Sandra Petrignani, Le donne di Pablo, Il Foglio, 2 maggio 2016
Dee o zerbini: fra queste due categorie ondeggiava l’idea che Picasso aveva delle donne e, quando s’innamorava perdutamente di una dea, faceva di tutto per trasformarla in zerbino. Ci riusciva sempre, non ci fu essere femminile che passò indenne attraverso una seria relazione con lui. Le adorava le donne, le condizionava, le manipolava, le tradiva, le costringeva a confrontarsi una con l’altra, le disprezzava, le distruggeva, le disegnava, le dipingeva, le ritraeva, le ritraeva, le ritraeva. Si può seguire la cronologia dei suoi amori guardando l’opera: Olga, Thérèse, Dora, Françoise, Inès, Jacqueline, e le altre. Quando le abbandonava, spesso lo perseguitavano, lo pedinavano, facevano irruzione in casa sua, non lo lasciavano in pace pretendendo ancora qualcosa da lui, lui che le aveva umiliate e scacciate. Diceva: “Se avessi dovuto cambiare casa ogni volta che le donne litigavano per me, non avrei avuto tempo di fare altro nella vita”.
Esistono diversi video, tratti la maggior parte dal documentario del 1954 di Luciano Emmer, “Pablo Picasso a Vallauris”, che lo mostrano al lavoro. In alcuni di essi lo si vede volteggiare con grazia femminea intorno alle tele, un folletto leggero e veloce capace con una pennellata di cambiare in senso totalmente imprevisto la direzione del disegno, l’armonia del colore. Indossa le sue famose magliette a righe, marinaresche, o pesanti pullover, oppure è a torso nudo con pantaloni corti e larghi che gli lasciano scoperte le gambe muscolose, ben fatte. Nel film “Il mistero Picasso”, di Henri Clouzot, del 1955, il regista coglie un aspetto tenero e infantile dell’artista settantaquattrenne. Picasso accetta di dipingere una delle sue figure tipo, un gufo coloratissimo, a prova di cronometro. Alla fine scrive con lettere giganti sulla tela bianca il proprio nome, lo sottolinea, si gira, allarga le braccia e, come uno scolaretto alla lavagna, dice semplicemente, sorridendo: ”Ho finito”, soddisfatto di aver superato la prova. La voce è fonda, potente, come tutto in lui, da lui si diffonde – sempre – un’ammaliante energia, da vecchio e da giovane, che dipinga o sorrida o faccia il broncio.
E’ indubbiamente attraente, e molto, a dispetto di qualsiasi canone: non era un uomo slanciato, anzi era tozzo, la testa un po’ incassata nelle spalle, eppure sprigiona quella forza allegra e determinata, una sinuosità ipnotica, una grazia unica. Di ipnotico aveva – questo lo dicono tutti, uomini e donne che lo hanno conosciuto, e lo dicono le mille fotografie che lo ritraggono – soprattutto gli occhi. Scurissimi, duri ma carezzevoli, diretti e ironici. Facevano un bell’insieme strafottente con la bocca dalle smorfie irridenti. Era sempre circondato da adoratori, donne innamorate, perdigiorno, adulatori, ma – come ogni artista che si rispetti – era profondamente solo. Diceva: “L’oscurità deve essere completa ovunque, eccetto che sulla tela, perché il pittore sia ipnotizzato dal suo lavoro e dipinga quasi come fosse in trance. Deve restare il più possibile chiuso nel suo mondo interiore, se vuole trascendere i limiti che la sua ragione tenta costantemente d’imporgli”. Diceva: “Ogni poeta, ogni artista è un individuo antisociale. Non perché lo voglia, ma perché non può proprio fare diversamente”. E sua madre, Maria, diceva di lui: “Nessuna donna, penso, potrebbe essere felice con mio figlio. Appartiene solo a se stesso”. E forse un poco a lei, di cui aveva scelto il cognome (il padre si chiamava José Ruiz y Blasco, anche lui pittore, ma il bisnonno materno, Tommaso Picasso, era stato un artista di una certa importanza del primo Ottocento). Forse l’amore per la madre non c’entrava niente, forse gli piaceva solo il suono di quel nome più raro e fastoso del semplice Ruiz. Un aspetto decisivo del carattere di Pablo fu senz’altro la capacità di promuoversi, creare un personaggio, aureolarsi di genialità. E per questo aveva bisogno di avere una corte intorno, quanto di poter restare solo ogni volta che lo desiderava.
A volte, a Parigi, nel suo salotto sempre affollato, prendeva per mano una bella ragazza venuta per conoscerlo al numero 7 di rue des Grands-Augustins – dove abitò per vent’anni – e la portava nel suo studio al piano di sopra “per mostrarle i sui quadri” senz’altra giustificazione verso tutti gli altri, che smaniavano di vedere il suo lavoro e ne restavano offesi e ingelositi. Nello studio, le donne, le corteggiava, le provocava, le studiava, le spogliava, prometteva un ritratto, le interrogava, le ascoltava, qualche volta s’innamorava. Forse evocava per loro la celebre novella di Balzac “Il capolavoro sconosciuto”, da lui stesso illustrata, ambientata proprio a quel suo stesso indirizzo, una storia che lo aveva sempre turbato per ciò che diceva della tormentosa insicurezza dell’artista di arrivare al centro dell’opera, per la conturbante presenza femminile, per la gelosia delle modelle che si sprigionava fra maschi, per quel finale sconsolato, soprattutto, con il pittore incontentabile, Frenhofer, che prima di morire brucia tutti i suoi dipinti. Sarebbe stato difficile a Picasso, bruciare tutta la sua pittura, tanti furono i suoi lavori. Si contentò di bruciare le persone, uomini e donne, amici e nemici. Ma soprattutto le donne. Diceva: “Quando dipingo il fumo, voglio che uno possa piantarci un chiodo”, lui i chiodi li piantava nei cuori di cui faceva strage.
La più famosa delle sue vittime è senz’altro Dora Maar, anche la più dotata e certamente fra le più belle della sua generazione (la racconta Osvaldo Guerrieri nel romanzo “Schiava di Picasso”, di prossima uscita per Neri Pozza). Fu lei, fra l’altro, a trovargli la casa ai Grands-Augustins. Aveva gambe lunghe, mani affusolate, occhi grigi inguaribilmente malinconici, un’espressione serissima stampata sul volto classico e la sua voce, dicono, era indimenticabile, come un canto. La leggenda vuole che Picasso restasse soggiogato da un gioco che lei faceva, seduta ai Deux Magots, il famoso caffè parigino, la seconda volta che la vide. La mano guantata e appoggiata al tavolino con le dita divaricate, pugnalava con un coltello lo spazio vuoto fra un dito e l’altro ferendosi di tanto in tanto, ma senza fermarsi. Era il 1935, Dora aveva ventotto anni, Pablo era un cinquantaquattrenne già provvisto di moglie (Olga Chochlova, ballerina di Djaghilev, da cui aveva avuto un figlio, Paulo) e di un’atletica, bionda compagna, Marie-Thérèse Walter, relazione da cui era appena nata una bambina, Maja. Picasso conserverà per tutta la vita i guanti sforacchiati da quel rito carbonaro ai Deux Magots. Quando ritrae Dora, le disegna sotto le ciglia, la maggior parte delle volte, grandi lacrime che le rendono gli occhi stellati. “Io sono la donna che piange” dice lei “sono l’idea stessa del dolore, il mio, il suo, quello del mondo”. Quando si conoscono, lei è una fotografa stimatissima, di vero talento. Era stata la compagna di Georges Bataille, che l’aveva introdotta in ambiente surrealista influenzandone il lavoro. Era diventata amica di Breton, di Eluard, di Man Ray che la fotografa nuda rivelandone la delicata bellezza. Le fotografie di Dora sono innovative, profonde: usa il collage, è attratta dai diseredati. Ma Picasso non apprezza, ci vede dentro qualcosa di De Chirico, che detesta, e la convince ad abbandonare la fotografia per la pittura. Nella pittura Dora non eccelle e lui la critica: “Tanti segni per non dire niente”.
Le infinite crudeltà e umiliazioni che riversa su questa artista singolare, da tutti definita intelligentissima, nei quasi nove anni di relazione, fanno pensare all’attrazione e insieme al panico che lo specchiarsi nella nevrosi di lei produceva in lui. Picasso non sopportava l’infelicità, però riusciva sempre a provocarla. Faceva leva sui risvolti masochisti degli altri per praticare un sadismo che forse placava antiche personali ferite. Ma aveva liquidato quelle ferite una volta per tutte con la pittura cupa del suo “periodo blu”, quello dei vent’anni, in cui non aveva ancora le idee chiare e non aveva trovato una sua collocazione nell’arte e nella vita. Non è un caso che abbia prodotto “Guernica” durante la sua relazione con Dora Maar, ed è Dora Maar a stimolarlo a fare il quadro e a seguirne le fasi di lavorazione immortalandole in un servizio fotografico per cui ha temporaneamente ripreso in mano il suo strumento, la macchina fotografica. “Guernica” è il grande canto della sofferenza umana, della violenza cieca, della devastazione della guerra, dell’impotenza delle vittime. E il profilo di donna che spinge al centro del quadro una lampada a olio, simbolo di una luce che arde nonostante tutto, è ancora una volta quello di Dora: la bocca dolorosa, il naso greco, l’occhio umido di pianto.
Quando lui la lascia, in un modo beffardamente offensivo, portandole in casa (con lei non aveva mai voluto convivere) la nuova fiamma – una giovanissima pittrice, Françoise Gilot, futura madre di altri due figli, Paloma e Claude – tutti a Parigi pensano che si suiciderà. “Anche Picasso se lo aspettava” commenta la stessa Maar. “Il motivo principale per cui non l’ho fatto è stato privarlo della soddisfazione”. Però il dolore quasi la distrugge, finisce in clinica psichiatrica, subisce una serie di elettroshock, poi la salva Lacan, medico personale di Picasso, e anzi è lui stesso a chiedergli di intervenire (Picasso si rivolgeva a Lacan per se stesso e per le persone che amava anche solo per curare un’influenza). Jacques Lacan la incoraggia a seguire un suo delirio religioso e a riprendere la fotografia: e Dora, che ormai si veste sempre di nero, lo farà allo scoccare dei settant’anni, quando ancora le manca un ventennio per concludere la sua lunga vita. Si sarà almeno goduta la fine (molto prima della propria) del suo persecutorio amante, e quella – quattro anni dopo la morte di lui – di Marie-Thérèse che s’impiccò, e tredici anni dopo quella dell’ultima compagna di Picasso e sua seconda moglie, Jacqueline Roque, che scelse per farsi fuori di spararsi alla tempia. Olga era morta da molto tempo, più semplicemente di cancro. Tutte avrebbero potuto condividere il lapidario commento di Dora Maar: “Non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone”.
L'unica a riuscire a non farsi abbandonare, ma ad abbandonare lei un Picasso di oltre settant’anni, che la tradiva ripetutamente, dopo una relazione decennale e la nascita di due figli, fu proprio Françoise Gilot, che involontariamente era stata la causa dell’affondamento depressivo di Dora. Abbiamo da lei un racconto in prima persona, scritto in collaborazione con il giornalista Carlton Lake, “La mia vita con Picasso”, che risale al ’64 ed è stato ora tradotto da Donzelli. La foto di copertina, di Robert Capa, immortala un momento ironico e spavaldo di questo amore: il pittore segue con un ombrellone da spiaggia, per proteggerla dal sole giocando a fare il suo schiavo, la bella compagna sui trent’anni, che avanza nella sabbia. Purtroppo, anche se sono lodevoli il tono non recriminatorio e lo sforzo di mantenere il memoir su un piano di oggettività, dando risalto al rapporto di Picasso con la propria arte e con l’arte dei suoi contemporanei, con cui era costantemente in conflitto, Gilot non è abbastanza sottile ed è troppo cattiva scrittrice per illuminare il mistero Picasso, le tante ombre della sua esuberante personalità, e tentare un’interpretazione del carattere e del genio dell’uomo e dell’artista. Anche sulle proprie motivazioni è troppo reticente, contentandosi di riassumere la sua attrazione verso quel seduttore eccessivo in una spiegazione che almeno è spiritosa: “Un genere di catastrofe che non desideravo evitare”.
Ripercorriamo così fatti e misfatti sentimentali del grande Pablo con Olga, Thérèse, Dora e compagnia, scopriamo i suoi intrattenimenti ancillari con la succube bellissima Inès, sua domestica adorante e riservatissima, inorridiamo per la mancanza di tatto e la brutalità nel destreggiarsi fra l’una e l’altra delle sue amanti, ex o in carica, e finiamo con il condividere una delle convinzioni che Gilot ci garantisce appartenere al suo tempestoso compagno: “La vita, in fondo, non è che un cattivo romanzo”. Non si può che concludere, alla fine, che il vero amore di Picasso era Pablo Picasso, per un verso eroico combattente di una guerra senza quartiere con le sue tele, i colori, le forme, le prospettive contemporanee dei vari lati di un viso, di un corpo e, per l’altro, spirito vigliacchissimo nella vita quotidiana, nell’inevitabile confronto con la malattia, lo stress, le beghe, la socialità. Per fortuna il racconto di Françoise Gilot, modesta pittrice cui il confronto costante con un genio fece forse più male che bene, distilla inevitabilmente qualche ricordo dei ragionamenti di Picasso sulla propria pittura. Come questo: “Io non cerco di esprimere la natura, preferisco piuttosto lavorare come la natura, perché la pittura non è una questione di sensibilità, ma un’affermazione di potere per sostituirsi alla natura”.
E ancora: “Il colore è qualcosa che va al di là di se stesso. Un colore non deve avere necessariamente una forma definita. Quello che importa è la sua capacità di espansione”. O quando, pensando alle differenze fra lui e Matisse (uno dei pochissimi contemporanei che veramente stimava) dice: “Io uso il linguaggio della costruzione e in maniera abbastanza tradizionale, la maniera di pittori come Tintoretto o El Greco. Il fatto che in uno dei miei dipinti vi sia una certa macchia di rosso, non vuol dire che essa costituisca la parte essenziale del quadro. Il quadro è stato dipinto indipendentemente. Togliendo il rosso, il quadro esisterebbe ugualmente. Ma in Matisse è impossibile sopprimere un rosso, per minimo che sia, senza che il quadro venga del tutto compromesso”. E di Bonnard: “Non è assolutamente un pittore moderno: obbedisce alla natura, non la trascende”.
Come nelle corride, che apprezzava tanto, Picasso era uno che amava vedere scorrere il sangue, sempre e comunque, con le donne, con i critici, con gli altri pittori. Per questo se l’intendeva bene con la grande amica Gertrude Stein, che tenera non era con nessuno. Con Chagall, invece, c’erano divergenze insormontabili, ma un profondo rispetto che ben si riassume nel giudizio: “Che genio quel Picasso. Peccato che non sappia dipingere!”. Ma forse la battuta che meglio interpreta i sentimenti della nostra epoca verso l’opera di quest’uomo estremo in tutto, la si deve a Philippe Daverio: “Di Picasso non mi frega niente, ma mi piace moltissimo”.
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