021

Foucault, un ritratto

Matteo Marchesini, Sarà pure un’apologia, ma il ritratto di Foucault fa pensare al contrario, Il Foglio, 25 sett. 2021 Nell’ultimo mezzo secolo, le quotazioni di Michel Foucault sul mercato culturale sono rimaste sempre molto alte. Lo si può verificare anche oggi: quando si parla di identità di genere o di gestione biopolitica della pandemia, il suo nome viene citato di continuo. Non è chiaro, però, se le sue sonde concettuali illimpidiscano o confondano le acque. Fin dalla “Storia della follia” ( 1961) e dal suo bestseller “Le parole e le cose” ( 1966), Foucault gioca a nascondino muovendosi tra fatti e suggestioni, tra epistemologia positivista e voli nietzschiani. Il suo procedimento più tipico consiste nell’ad - dobbare uno schema concettuale piuttosto rozzo con documenti tratti dagli ambiti più diversi ( giuridici, medici, estetici). Così intimidisce il lettore, che credendo a un’erudizione smisurata si beve la tesi di fondo e le interpretazioni assai discutibili dei testi portati a sostegno. Alla fine l’autore non ha dimostrato quasi niente; ma ha suggestionato un certo tipo di pubblico, e ha contagiato i colleghi con la sua maniera capziosa di argomentare. In questo senso, Foucault non è mai citato a sproposito: dalle sue pagine, infatti, si possono ricavare spunti per qualunque tema, perché non oppongono resistenza. Ma non si può negare che nella sua opera spicchi un motivo dominante. Foucault indaga le zone d’ombra proiettate dalla luce della Ragione moderna, che tende a criminalizzare o medicalizzare le esperienze che la ostacolano. Più in generale, tenta di definire i modi in cui “l’episteme”, ovvero la visione del mondo inconscia e diffusa di un’epoca, condiziona l’intero campo dei saperi ed esclude certi fenomeni dal suo orizzonte. Ma se si gratta via lo stile fantasmagorico, questi a priori foucaultiani si rivelano troppo simili alle categorie del vecchio storicismo. Nel 1961, davanti alla sua tesi di dottorato sulla follia nell’età classica, il presidente della commissione Henri Gouhier fece a Foucault alcune critiche che si possono estendere ai libri successivi. Gouhier lo accusò di proporre una “socio - logia mitizzante”, e di pensare per allegorie che implicano “una sorta d’inva - sione metafisica nella storia”: “La Follia è personificata, si evolve attraverso concetti mitologici: il Medioevo, il Rinascimento, l’età classica, l’uomo occidentale, il Destino, il Nulla …”. Trovo queste critiche nella biografia di Didier Eribon “Michel Foucault. Il filosofo del secolo”, uscita ora in Italia per Feltrinelli. E’ un ritratto apologetico, ma come si vede fornisce il materiale per farsi un’idea diversa. Oltre al parere di Gouhier sugli esordi di Foucault, resta impresso quello di Sartre su “Le parole e le cose”. L’anziano re del pensiero francese, sul punto di essere detronizzato, osserva che il suo giovane avversario non spiega come si passa da episteme ad episteme: pretende di trattare la storia senza mostrarne la continuità dialettica, e quindi “sosti - tuisce il cinema con la lanterna magica, il movimento con una successione di immobilità”. Del resto, Foucault non spiega nemmeno il cambiamento di quei mini- epistemi che sono i suoi paradigmi. Curioso: un pensatore che vuole demistificare la storia e ritrovare le genealogie nascoste, quando si tratta della propria è un mistificatore di prim’ordine. A posteriori cerca di mettere il suo comunismo giovanile sotto il segno di Nietzsche, poi cancella le tracce del suo strutturalismo, infine si smarca dai maoisti dopo avergli dato corda ( i filosofi francesi esaltano la metamorfosi continua e non vogliono che il loro pensiero sia sottoposto a una morale da stato civile, ma in realtà sono preoccupatissimi della propria figura pubblica). Il fatto è che Foucault si becca tutte le febbri di moda, e come ha ben detto Mandosio, le sue prese di coscienza sono sempre “a scoppio ritardato”. Un caso clamoroso è quello del suo entusiasmo per Khomeini, lodato con termini da giornalista di regime di fronte ai quali ci si chiede a cosa siano servite tante lambiccate analisi foucaultiane su potere e linguaggio. Come in altri autori della French Theory, tutto forse dipende da un rapporto sbagliato tra biografia e filosofia. Non c’è dubbio che molti dei temi di Foucault gli siano suggeriti da forti esperienze personali ( la paura dell’esclusione, la malattia, il sesso); ma la relazione tra questa radice e le formulazioni accademiche non viene discussa. Così il suo fantasma riappare in un estremismo verbalistico che non è commisurato alla vita reale. Eribon ricorda un aneddoto significativo. Nel 1972, in una cittadina francese, per l’omicidio di una sedicenne il giudice istruttore incarcera un notaio legato alla compagnia delle miniere di carbone. Gli tolgono l’inchiesta, ma gli operai lo sostengono. I maoisti parlano di crimine “borghese”. Foucault, che anziché i tribunali proletari esige direttamente i linciaggi, va sul posto, liricheggia, e sostiene che basta vedere i luoghi per sapere che il colpevole è il notaio. Quattro anni dopo confesserà a un amico che si era sbagliato: “avevo subito elaborato tutta una teoria…”. Non è proprio così che ragionano, alcuni noti filosofi del 2021?

Era già l'ora che volge il disio

Era già l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core lo dì c' han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more; Purgatorio, VIII, 1-6     Giuseppe Giacalone Era già l'ora: l'interpretazione più comune è questa: era già l'ora che muta (volge: altri intende riporta indietro) il desiderio dei naviganti e intenerisce il loro cuore, nello stesso giorno (lo dì: compl. di tempo, illo die) in cui si sono distaccati dai loro cari amici; e che punge di amore, fa sentire pungente l'amoroso desiderio, la nostalgia della patria a chi da poco ha lasciato il suo paese (novo peregrin), se ode di lontano il suono di una campana, che sembra piangere il giorno che muore. Ma il Pagliaro, riprendendo una tesi che si era già affacciata, ma era stata respinta dal Tommaseo, ha proposto di recente con acuti argomenti una nuova interpretazione: era l'ora in cui (che) il ricordo del giorno (lo dì: soggetto), in cui hanno detto addio ai loro amici, muove alla nostalgia (volge il disio) e intenerisce il loro cuore ai naviganti, suscita nei naviganti il desiderio del ritorno e intenerisce il loro cuore; e in cui (che) il ricordo (del giorno in cui hanno detto ai loro amici addio) punge di amore il pellegrino non adusato (novo), non appena egli sente gli squilli della campana, che, come a piangere il giorno che muore, lo raggiungono sul suo cammino. «In tal modo lo stato d'animo viene rappresentato intransitivamente; da un lato il desiderio del ritorno, dall'altro il richiamo di amore; due stati emotivi, che sorgono in rapporto a quell'ora, in due situazioni diverse, ma affini» (Ulisse, Firenze, 1966, II, pp. 770-78). Anna Maria Chiavacci Leonardi e che lo novo peregrin...: il soggetto è sempre l'ora del v. 1, che viene determinata con una seconda indicazione, simile e parallela alla prima: e che punge, fa sentire la puntura dell'amore – per la patria, per la famiglia – al pellegrino che si è messo in cammino da poco (novo), cioè, come i naviganti, la prima sera, o le primissime sere, all'udire il suono della campana serale – quasi certamente la squilla di Compieta – che sembri, al suo rattristato cuore, piangere il giorno morente. Si noti la vaghezza indefinita dei tratti con cui è costruita la sequenza: tutto è indeterminato: l'ora stessa, i naviganti e il pellegrino (per dove? da dove?), il termine verso cui si volge il disio dei primi e l'amore dei secondi, la squilla (di una chiesa? di un convento? di una torre cittadina?); vaghi, ma almeno uno per verso, i termini che suggeriscono il sentimento: disio, intenerisce, dolci, amore, punge, pianger; sempre, come è proprio dello stile dantesco, strettamente funzionali. La grande apertura racchiude in sé il ricordo di tante sere vissute nell'esilio, e insieme la dolcezza dei ricordi, e la speranza di ritrovare un giorno ciò che si è dolorosamente lasciato. E che cos'altro è il purgatorio, come Dante lo intende, se non un distacco progressivo da ciò che fu caro sulla terra, per ottenere tuttavia una pienezza nella quale ogni cosa sia consumata e ridonata?

domenica 26 settembre 2021

Enea e Creusa: l'addio

Creusa si smarrisce la notte della caduta di Troia. Enea riempie di richiami le strade per ricercare la moglie quando scorge il suo fantasma. L’eroe tace per l’orrore, i capelli irti sul capo. Creusa parla ribadendo che gli dèi avevano voluto che essa non seguisse il marito nei suoi viaggi ma fosse assunta in cielo per servire Cibele, la Grande Madre. In un estremo, toccante addio, l’ombra della donna ripone in Enea il suo amore per il figlioletto Ascanio. Enea protende gemendo le braccia per abbracciare il collo di Creusa, ma per tre volte egli stringe aria, e il fantasma si dissolve come un soffio di vento. Eneide II, 768-798 traduzione di Luca Canali Osando persino lanciare grida nell’ombra riempii di clamore le vie e mesto chiamai invano ripetendo ancora ed ancora Creusa. Mentre deliravo così e smaniavo senza tregua tra le case della città, mi apparve davanti agli occhi l’infelice simulacro e l’ombra di Creusa, immagine maggiore di lei. Raggelai, e si drizzarono i capelli e la voce s’arrestò nella gola. Allora parlò così confortando i miei affanni: Perché abbandonarsi tanto ad un folle dolore o dolce sposo? Ciò accade per volere divino; non puoi portare via con te Creusa, no, non lo permette il sovrano del superno Olimpo. Lunghi esilii per te, e da solcare la vasta distesa marina; in terra d’Esperia verrai, dove tra campi ricchi d’uomini fluisce con placida corrente l’etrusco Tevere; là ti attendono lieti eventi, e un regno e una sposa regale. Raffrena le lagrime per la diletta Creusa: non vedrò le superbe case dei Mirmidoni o dei Dolopi, non andrò a servire donne greche, io, dardana, e nuora della dea Venere la grande Madre degli dei mi trattiene in queste terre. E ora addio, serba l’amore di nostro figlio”. Com’ebbe parlato così, mi lasciò in lagrime, desideroso di dirle molto, e svanì nell’aria lieve. Tre volte tentai di cingerle il collo con le braccia: tre volte inutilmente avvinta l’immagine dileguò tra le mani, pari ai venti leggeri, simile a un alato sogno*. Così, consunta la notte, ritorno a vedere i compagni. E qui trovo con meraviglia che era affluita una moltitudine di nuovi compagni, donne e uomini, popolo radunato all’esilio, miserevole turba. Si raccolsero da tutte le parti, pronti d’animo e di forze, in qualunque terra volessi condurli per mare. E già Lucifero sorgeva dagli alti gioghi dell’Ida, e portava il giorno; i Danai presidiavano le porte, e non v’era speranza di aiuto; mi mossi, e levato il padre sulle spalle mi diressi verso i monti. °°° (*) Il topos dell’abbraccio tre volte ripetuto compare in Omero Tre volte mi avvicinai: l’animo mi spingeva a stringerla; tre volte volò via dalle mie mani, simile a un’ombra o a un sogno: e a me un dolore acuto nacque più forte in fondo al cuore. (Odissea, XI, 206-208) e torna in Dante e in Tasso.

sabato 25 settembre 2021

Requiem per un partito immobile

Andrea Carugati, Letta incatena il Pd a Draghi. E Prodi lo rimprovera: «Fai più battaglie sociali», il manifesto, 25 settembre 2021 Non è bastata neppure la spinta di Romano Prodi, padre politico di Enrico Letta insieme a Nino Andreatta, a far virare il segretario del Pd verso la battaglia sui temi sociali. Tema quasi del tutto evitato domenica nel discorso di chiusura della festa di Bologna (tenuto al chiuso di un tendone, anche se il tempo era bello, invece del solito pratone), e pure ieri nella relazione alla direzione del partito. «Se il Pd deciderà di spingere per una politica di forte rivendicazione dei diritti sociali, lavoro scuola, salute, case, i voti pioveranno», il rimprovero del Professore in una intervista alla Stampa. «Biden sta investendo sulle politiche sociali cifre impressionanti, oggi la paura vera della gente è quella del non cambiamento, ed è quella che ci può uccidere». Letta invece da Bologna ha ripetuto l’obiettivo di portare a casa entro la fine della legislatura la legge Zan e quella sulla cittadinanza ai figli di immigrati. Possibile la prima (anche se il Pd è corresponsabile di aver rinviato il voto in Senato sullo Zan a metà ottobre). Inverosimile, finché resta un governo con dentro la Lega, il via libera allo ius soli. Tanto che lo stesso Letta la sera del 10 settembre alla festa di Sinistra italiana aveva detto che per realizzare questi obiettivi «serve una nostra vittoria elettorale chiara». Il Pd resta quindi inchiodato all’«agenda Draghi». Il segretario ha ribadito l’auspicio che «questo governo duri fino al 2023» (la platea di Bologna non si è scaldata particolarmente). Su questa linea è tutta l’area degli ex renziani di Base riformista che vede in Draghi «il nostro governo», come ha detto sempre a Bologna Lorenzo Guerini. Quanto a Goffredo Bettini, che negli ultimi giorni aveva evocato l’esigenza di porre fine a un governo di emergenza con tutti dentro, guardando alle elezioni, anche lui si è rimesso in linea, accogliendo l’appello di Letta a serrare le fila in vista delle elezioni comunali del 3 e 4 ottobre. Appello che ieri Letta ha ribadito in direzione, rivolto in particolare agli ex renziani che avevano fatto circolare veline su un possibile congresso Pd prima delle politiche. «Concentriamoci sulle comunali, lo vorrei chiedere a tutti i dirigenti del partito. Remiamo tutti nella stessa direzione, usiamo parole che ci consentano di evitare malintesi, frizioni». Per il leader Pd lo schema è chiaro: «Draghi deve restare fino al 2023, con lui l’Italia può giocare un ruolo chiave sulle regole del patto di stabilità e l’impegno a rendere permanente il Recovery». Un ruolo tanto più rilevante nei mesi dell’addio di Merkel e delle fibrillazioni elettorali in Francia. Di qui all’inizio del 2023 i lsegretario Pd si vuole dare il tempo per costruire la coalizione che possa sfidare Salvini e Meloni. «Le comunali sono una prova generale rispetto allo schema politico dei prossimi anni». Lo schema è quello di un «nuovo bipolarismo», con la «destra estrema» contro l’asse centrosinistra- M5S. Senza vie di mezzo. O possibili tentazioni da terzo polo dei grillini. Rispetto all’inizio dell’estate, il vento dei sondaggi è cambiato, e ora per il centrosinistra appare verosimile una vittoria in 4 delle 5 principali città al voto, compresa Roma, e con la sola esclusione di Torino. Un risultato che metterebbe le ali al progetto di Letta. Nonostante i continui scontri con le Lega, dalle misure anti Covid ai migranti, Letta non teme quello che Bettini ha definito il «logoramento» del governo e dunque anche della figura del premier. Né teme che sia lo stesso Draghi a stancarsi di una maggioranza rissosa e optare per il Quirinale. «La mia previsione è che l’anno prossimo non ci siano elezioni anticipate», ha ribadito ieri a un incontro pubblico con Giorgia Meloni. Durante il quale ha violato la moratoria da lui stesso invocata sul prossimo Capo dello Stato: «Sono favorevole a coinvolgere anche Fdi, a un voto che metta tutti insieme». https://www.iltempo.it/politica/2021/09/22/news/gianni-letta-presidente-della-repubblica-quirinale-giorgia-meloni-enrico-partito-democratico-28778707/

giovedì 23 settembre 2021

Giuseppi

Giuliano Ferrara, Non avrà la voce da Frank Sinatra del Cav., ma Conte gira le piazze italiane da rockstar, alla faccia nostra, élite colta e arrogante, Il Foglio, 23 settembre 2021 

 Che Giuseppi fosse un’icona sexy non ce lo aspettavamo, per certe trasfigurazioni occorre essere del sud, vivere nel sud, respirare il sud, ma che potesse essere un fantastico avvocaticchio di stato e forse anche un discreto uomo di stato abbiamo cominciato a sospettarlo quando prima ha liquidato il Truce con una pacca sulle spalle in Senato, poi rieccolo trasformista e fregolista a Palazzo Gigi (senza la acca, proto, lo conosco quel palazzo), infine ci ha chiuso in casa, per primo nel mondo, e fortunatamente gli abbiamo obbedito, amandolo addirittura quando ha esteso il Reddito di cittadinanza, per quello di giornalanza e di impresanza ci avevamogià pensato noi negli anni, a mezza Italia, approntando per di più una felice trattativa con i frugali e la Merkel allo scopo di finanziare anche con i soldi del surplus europeo la nostra ricostruzione ( per la resilienza lasciamo perdere). Il tour trionfale di Conte si presta all’irrisione, come tutti i trionfi che sono effimeri e per questo tanto più gloriosi, ma dice qualcosa, scusate il luogo comune assassino, sulla differenza tra il paese reale e il paese legale. Coloro che sognano incubi di sostanza jacobonica odiano l’ex presidente del Consiglio e lo sbertucciano da mane a sera, gli altri lo portano in palmo di mano, è un blasone nazionale, quello che ha trovato la forza di chiudere l’italia e i soldi per riaprirla. La gente è fatta così, semplifica, e se sa apprezzare in Draghi il fascino gesuitico e superpolitico del Grand Commis de l’etat sa anche valutare come si deve l’uomo comune, ignoto, anonimo, che scambia il 25 aprile per l’ 8 settembre e viceversa, trucca il curriculum professionale e intanto se ne fa uno migliore nella Repubblica costituzionale più bella del mondo. Giuseppi è stato un prodigio italiano dei più vistosi, come poteva il paese reale non riconoscere il suo stellone pandemico, la sua pacatezza azzeccagarbugli, la sua tenue, soave resistenza a un grande sfratto in favore del nostro Louis XIV, l’homme fatal del whatever it takes ovvero lo stato sono io? Ora è alla prova della leadership politica, una fatica bestiale, e l’affronta con la sua solita sornioneria che tanto indispettisce l’aspetto snob, colto, arrogante e infantile della nostra personalità democratico- libbberale. Ha fatto diventare carrozze europeiste le zucche grilline di conio governativo, ripetendo in piccolo il miracolo berlusconiano della trasformazione di una massa di pubblicitari piccolissimoborghesi in un’armata con il sole in tasca. Infatti a Berlusconi è sempre piaciuto, addirittura per come era elegante ( e questo è francamente troppo, ultroneo come dicono in tribunale). Con Giuseppi vince naturalmente anche la psicologia del rimpianto, del si stava meglio eccetera. Ma non è la questione fondamentale. E’ che il senso comune, strumento pericoloso ma irrinunciabile sopra tutto se detto all’inglese nel significato originario ( common sense), sa riconoscere la sua fauna politica, non diffida di uno che è modesto, che non brilla per oratoria, che ha una voce chioccia, visto che gli hanno negato quello con la voce più bella dell’ugola di Frank Sinatra, il nostro Cav., e piace in Conte l’uomo della folla salito sul palcoscenico per puro caso e assistito da una gran fortuna e capacità di lavoro. Noi delle cosiddette élite, che poi non si dovrebbe mai esagerare, serieggiamo, studiamo, approfondiamo, ci intorciniamo intorno a schemi prettamente razionali per suscitare la bella politica, Giuseppi si accontenta di quella così così e alla testa dei grillozzi riconvertiti gira per le piazze e si fa applaudire come una rockstar.

lunedì 20 settembre 2021

Roma e Torino

Ci mancava pure Cazzullo. Adesso ha scoperto che Roma ha una coscienza, mentre Torino vagola nel buio. E dire che lui su Torino, sulla storia di Torino in specie, ha scritto interi libri. Si vede che non ha capito bene come funziona. Ci sarebbe un problema di fierezza.I segni del declino sono numerosi, in effetti, e molti su questa base pensano che non ci sia più nulla da fare. Ci sono ugualmente quelli che pensano di poter rovesciare la tendenza. Andare verso il futuro con il volto rivolto al passato, l'Angelus novus di Paul Klee, splendida immagine, ma soluzione improbabile. Bisogna risolversi a guardare avanti. Le iniziative individuali non sono in grado da sole di aprire una nuova fase di sviluppo. Ci vuole un centro propulsore e coordinatore, ci vogliono teste pensanti e quadri dirigenti capaci, bisogna allargare la sfera dei soggetti coinvolti. Tutte cose che non prendono forma in poche settimane o pochi mesi. Ci vorranno anni. Roma ha la risorsa di un grande passato. Grande e lontano. Torino possiede invece delle qualità nascoste, lo spirito civico, la qualità degli apparati, il gusto della concretezza. Nel lungo periodo questi caratteri si sono mantenuti, sia pure a volte con difficoltà, come accade oggi per l'anagrafe comunale, producendo disastri. Però una caduta verticale di vasta portata, come quella di Roma nell'ultimo decennio, non si è mai prodotta. Forse la partita non è già persa in partenza. La campagna elettorale non si gioca su questo. Un buon risultato di Francesco Tresso sarebbe un segnale. Come cittadino mi auguro che Aldo Cazzullo abbia torto nella sua diagnosi profetica. Al tempo stesso vorrei che l'allarme venisse preso in seria considerazione dai principali partecipanti alla battaglia per la conquista del Comune. Una lettura utile. Arnaldo Bagnasco, Giuseppe Berta, Angelo Pichierri Chi ha fermato Torino? Einaudi 2020

mercoledì 8 settembre 2021

Le certezze di un candidato

Angelo d'Orsi, Micromega, 3 settembre 2091 Ho già raccontato in interviste, dichiarazioni e articoli che la mia candidatura a Sindaco di Torino non è stato il frutto di una decisione personale, maturata dopo esperienze analoghe, o partorita dalla mia personale ambizione. Le cose stanno in altro modo: ricevetti, poco prima del 25 aprile, una telefonata del segretario torinese di Rifondazione Comunista, Ezio Locatelli, il quale parlava a nome di un vasto insieme: la pressoché totalità della sinistra in città, ossia il variegato e largo panorama che si dispiega a sinistra del Partito democratico la cui natura di sinistra oggi appare del tutto cancellata, persistendo soltanto nel cuore degli ultimi vecchi militanti del PCI, che ritengono, per fedeltà, per abitudine o per volontà di non ammettere una sconfitta epocale che li coinvolge direttamente, che quel partito sia l’erede del partito di Gramsci Togliatti e Berlinguer… Era del resto stata questa, da sempre, la mia precondizione per accettare un invito a candidarmi, non importa a quale carica: l’unità, o quanto meno uno schieramento larghissimo, che mi sostenesse. Così era, e dunque il primo ostacolo veniva meno. Accanto a Rifondazione, a Sinistra anticapitalista, a DeMa (la forza che si richiama a Luigi De Magistris, oggi impegnato nell’ardua contesa per la Regione Calabria), che avevano accettato di coesistere in un’unica Lista, denominata “Sinistra in Comune”, si erano posizionate altre due forze: Potere al Popolo e Partito Comunista Italiano, l’erede del Partito dei Comunisti Italiani; con l’aggiunta di Torino Eco Solidale e di Fronte Popolare. In totale, sette sigle, in uno sforzo unitario eccezionale. E si è trattato del primo risultato positivo raggiunto. Il secondo sarà quello elettorale, che tuttavia non posso anticipare, naturalmente, dato che la vera competizione sta iniziando soltanto ora. PUBBLICITÀ La mia candidatura in fondo nasceva da due requisiti del sottoscritto: 1) non essere mai stato iscritto a nessun partito politico (pur avendo il massimo rispetto dei partiti, strumento essenziale della vita democratica); 2) aver sempre avuto una posizione da intellettuale militante, impegnato in innumerevoli battaglie per altrettante “buone cause”, coerentemente critico verso l’involuzione della sinistra, e verso la catastrofe della dirigenza post-comunista, sotto le varie sigle: PCI-PDS-DS-PD, e verso i suoi cespugli come Articolo 1, Sinistra Italiana et similia. In altri termini, come mi è stato detto esplicitamente, i diversi soggetti politici di cui sopra hanno creduto di individuare nel sottoscritto la figura in grado di rappresentare unitariamente la sinistra cittadina, non essendo mai stato parte di alcuna delle forze che la compongono, ed avendo avuto sempre come stella polare l’unione della sinistra. Arrivare dall’unione realizzata oggi, con la mia candidatura, a una stabile unità è altro affare, assai più complesso e difficile, la cui possibilità concreta sarà sicuramente legata al risultato elettorale: è probabile che se esso fosse una disfatta tutto il discorso unitario apparirebbe fragile e probabilmente non resisterebbe alle spinte centrifughe, che peraltro sono state presenti fin dalla decisione di allearsi nella battaglia elettorale. C’è stata però una seconda motivazione che mi ha indotto ad accettare l’inattesa proposta. Ho insegnato Storia del pensiero politico, nelle sue diverse formulazioni disciplinari, per un quarantennio, nell’università italiana, con alcune esperienze di docenza anche all’estero. Ho studiato e scritto di politica, pubblicando una cinquantina di volumi, oltre un centinaio di saggi, e forse un migliaio di articoli: avendo ormai traguardato i sette decenni di vita, la prospettiva di passare dalla condizione di osservatore/studioso della politica ad attore, tanto più nell’occasione topica delle elezioni, sia pure a livello locale, mi ha suscitato una certa emozione che è stata la molla prima a indurmi ad accettare la proposta. E dentro di me ho pensato: “Se non ora, quando?”. Era in fondo la possibilità di applicare lo studio della politica, e la conoscenza della storia all’azione politica. Mi sono reso conto, tuttavia, solo in corso d’opera, delle difficoltà. E ora che, dopo un paio di mesi di preliminari, la campagna elettorale parte davvero, le difficoltà sono diventate macigni. Sembrava lunghissima, ma dopo l’annuncio della data del voto (3-4 ottobre) a me e ai miei sodali pare di avere troppo poco tempo e troppe cose da fare, persone da incontrare (e convincere), eventi da organizzare, operazioni burocratiche da capire e tradurre in pratica, permessi da chiedere, code negli uffici da affrontare, idee da partorire; e denaro da spendere, che manca. Ti ritrovi di colpo in un universo a te ignoto, una città parallela, sotterranea, sconosciuta; fatta di innumerevoli incombenze, di pratiche da sbrigare, in uffici diversi, con autorità diverse, con tempistiche diverse, un vero labirinto di autorizzazioni, concessioni, e norme e leggi da conoscere, sanzioni da evitare… Tanto più quando non esistono rimborsi elettorali pubblici e, nel caso, non ci sono finanziatori né palesi né occulti. E l’autofinanziamento sembra avere fatto il suo tempo, con la crisi della militanza, lo stato precario delle tradizionali organizzazioni politiche e il moltiplicarsi di campagne di crownfunding per gli scopi più nobili e talvolta anche per quelli più bislacchi o addirittura sospetti. Una campagna elettorale, insomma, ho scoperto che è cosa assai diversa dal semplice “fare politica”, o meglio si tratta di una formidabile accelerazione del tempo dell’azione politica, perché ci si trova dinnanzi a scadenze pressanti, alle quali non sono possibili deroghe o ritardi, perché devi accentuare le differenze con la concorrenza, perché devi aumentare il tasso di aggressività verso i competitors, perché devi, invece, tentare di evitare i temi controversi, quelli su cui rischi di scontentare una parte di elettorato, e quindi di perdere voti, perché la logica efferata di una campagna elettorale sta tutta nella conquista del consenso immediato, quello finalizzato alla scadenza, cioè al fatidico “voto in più”. Questa dinamica finisce per corrompere le proposte politiche, e persino per modificare la normale dialettica politica, già nei linguaggi e nei toni. Tutti gli studi in merito ci dicono del resto che nella contesa elettorale conta di più il significante del significato, che l’apparenza prevale sull’agire e che, se si mira al consenso, i contenuti debbono essere labili e generici, mentre la forma deve essere roboante e clamorosa, deve “colpire” più che “convincere”. Nel contempo, mentre ti rendi conto che questa è la norma della campagna, hai qualcosa dentro di te che si oppone, che rifiuta, che vorrebbe ricondurre tutti alla normalità dell’agire politico. Una normalità impossibile, perché gli avversari non hanno lo stesso punto di partenza, perché alcuni hanno un budget di diverse centinaia di migliaia di euro a disposizione, e altri devo sperare nelle offerte dei potenziali elettori; perché alcuni sono coccolati dai media e altri vengono ignorati; perché alcuni sono già interni alla macchina amministrativa e ne conoscono segreti e trucchi, e altri ne sono all’oscuro; perché alcuni, in definitiva, sono parte del “Sistema Torino”, che altri – certamente, io, in modo programmatico – vorrebbero sconfiggere. E allora ci si deve inventare una fisionomia nuova, accattivante per una parte dell’elettorato, rassicurante per l’altra parte, devi imparare a sorridere anche quando non c’è nulla da sorridere, devi stringere mani che preferiresti non sfiorare neppure (e non c’entra la pandemia da Coronavirus!), devi farti fotografare accanto a soggetti che vorresti tenere lontani mille miglia… Tutto questo è reso tanto più complicato dalla molteplicità delle forze politiche che mi sostengono e dalle relative differenze ideologiche, strategiche, tattiche. Un grande risultato è stato metterle insieme, ma conservare quella unione, al di là della stessa prospettiva che possa diventare un progetto stabile per trasformarla in unità, v’è la difficoltà quotidiana di appianare e fluidificare le relazioni tra i vari soggetti e tra loro e il Candidato Sindaco. Un lavoro diuturno, spesso faticoso, ma che mi aiuta a conoscere da vicino persone, idee, sentimenti, progetti… Ma in definitiva qual è la città che vorrei, e per la quale ho affrontato la sfida? Una città che si riscuota dal torpore, una città che rovesci il percorso di decadenza, ma che non pensi di cambiare pelle e natura; Torino è “città seria” (Gramsci), e deve rimanere tale, non vagheggiare di far concorrenza a Firenze o Venezia, puntando semplicemente sul turismo. Sono decisamente contro la “città-cartolina”. Torino deve riprendere e salvaguardare la città della produzione, in specie metallurgica e meccanica, ma innovando sul piano della tecnologia, puntando sull’innovazione, ma contemperando questo con l’ecosostenibilità. Non deve rinunciare all’automobile, ma deve porsi all’avanguardia, e se è orfana della Fiat e maltrattata da Stellantis, deve offrire opportunità a costruttori stranieri capaci di produrre, innovare e creare occupazione. Inoltre, Torino deve smettere di pensare agli immigrati come un problema da risolvere con i lager e considerarli invece una risorsa preziosa: l’immigrazione è stata storicamente un fattore straordinario di progresso per Torino, quella interna dal Piemonte, quella dal resto d’Italia e quella attuale da fuori, europea o extraeuropea. E non si tratta semplicemente della solita cantilena dell’accoglienza, del dovere morale di aiutare i fragili e i deboli; tutto giusto. Io credo che dobbiamo soprattutto far capire alla cittadinanza che si tratta di una questione economica. Gli immigrati vanno integrati, salvo il loro diritto di conservare la loro cultura, vanno aiutati a trovare casa e lavoro, pagano tasse, mandano i loro figli a scuola, il che impedisce la chiusura di classi elementari e medie, arricchiscono gli atenei cittadini con le loro rette, offrono servizi oggi respinti dagli italiani: la cura delle persone, per esempio. Nella mia campagna ho lanciato alcuni slogan che indicano una certa idea di città, che fanno riferimento alle principali criticità in cui versa la città; a partire dalla lotta al debito (Torino città più indebitata d’Italia, grazie alla politica dei “Grandi Eventi”, a cominciare dalle Olimpiadi invernali 2006); in secondo luogo, la proposta di numerosi e diffusi “Piccoli eventi”, che rechino cultura, e divertimento, possibilmente intelligente, alla massa della popolazione, invece che pochi “Grandi Eventi” a beneficio di pochi ma che gravano sulle tasche di tutti i cittadini; analogamente invece delle “Grandi Opere” (il TAV è la più gigantesca, inutile e dannosa di tutte), innumerevoli “Piccole opere” che rendano la città vivibile e sicura, dai marciapiede sconnessi agli istituti scolastici pericolanti; risanare l’ambiente (altro triste primato negativo di Torino è l’inquinamento); puntare sulla salute in città invece che sulla “Città della salute” (quei giganteschi agglomerati di strutture sanitarie a cui si pensa o si sta iniziando a costruire ai margini del territorio urbano, che prevedono addirittura riduzione di posti letto e di posti di lavoro: la pandemia non ha insegnato proprio nulla!); una politica per la casa attraverso un’agenzia territoriale (ci sono migliaia di appartamenti sfitti e migliaia di famiglie senza casa); superare o quanto meno ridurre gli steccati tra il centro e il resto della città, riportando la vita nelle periferie (“Portare il centro in periferia, non il contrario!”), il che deve tradursi in servizi là dove mancano o sono gravemente insufficienti, dai trasporti agli ambulatori, dalle biblioteche e alle farmacie, ma, infine, teorizzare come un diritto fondamentale e trascurato il diritto alla bellezza. Un diritto dal cui godimento sono escluse troppe fasce sociali, proprio quelle che ne avrebbero particolarmente bisogno e che da esso trarrebbero i maggiori benefici. Insomma, Torino è una città in decadenza che attraversa un momento assai problematico: il rischio è che finisca o nelle mani della destra (e sarebbe la prima volta nella storia cittadina, nella Repubblica), oppure ritorni al PD, che ha avviato il processo di decadenza, sotto i vessilli ingannevoli del turismo e della internazionalizzazione. Le differenze fra le classi si è accentuata, la città si è ridotta a una condizione medievale, con fossati che separano le zone urbane che delimitano a loro volta le classi sociali, e via via che ci si allontana dal cuore di Torino si perdono diritti, possibilità, benefici… Si tratta di ricostruire una comunità, e darle un senso. Che non è quello semplicemente dell’appartenenza ma piuttosto quello della volontà di contribuire al comune benessere: a fare della politica la scienza della buona amministrazione, ma in grado di “pensieri lunghi”. Se la piccola grande rivoluzione che ho in mente non dovesse realizzarsi, rimarrebbe in me non il rammarico del fallimento, ma piuttosto la speranza di aver spostato l’asse della discussione (in effetti da quando ho lanciato le mie parole d’ordine abbiamo constatato che le forze avversarie ne hanno ripreso, strumentalmente, diverse), e di aver tentato di riportare la sinistra alla gestione della città. E ancor più, rimarrebbe la soddisfazione, comunque vada, di aver lavorato per unire le sparse membra della Sinistra, rilanciandone l’azione, fornendo un modello che qualcuno ha seguito, qualcun altro ho abbandonato facendo prevalere (Roma, Bologna, Milano…) logiche separatiste, velleitarismi identitari e una idea della politica come mera testimonianza. Noi abbiamo fatto un altro percorso e il risultato lo si vedrà, se non a lungo termine, quanto meno a medio termine. In ogni caso, da Torino giunge un messaggio: Occorre dar vita a un’altra storia. Qualcuno vorrà raccoglierlo?

Jean-Paul Belmondo

Goffredo Fofi, Avvenire, 7 settembre 2021 I funerali di Jean-Paul Belmondo, morto lunedì all'età di 88 anni, si svolgeranno venerdì a Parigi nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Lo ha annunciato l'avvocato dell'attore, Me Michel Godest. La cerimonia avrà luogo alle 11. Le spoglie dell'attore saranno poi cremate. Il giorno prima, giovedì, l'Eliseo ha annunciato che gli verrà tributato un omaggio nazionale nel complesso degli Invalides. Tre erano i giovani attori che si imposero alla fine degli anni Cinquanta nel rinnovamento del cinema francese, nella rivolta della Nouvelle Vague contro il “cinema di papà”: Belmondo il più “nuovo”, Alain Delon il più bello (che “esplose” sullo schermo grazie a due grandi registi italiani uno dei quali molto “classico”, Visconti e Antonioni) e Laurent Terzieff il più bravo e il più sfortunato, che ebbe delle piccole rivincite come attore teatrale. Ma se Delon, pur bravo, si muoveva nella tradizione degli attor giovani del cinema classico, fu Belmondo a catturare l’aattenzione dei giovani critici, irriverente, aggressivo, spavaldo, e soprattutto ribelle alle convinzioni sociali, nella scelta di una quasi marginalità dei suoi primi personaggi, e non solo. E il ruolo costruito su di lui da Jean-Luc Godard nel 1960 in A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) fu decisivo, seguito da quello di Pierrot le fou, per la sua affermazione. Fu “nuovo” anche nei film italiani in coproduzione (una bellissima tradizione persa da tempo) come La viaccia di Bolognini, Lettere di una novizia di Lattuada, e perfino La ciociara di De Sica, dove era il pretino buono che incantava la figlia della ciociara. Senza dimenticare Mare matto di Castellani, sfortunato tentativo di narrare la gente di mare, dove era al fianco di una insolita Lollobrigida. Aveva già fatto credibilmente il prete nel bel film di Melville Léon Morin prete, dal dimenticato (e bellissimo) romanzo di Béatrix Beck sull’amicizia, non l’amore, tra una giovane e un prete nel mezzo dell’occupazione prima italiana e poi tedesca di una cittadina meridionale. La simpatia suscitata dalla sua spavalderia lo portò naturalmente al cinema poliziesco e d’avventura, il più fortunato di tutti i tanti film del genere fu L’uomo di Rio di Philippe de Broca, e poi Cartouche, in costume, ma fu ancora Melville a cucirgli addosso i panni di un antieroe simenoniano, in Lo spione e in Lo sciacallo, e fu in quest’ultimo che dette forse la sua migliore interpretazione. In Borsalino, un poliziesco alla marsigliese però in costume d’anteguerra, ebbe a fianco Delon, e il film spopolò, segnando il definitivo trionfo dei volti nuovi del cinema francese. La Nouvelle Vague non spaventava più, e i suoi registi e i suoi attori rientravano rapidamente nell’ordine del commercio e del successo. Belmondo era simpatico ed era bravo, e aveva avuto qualche esperienza teatrale e di scuola, prima che Godard lo scoprisse. E per il resto della sua carriera fu sempre un solido professionista senza grilli in capo, che seppe servirsi del suo aspetto e del suo fisico ma che era tutt’altro che rozzo culturalmente. Furono tanti a paragonarlo con il Gabin degli anni trenta, di cui talvolta ripeté il cliché. Un altro incontro da non dimenticare fu quello con Truffaut, per La mia droga si chiama Julie, che era però uno di quei film dove finalmente Truffaut si liberava dal “buonismo” della serie di film sul giovine piccolo-borghese perbene Jean-Pierre Léaud, e restano i noir i suoi film meno invecchiati. Da ultimo, divenuto un’icona dell’immaginario francese, Belmondo, come era accaduto a Gabin, prese a gigioneggiare, a imitare Belmondo. Ma al suo volto irregolare e al suo ghigno ci si era affezionati, il grande pubblico come i cinéphiles, fedeli questi all’immagine che ne aveva consegnato per sempre Godard, nella storia del cinema, nella storia del costume, nella storia dell’immagine del maschio nella cultura del Novecento.