mercoledì 30 novembre 2022

Il suicidio di Septimus

 

 

Durante la festa da lei organizzata Mrs Dalloway sembra accorgersi della maschera che da sempre indossa e che si è imposta nel momento in cui ha sposato Richard Dalloway: una signora dell'alta società, educata e controllata. Si accorge che sposando Mr Dalloway oltre al cognome ha perso anche la propria identità individuale, o forse si rende conto di aver sempre nascosto la sua vera identità a causa delle imposizioni della società. Da qui scaturisce il ricordo dell'amicizia con Sally, intensa, profonda e autentica, in cui forse solo per poco è emersa la vera Clarissa. Proprio per questo Mrs Dalloway ha timore di questa vecchia amicizia con una donna forte, libera e indipendente che ha sposato un uomo di basso rango, Sally incarna tutto quello che lei non riesce ad essere e che vorrebbe essere, o meglio che forse un tempo voleva essere. Ed è qui che interviene la catarsi durante la festa la moglie del Dr Bradshaw racconta del suicidio di un uomo, Septimus (altro protagonista del romanzo), sconosciuto a Clarissa. Sentendo la storia, la donna prova un specie di empatia, riconoscendosi nel gesto di liberazione dell'uomo. Questo è il punto di connessione tra Clarissa e Septimus, e culmine del romanzo.
Alessandro Cane

Come viene propriamente raccontato il suicidio di Septimus?  Il romanzo è scritto in terza persona, ma non c'è una sola voce narrante. Normalmente il discorso riflette un punto di vista che è quello del personaggio principale, Clarissa Dalloway. Septimus Warren Smith è l'altro personaggio di assoluto rilievo. E' lui a parlare del suo suicidio, prenendo la parola a un certo punto. Una trentina di pagine più in là, assistiamo a una ripresa del medesimo fatto in forma di notizia. La signora Dalloway si confronta con il tema della morte. 
Giovanni Carpinelli

Il suicidio di Septimus

Septimus la sentì che parlava a Holmes dalle scale.
"Ma, cara signora, sono venuto da amico" diceva Holmes.
"No, Non le permetterò di vedere mio marito", disse lei.
La vedeva, era una chioccia con le ali spiegate a sbarrare il passaggio. Ma Holmes insisteva.
"Ma cara signora, mi permetta... " diceva Holmes, e la spingeva da parte. Holmes avrebbe detto: "Ha paura, eh?". Holmes l'avrebbe raggiunto. No: né Holmes, né Bradshaw. Si tirò su, incerto sulle gambe, e barcollando da un piede all'altro, prima prese in considerazione il coltello della sinora Filmercon la scritta "Pane" incisa sul manico. No, meglio non sciuparlo. Il gas? Era troppo tardi. Holmes stava arrivando. Avrebbe potuto prendere il rasoio, ma Rezia [la moglie], che pensava sempre a queste cose, lo aveva già impacchettato. Non rimaneva che la finestra, l'ampia finestra della casa di Bloomsbury; la faticosa, incresciosa e piuttosto melodrammatica faccenda di aprire la finestra e buttarsi di sotto. Era la loro idea di tragedia, non la sua, né di Rezia (perché lei era dalla parte sua). A Holmes e Bradshaw piacevano quel genere di cose. (Si sedette sul davanzale.) Avrebbe aspettato fino all'ultimo momento. Non aveva voglia di morire. La vita era bella. Il sole caldo. E gli esseri umani? Un uomo che scendeva dalla scala di fronte si fermò, e lo fissò sbalordito. Holmes era ormai alla porta. "Lo volete voi!" gridò, e si buttò di sotto con tutte le sue forze, con violenza, giù sulla cancellata del giardinetto della signora Filmer. (traduzione di Nadia Fusini, come per il brano successivo).

La reazione di Clarissa

Con la voce abbassata, attirando la signora Dalloway nel rifugio della comune femminilità, del comune orgoglio che entrambe provavano per le illustri qualità dei loro mariti, e la loro tendenza a lavorare troppo, Lady Bradshaw (povera oca - in fondo non era così male) le sussurrò che proprio mentre stavano per uscire, era stato chiamato al telefono; un caso molto triste. Un giovane uomo (è quello che Sir William sta raccontando alla gente o al signor Dalloway) si è ucciso. Era stato in guerra. “Oh… Nel bel  mezzo della mia festa, ecco la morte” pensò.
[...] Che bisogno avevano i Bradshaw di parlare della morte alla sua festa? Un giovane s'era ucciso. E ne vengono a parlare alla mia festa i Bradshaw parlavano della morte. S'era ucciso - ma come? Reagiva sempre così, quando d'improvviso qualcuno le raccontava una disgrazia: il vestito andava in fiamme, , il corpo le bruciava. Si era buttato dalla finestra.. D'un lampo il suolo era sfrecciato in alto; alla cieca, le punte rugginose dell'inferriata l'avevano infilzato, trafitto. Giaceva lì per terra col cervello che batteva, bun, bum, e poi un gran nero lo soffocò. Lei lo vide così. Ma perché l'aveva fatto? E i Bradshaw ne venivano a parlare alla sua festa!
Lei una volta aveva buttato uno scellino nella Serpentine, niente di più. Ma lui aveva scaraventato via tutto. Loro (aveva pensato tutto il giorno a Bourton, a Peter, a Sally), loro invecchiavano. Ma una cosa c'era che contava, una cosa infestata di chiacchiere, sfigurata, offuscata nella sua stessa vita, che ogni giorno lei lasciava cadesse nella corruzione, nella menzogna, nelle chiacchiere. Questa cosa lui l'aveva preservata. La morte è una sfida. La morte è un tentativo di comunicare: la gente sente l'impossibilità di raggiungere il centro che misticamente ci sfugge; così ciò che è vicino si allontana; l'estasi svanisce; si resta soli. Nella morte c'è un abbraccio.
Ma quell'uomo giovane s'era ucciso . s'era buttato tenendo stretto il suo tesoro? "Se dovessi morire ora sarebbe la perfetta felicità" s'era detta una volta, scendendo le scale vestita di bianco.
[...] Strano, incredibile. Non era mai stata tanto felice. Non c’era niente che fosse abbastanza lento, niente che durasse abbastanza a lungo. Non c'era piacere, pensò, raddrizzando le sedie, rimettendo a posto un libro nello scaffale, che eguagli il senso di averla fatta finita coi fasti della giovinezza, di essersi perduta nel corso della vita, per ritrovarla ora, con un brivido di gioia, al sorgere del sole, al calare del giorno.

venerdì 25 novembre 2022

Leone Ginzburg a Torino

 
 
 

 
Elisabetta Pagani, A Torino l'archivio di Leone Ginzburg, "Dobbiamo difendere l'antifascismo, La Stampa, 25 novembre 2022
 
«Il russo di Torino». Così era stato affettuosamente soprannominato Leone Ginzburg dai suoi amici. «Un soprannome eloquente» osserva il figlio Carlo. Un soprannome in cui è condensato il suo fortissimo legame con la città. «Perché Torino fu decisiva per la sua formazione, per la rete di amicizie costruite, per la partecipazione alla fondazione della casa editrice Einaudi». E fu centrale «nella sua attività politica clandestina contro il Fascismo e nella sua attività intellettuale». Ecco perché, ora, Leone Ginzburg "torna" a Torino.
I figli Carlo e Alessandra hanno deciso di donare l'archivio del padre - composto da lettere, manoscritti e documenti «in gran parte inediti» finora custoditi dalla famiglia - alla Fondazione Polo del '900, che già ospita quelli di altri protagonisti del Novecento come Primo Levi e Piero Gobetti.
Il nucleo più consistente riguarda il carteggio tra Leone Ginzburg e la moglie e scrittrice Natalia Levi. «Sono le lettere che si scrissero prima e dopo il matrimonio - racconta il figlio Carlo, che aveva 5 anni quando nel 1944 il padre morì nel carcere di Regina Coeli -. Lettere di quando era in prigione, degli anni della promulgazione delle leggi razziali che gli tolsero la cittadinanza (ottenuta nel '31), del confino a Pizzoli, in Abruzzo. Presto dovrebbero essere pubblicate» aggiunge sottolineando i contatti avuti con Domenico Scarpa del Centro Studi Primo Levi.
A questo prezioso materiale si sommano le missive scritte a Norberto Bobbio, le cartoline inviategli da Benedetto Croce, un quaderno di appunti del 1921 e una novella inedita del 1925 «che gettano luce sulla sua sorprendente precocità», oltre alla traduzione di Taras Bul'ba di Nikolaj Gogol' e ad appunti su saggi come La tradizione del Risorgimento, che «mostrano le correzioni che apportava, il suo modo di lavorare».
«Donare questo archivio nell'Italia di oggi, che per la prima volta dal Dopoguerra ha un governo di destra, significa difendere la Repubblica nata dalla Resistenza, nel presente e nel futuro - spiega Carlo Ginzburg -. Un punto va subito chiarito: non siamo di fronte a un risorgere del fascismo, ma non possiamo nascondere che l'antifascismo rischia di essere cancellato e di sparire dalla coscienza delle prossime generazioni. Mi pare - prosegue lo storico - che ci sia un processo che è già cominciato da parte della destra per cancellare questo legame e a cui bisogna guardare con vera preoccupazione. Il ruolo di Mattarella è fondamentale. Vedo quello che vediamo tutti, una sinistra fragile e senza idee e un rischio per l'antifascismo. La situazione è grave. E il peggio secondo me deve ancora arrivare».
Leone Ginzburg dell'antifascismo è un simbolo. Nato nel 1909 a Odessa in una famiglia ebrea, colta, agiata e cosmopolita, arriva in Italia nel 1914, e a Torino negli Anni 20, quando frequenterà i licei Gioberti e poi D'Azeglio, con compagni come Bobbio e dove per l'acutezza e la cultura verrà definito discepolo maestro. E poi le facoltà di Legge e soprattutto Lettere. Più avanti, da docente, rifiuterà di giurare fedeltà al Fascismo. Vivrà anni da sorvegliato speciale, verrà arrestato due volte, la seconda nel 1943. «Morì in seguito alle torture. In carcere venne torturato dai nazisti. C'è la testimonianza di Sandro Pertini che lo incontrò con il volto sfigurato e a cui mio padre disse: "guai a noi se domani nella nostra condanna investiremo tutto il popolo tedesco. Dobbiamo distinguere tra popolo e nazisti"». Una frase che risuona ancora più forte in tempi di guerra tornata nel cuore dell'Europa. «C'è solo un modo per leggere quella frase - sottolinea il figlio Carlo - ed è pensando al futuro dell'Europa. Mio padre si sentiva cittadino europeo. Partecipò alla diffusione del Manifesto di Ventotene. E si sentiva italiano. Come ricordò Vittorio Foa entrò in clandestinità solo dopo aver ottenuto la cittadinanza».
Ora l'archivio di Ginzburg prenderà forma al Polo del '900, che vuole condividerlo e valorizzarlo. «Abbiamo iniziato il riordino del materiale. In tutto sei scatoloni - racconta il figlio Carlo - e presto lo porteremo qui. Con questo passaggio non si chiude un cerchio ma si apre una spirale. Che continuerà con la pubblicazione del carteggio fra i miei genitori e proseguirà con altri progetti». —

domenica 13 novembre 2022

Kherson ucraina

 

 


Paolo Brera, Kherson torna in Ucraina. L'arrivo dei soldati di Kiev festeggiato nelle strade, La Repubblica, 12 novembre 2022

Centinaia di bandiere gialle e blu sventolano in piazza Svobody, “libertà”. Kherson, per otto mesi occupata, ieri è tornata libera. La gente esce incredula dagli scantinati, dagli appartamenti in cui ha vissuto blindata, e si aggrappa alle divise dei primi incursori ucraini, sbucati in centro con una jeep militare. Sono sempre di più. La folla solleva di peso una soldatessa, urlando di gratitudine e di gioia. L’incubo è finito. Internet era bloccato e censurato, nella Kherson russa; ma i primi incursori che perlustrano le strade per non far rischiare un’imboscata alle retrovie riversano sui social le immagini della folla impazzita. Le auto strombazzano i clacson, ovunque rispuntano le bandiere ucraine. A ogni minuto qualcuno in più si convince che è proprio vero: i russi se ne sono andati, ora sono liberi. Dalle tre locali di ieri mattina, come ha ufficialmente annunciato la Difesa russa, «le nostre forze armate hanno completato il ripiegamento» attraversando il fiume Dnipro e abbandonando interamente la riva destra. La grande controffensiva attesa da mesi, negata come «propaganda» dagli scettici, è finita con la debacle di un completo ritiro. Così ordinato, però, da lasciare molte domande senza risposta. Quarantamila soldati russi intrappolati, con le linee di rifornimento tagliate e i ponti sul fiume sotto tiro degli Himars, erano l’occasione militare per una vittoria eclatante sul campo di battaglia, con la distruzione di armi e attrezzature e la minaccia di un bagno di sangue se non si fossero arresi. Invece i russi se ne sono andati senza perdite, dice il Cremlino. Il ponte Antonovsky e il suo sostituto di chiatte all’ombra dei piloni sono saltati in aria, ma sono stati i russi a demolirli una volta passati. Ora quei soldati specializzati, con una capacità offensiva quasi intatta, possono essere schierati su altri fronti, senza alcun vantaggio tattico per l’Ucraina. Se Kiev lo ha consentito, è probabile esista davvero un tracciato per uscire da questa guerra folle, o almeno per avviare una de-escalation. Ma qui e ora ci sono le centinaia di bandiere che sventolano a Kherson mostrando la bellezza, la dignità e l’orgoglio di questa gente che non si è mai arresa. Erano qui anche il 6 marzo: tre giorni dopo l’arrivo in città dei russi, entrati senza sparare un colpo per il tradimento di chi ha aperto loro le porte della città. Era domenica, gli ucraini le sventolavano davanti ai blindati e ai Kalashnikov che osavano violare le loro strade: «A casa, a casa», urlavano, «soldato russo vai all’inferno». Una settimana dopo “U-cra-i-na! U-cra-i-na!”, urlava la folla, e «soldato russo, occupante fascista». I primi spari, il primo gambizzato. Ma rieccoli la domenica successiva, il 21; solo un po’ meno perché il lupo ora li azzannava davvero. Arrivarono l’imposizione del russo come lingua ufficiale, il rublo come moneta di scambio, la caccia ai dissidenti. Eppure erano sempre lì, il 27 marzo, in piazza con le bandiere gialle e blu. E allora figurati se oggi potevano lasciarle a casa. Le hanno conservate ben nascoste, i deportati in Crimea di queste ultime settimane raccontano il terrore e le sparizioni, le perquisizioni e l’ansia di essere il contatto sul cellulare di un altro patriota acciuffato. Eppure non si piegarono, è in questa città che i partigiani hanno alzato la testa: hanno ucciso il deputato “traditore” Alexej Kovalov, un blogger propagandista, un attivista filorusso... Dietro i primi incursori, il grosso delle truppe avanza cautamente nelle stradine polverose e minate. Almeno due auto saltano in aria. In ogni paesino distrutto da mesi di guerra durissima spuntano come bucaneve i sopravvissuti, anziane babushke baciano i marcantoni in divisa, i bambini saltellano felici vedendo arrivare i Robocop in mimetica armati fino ai denti. La riconquista sarebbe velocissima, se non pagasse tributo a felicità incontenibili. Tutto il Paese è in festa, anche se non c’è un solo giorno davvero
sereno: ieri un missile russo ha centrato un palazzo a Mykolaiv, sette morti. Non è finita; tutti sanno che si chiude un capitolo, non il libro. Ma oggi è oggi: Konstantin Ryzhenko, giornalista di Kherson, lancia sui social la maratona della gioia: «Ragazzi postate la foto di come festeggiate la liberazione», ed è uno stupendo brindisi collettivo, prosecco e vino bianco, whisky e “Sangue degli orchi”. Sorrisi e ottimismo per tutti. A Odessa il centro è pieno di gente e slogan, di canti e bandiere. A Kherson si balla di notte. Ma è ora di voltare pagina, mentre sminatori e procuratori cercheranno di ripulire città e villaggi senza perdere traccia dei crimini. È già ora di tremare per la diga di Nova Kakovka, fortemente danneggiata: se venisse abbattuta, Kherson sarebbe allagata da uno tsunami.

sabato 12 novembre 2022

Trump sul viale del tramonto

 

 


 Alan Friedman, L'onda giovane dei democratici, La Stampa, 11 novembre 2022

Le elezioni di Midterm che si sono appena tenute negli Stati Uniti hanno un grande significato, sia per gli americani che per il mondo. In senso positivo. Un numero importante di "Negazionisti del voto" (i seguaci di Trump che proclamano ancora che il loro leader abbia vinto le elezioni del 2020) sono stati sconfitti alle urne. La famigerata "onda rossa" non è arrivata, la vittoria a valanga dei repubblicani non si è vista. Non ci si aspetta neanche che il prossimo Congresso limiti gli aiuti all'Ucraina. Lo sviluppo più plausibile per il momento è che il Senato rimarrà diviso a metà tra i due partiti, 50 e 50: il fatto che i Repubblicani non abbiano riportato un risultato migliore è sorprendente. Tutti si attendevano uno tsunami, e invece i democratici sono riusciti a difendersi. Il controllo del Senato dipende sui risultati di Arizona, Nevada, Wisconsin e soprattutto dal risultato di uno speciale ballottaggio per il seggio della Georgia, che si terrà il sei dicembre.
Passando alla Camera dei Rappresentanti, dove la Speaker Nancy Pelosi presiedeva una maggioranza democratica di 220 seggi su 435, a quanto pare il partito dell'asinello perderà giusto una manciata di seggi. I repubblicani otterranno la maggioranza, si, ma sarà così risicata da limitare la capacità di azione del successore di Pelosi, che non avrà un forte mandato e non potrà attuare molte delle minacce lanciate contro Biden. Kevin McCarthy, papabile Speaker repubblicano, ha per esempio suggerito di rivedere l'aiuto militare che viene fornito all'Ucraina. Ma è improbabile che, con una maggioranza parlamentare esigua, sarà davvero in grado di azzoppare l'attuale politica pro Ucraina di Biden. In effetti, la notizia forse più sorprendente è il numero – davvero molto basso – di seggi che i Democratici hanno perso alla Camera. Tutti i sondaggi prevedevano che i repubblicani avrebbero conquistato molte decine di nuovi seggi. Cosa che semplicemente non è successa. Anzi, queste elezioni di midterm potrebbero rappresentare il risultato più positivo per il partito di un presidente in carica da decenni.
Per avere un quadro di insieme: nelle ultime elezioni di Midterm, quelle del 2018, il partito repubblicano del presidente Trump ha perso 40 seggi alla Camera in favore dei democratici. Nel 2010 i democratici del presidente Barack Obama persero 63 seggi. Nel 2006, i repubblicani del presidente George W. Bush persero 30 seggi. Nel 2022 Joe Biden ne avrà persi tra cinque e dieci: si può pure dire che ne esca rafforzato. I risultati delle elezioni dimostrano in realtà che gli americani non l'hanno ripudiato. Dimostrano anche che molte donne sono così arrabbiate dalle decisioni della Corte Suprema contro l'aborto che sono andate a votare per i democratici. Dimostrano anche che il sostegno più robusto ai democratici è venuto dai giovani, dai ventenni e trentenni d'America. Com'è ovvio, i risultati sono anche lo specchio di una nazione che è profondamente divisa. I democratici hanno perso la Camera, ma questo non significa necessariamente che Joe Biden sia condannato a diventare un'anatra zoppa. I repubblicani cercheranno senza dubbio di rendergli la vita difficile non appena prenderanno il controllo della Camera, a gennaio. Cancelleranno la Commissione che cercava di far luce sull'insurrezione del sei gennaio, e al contrario faranno partire nuove indagini su Hunter Biden e sull'era Covid. Minacceranno di bloccare il processo di bilancio, di mettere pressione alla Casa Bianca. Potrebbero persino arrivare a richiedere l'impeachment per Biden. Tutto prevedibile.
Ma diciamo le cose come stanno: i repubblicani sono feriti, le elezioni di mid term sono andate male per loro, la marea che aspettavano non è montata, e alcuni dei candidati più estremisti scelti da Trump sono stati sconfitti. L'ex presidente stesso, che si trova adesso davanti alla concreta prospettiva di dover affrontare uno o più processi, è un leone ferito, arrabbiato e frustrato perché i suoi non hanno saputo far di meglio. Per i repubblicani è giunto il momento di guardarsi dentro, di cercare la propria anima, di decidere che partito vogliono essere. Trumpiano o post-trumpiano?
Ed è qui che entra in scena Ron De Santis. Il governatore della Florida è un quarantaquattrenne sveglio, uno che ha studiato a Yale. Lo chiamano il "Trump degli intelligenti", una versione di Trump più brillante, e perciò potenzialmente ancora più pericoloso. Ci sa fare. È carismatico. Ma Ron de Santis è sempre stato un estremista. Da tutta la vita. Un populista di estrema destra, così omofobo da far passare la legge "Non dire gay", e ha iniziato a licenziare migliaia di insegnanti, punibili se solo si azzardavano a pronunciare quella parola in classe. De Santis è un fondamentalista anti-aborto, un demagogo anti-immigrati. Sì, è tutte queste cose. Eppure ha un forte impatto su un partito repubblicano che si chiede se non sia finalmente arriva ta l'ora di girare pagina e lasciarsi alle spalle Donald Trump.
Dopo le elezioni di mid-term De Santis è adesso lo sfidante naturale di Trump per la nomination repubblicana del 2024. E questo lo mette contro The Donald, che al contrario esce indebolito dal responso delle urne. Possiamo quindi aspettarci nell'immediato futuro una Guerra dei Populisti, un duello tra De Santis e l'uomo da Mar-a-Lago. —

domenica 6 novembre 2022

Se il problema non è stare al gioco, ma vincere


Il Pd si è battuto sapendo di non avere tante probabilità di vittoria, è stato al gioco e ne è uscito con le ossa rotte. Dopo la sconfitta, ha mostrato di non aver capito la lezione. Ha continuato a reagire come se il problema fosse stato quello di esserci. Reazioni disordinate, infelici, perdenti. Reazioni pur sempre, si dirà. Ma qui si tratta di capire qual è il problema. Non si tratta solo di preservare le forze, si tratta di capire come è possibile recuperare la capacità di prevalere sull'avversario. Esserci in tal senso non serve a nulla, può addirittura provocare una caduta nei consensi e nelle prospettive di una rivincita. L'avversario non ha vinto mostrando la sua manifesta superiorità, ha vinto per la  manifesta debolezza degli oppositori che non hanno mai scelto di apparire come realmente minacciosi in quanto dotati di maggiore forza e determinazione. Forza e determinazione: il vincitore predestinato non è colui che ha dalla sua parte il senso della storia o il segreto del progresso per gli anni a venire. Il vincitore predestinato è colui che riesce a usare meglio le sue risorse e a impiegarle con profitto nelle battaglie decisive. Tra le risorse c'erano gli alleati possibili, il Pd ha scelto di battersi da solo e si sono visti i risultati. E poi c'è la questione dell'iniziativa. Che non è in linea di principio appannaggio di nessuno. Vince chi riesce a mantenere l'iniziativa. E quindi non si batte a ogni occasione, va allo scontro solo quando sa di avere buone probabilità di vittoria e intanto mantiene l'iniziativa. La destra, disponendo di un'alleanza adatta allo scopo, ha assunto l'iniziativa, mentre il Pd non ha neppure provato a contrattaccare in un modo credibile (la pancetta o il guanciale voleva essere una scelta ovvia e si è rivelata un boomerang). Per recuperare l'iniziativa, il Pd non deve caricare a testa bassa inseguendo i drappi rossi esibiti dalla destra. Deve decidere quando dare battaglia, e come, senza limitarsi ad aspettare le mosse dell'avversario. La sicurezza, per esempio, non sembra essere un terreno decisivo di scontro. Altra cosa è la condizione delle classi più disagiate. Altra cosa è la guerra in Ucraina. E qui non basta il galleggiamento in attesa di tempi migliori. Sull'Ucraina, per esempio, il Papa riesce a tenere insieme la resistenza al male e il perseguimento della pace. Sul terreno economico e sociale Calenda sviluppa un controcanto puntuale e efficace. Se non altra dà un'idea delle possibilità trascurate.