martedì 31 maggio 2022

Paul Kennedy sulla guerra

 
 

Alberto Simoni, Paul Kennedy "Putin non ha alcuna chance di vittoria presto bisognerà dialogare con 
Mosca".
La Stampa, 30 maggio 2022

Per Paul Kennedy, lo storico che nel 1987 con il suo «Ascesa e declino delle grandi potenze» ha fornito una chiave di lettura della storia e della Guerra fredda diventata un caposaldo della geopolitica, «l’errore da evitare è estrapolare il conflitto ucraino dal contesto globale». «È sicuro che fra sei mesi quando magari ci sentiremo per gli auguri di fine anno, non parleremo dell’Iran e della sua bomba atomica? Se mi avesse chiamato sei mesi fa invece avremmo parlato solo di Cina e ancora di Cina». Gli eventi passano, non le quinte che ne fanno da cornice poiché lo scenario è sempre «il mondo globale», è lì che si riverberano i fatti. La conversazione con Paul Kennedy avviene via Zoom. È collegato dal suo studio alla Yale University e più che un’intervista quella che fa con La Stampa, è una lezione che porta su binari inaspettati e rivela aneddoti. Come quando ricorda il sesto senso di Henry Kissinger: «Scovava talenti della politica europea e americana, un giorno mi invitò a un brunch a casa sua, l’ospite era una giovane politica originaria della Germania dell’Est: Angela Merkel. L’aveva scoperta prima di tutti». O ridendo dice che i cinesi sono oggi i più avidi lettori del suo saggio e che da lì arriva il grosso dei diritti d’autore. «Evidentemente si sentono veramente una grande potenza». 

Professore, cosa ha cambiato finora nello scenario europeo l’attacco russo all’Ucraina?

«L’invasione ha provocato “conseguenze non previste”: la Svezia e la Finlandia entreranno nella Nato, chi l’avrebbe mai pensato qualche mese fa. E chi avrebbe mai pensato a un governo tedesco a trazione social-democratica allontanarsi da Mosca e incrementare le spese militari».  

Come se ne esce?  

«Diffido da chi ha soluzioni pronto uso e dice che bisogna fare così o così. Ma penso che arriverà il momento in cui, ci sia Putin o meno al potere, bisognerà parlare con la Russia. Non possiamo escluderla per sempre o esiliarla in Siberia».  

Come si arriva a quel momento per evitare il “paradosso” della deportazione russa in Siberia?  

«Diciamo che se fossi un consigliere di Putin gli direi per prima cosa di chiudere questa disastrosa esperienza ucraina. Non c’è alcuna chance di vittoria, né di tenere parti dell’Ucraina. Serve un compromesso da ricercare probabilmente alle Nazioni Unite, in un luogo e con persone per definizione neutrali che possano trovare la miglior via per mettere fine a questo conflitto. Poi bisogna rivolgersi al popolo russo, in modo onesto, spiegando che pensavamo ci fossero un complotto e sentimenti antirussi in Ucraina, ma che ora un compromesso con Kiev è fondamentale. E credo che la maggioranza della popolazione sarebbe sollevata vedendo la fine del conflitto. I russi hanno visto i loro figli e i loro nipoti morire indossando la divisa di un esercito fiacco e inefficace. Così come i russi furono contenti di lasciare l’Afghanistan, lo saranno anche di uscire dall’Ucraina. Infine, c’è un aspetto legato alla ricostruzione, alla modernità se vogliamo. È fondamentale dare speranza e prospettive alla gente». 

In che modo? 

«Spendere tempo e risorse per migliorare il tessuto economico e sociale distrutto della Russia. Basta uscire 50 chilometri da Mosca o da San Pietroburgo e si entra in un universo di difficoltà, arretratezza, povertà. Ferrovie, negozi, magazzini, non c’è nulla che abbia un barlume di modernità, di attrattività. Il Paese è 80 anni indietro in termini di sviluppo sociale, culturale ed economico». 

Gli europei ragionano di difesa e sicurezza comune ma al dunque sembrano non arrivare mai. Si può essere potenza globale anche senzal’hardpower?  

«Sappiamo che fra i Paesi europei ci sono delle differenze e delle grandi e piccole rivalità, eppure vi è un sostrato culturale, una comunanza di vedute che va oltre il mercato unico, i commerci e il Pil; è quella la forza dell’integrazione che consente all’Europa di essere vista come una forza nel suo insieme nonostante appunto le differenze fra i Paesi membri». 

È sufficiente per essere una grande potenza del XXI secolo?

«Un budget per la sicurezza e un'integrata politica difensiva sono importanti, ma gli interessi nazionali e di campanile dei singoli Stati per ora prevalgono. Eppure, come ho detto prima, c'è qualcosa in più, appunto la comunanza culturale, che fa dell'Europa un attore importante. Merkel, ad esempio, è stata una interprete di questa visione».

L'ex cancelliera ha sempre tentato il dialogo e fatto affari con Putin. Ora in molti le rinfacciano quell'approccio.
 
«Non era l'unica a cercare un compromesso con la Russia. Fior di intellettuali, politici, media hanno sostenuto il dialogo fino all'ultimo. Merkel ha tentato per anni di portare la Russia sotto la stessa tenda europea, fatta di partnership e collaborazione. Qualcosa che va oltre i rifornimenti di gas o i legami economici finanziari».
La guerra in Ucraina ha saldato Usa ed Europa. Siamo in una dimensione di relazioni stabili fra le due sponde dell'Atlantico?
«Ritengo che siamo arrivati al punto massimo, il picco di positività nel rapporto fra Ue e Usa. C'è un nemico comune che ha unito anche i sentimenti, come se gli europei comprendessero meglio l'anima dell'America e ovviamente viceversa, nel nome di una sorta di "Noi non siamo come Putin"».
 
Quanto durerà questo clima positivo?
 
«Quando il collante russo si asciugherà le differenze fra Europa e Usa emergeranno. E le relazioni diventeranno molto complicate».
 
Perché?
 
«Se pensiamo in termini globali l'Europa ha un'agenda diversa da quella statunitense. Se invece ci soffermiamo sugli Stati Uniti ci sono segnali interni inequivocabili: gli Usa non prestano molta attenzione all'Europa e stanno andando in una direzione sbagliata. La prima è quella che ha imboccato il Partito repubblicano, qualcosa di sinistro persino di malvagio si è intrufolato in quel mondo. Sono proni a Trump. Il Gop ha perso la sua forte indipendenza, il suo atlantismo, il sostegno alle organizzazioni internazionali».
 
Ora però c'è un presidente democratico alla Casa Bianca che ripete "l'America è tornata".
 
«Sì, ma il partito ha svoltato a sinistra, è concentrato su temi specifici, l'inclusività e altre questioni – come l'aborto e il cambiamento climatico – e poco interessato alle relazioni con l'Unione europea o alla riforma del consiglio di Sicurezza dell'Onu o ad altre questioni di politica estera. Ecco perché quando la minaccia russa sarà svanita anche l'Europa sarà vista come un "animale sociale, culturale e politico diverso" dall'America. E non sarà semplice trovare punti di contatto». —

 


 

domenica 29 maggio 2022

Anime del Purgatorio


Claudio Corvino, Lo scambio sorprendente di memorie e desideri fra vivi e morti, il manifesto, alias, 28 maggio 2022

Incontrare la morte, riconoscerla e scendere a patti con lei, è un appuntamento al quale non possiamo mancare. È l’ovvio e imprevedibile fato che in questi mesi ritorna come un pugno nello stomaco, portato fin dentro le nostre case dai media, sia che scenda tonante dal cielo con missili kinzhal, sia che si nasconda in droplet sussurrati silenziosamente. Se la morte non è mai vissuta come evento ordinario, ancor più straordinario e scandaloso è quel morire collettivo visualizzato da immagini di fosse comuni o cortei di camion militari che in strade deserte trasportano i corpi dei contagiati.

Prima che si affermasse l’idea del Purgatorio, verso il XII secolo, gli uomini risolvevano il destino delle anime dei morti in guerra o durante una pestilenza immaginandoli come turbini di vento che soffiavano nell’atmosfera guidati da personaggi come Arlecchino e Diana, la domina notturna del cielo. Altre volte, com’è accaduto a Napoli, questa sorta di dannati rimanevano invischiati nelle reti sotterranee degli ipogei della città, dando vita a un vero e proprio culto che già lo storico Michel Vovelle definiva «di sorprendente stranezza».

LA POSTURA di questo raffinato studio sul culto dei defunti è già nella dedica del volume di Marino Niola Anime. Il purgatorio a Napoli, ripubblicato con una nuova introduzione da Meltemi (pp. 196, euro 18): «alle vittime del Covid / A coloro che se ne sono andati soli e senza conforto…». Quasi una dichiarazione d’intenti che suggerisce che le forme cerimoniali del passato possano ancora indicarci strade di senso per restare saldi di fronte agli eventi calamitosi dell’esistenza.

IL CULTO delle anime pezzentelle – da petere, chiedere, da cui anche pezzente – è una forma di devozione popolare verso i resti mortali che affollano gli ipogei delle chiese napoletane fin dalle pesti del XVII secolo. Il centro rituale studiato dall’antropologo napoletano consiste essenzialmente nell’adozione da parte dei fedeli delle vestigia mortali, i crani, conservati sotto varie chiese napoletane per attivare con loro uno scambio simbolico, facendo di questo anonimo exercitus mortuorum un’armata di spiriti tutelari. Siamo di fronte, scrive Niola, a una «pietas dei vivi che si prende cura delle povere anime, trasforma i mauvais morts in anime benefiche, soccorrevoli, e in grado di intercedere».

VENIAMO COSÌ accompagnati in un viaggio nella religiosità popolare napoletana, nelle poetiche e politiche di coloro che nella loro difficile vita – e spesso più facile morte – dividono con le anime pezzentelle la stessa sorte di marginalità, esclusione e perdita della memoria al mondo.
Vivi e morti, anime e corpi, si scambiano memorie e desideri in una forma di circolarità di maussiana memoria dove ad ogni spirale l’anima si fa più presente, si svela. Da anima sconosciuta, si ripresenta ai vivi attraverso segni e sogni, rivelando la sua precisa collocazione tra le montagne di ossa e teschi, dandosi un ruolo o un nome: il Signore Abbandonato, il Capitano, il Bambino con la testa piccola, Lucia, Francesco. Nessun cristiano d’altronde è nuovo a queste logiche, conoscendo già da secoli l’efficacia simbolica delle reliquie dei corpi santi.

IN QUESTO SCAMBIO simbolico tra vivi e morti, in queste memorie del sottosuolo – in «una sorta di trasduzione reciproca tra codici spaziali e codici temporali», scrive Niola – vediamo che ciò che sta sotto, diviene ciò che viene prima nel tempo. Siamo di fronte a una geografia della memoria che fa degli stessi morti i simboli e i custodi della durata.
Nella seconda parte del volume l’autore riporta una serie di interviste ai fedeli del culto, che attraverso storie, vite e sogni offrono un quadro caravaggesco di una potente fede che ha trovato nella città di Napoli il suo luogo d’elezione, la sua dimora.

QUESTI LUOGHI MISTERIOSI e affascinanti, queste sliding doors dell’aldilà, hanno acceso fantasie e curiosità di artisti e scrittori, alle cui opere è dedicata la terza parte del volume, Scritture: da Mayer a Mastriani, da Cecchi a Rebecca Horn, un’antologia necessaria perché, come scrive la curatrice Elisabetta Moro, «l’interrogazione antropologica di una cultura non può avvenire che prestando orecchio all’armonia complessiva delle voci che l’attraversano».

sabato 28 maggio 2022

Comunisti divisi sull'Ucraina

 

 

Dimitri Deliolianes, Ora la guerra di Putin divide anche la diaspora comunista nel mondo, il manifesto, 27 maggio 2022

L’invasione russa in Ucraina rischia di gettare per aria i faticosi tentativi dei partiti comunisti di trovare una nuova identità e forma organizzativa tre decenni dopo la fine dell’Unione Sovietica. Fermo restando che l’italiana Rifondazione comunista, il Pcf e il Pc spagnolo (che fanno parte della Sinistra europea) e il Partito comunista cileno hanno subito condannato l’invasione russa senza aspettare sollecitazioni, pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, 42 partiti comunisti ed operai e 30 organizzazioni giovanili hanno approvato un documento in cui si condanna l’invasione russa, considerata «imperialista». Tra i firmatari ci sono partiti deboli ed altri più consistenti. Per l’Italia hanno aderito il Fronte Comunista e il Fronte della Gioventù Comunista (fuoriuscita dal partito di Marco Rizzo); tra i partiti più consistenti si segnala il PC sudafricano. Non hanno firmato invece due partiti importanti come i comunisti dell’India e il Partito Comunista Akel di Cipro.

Più di recente, il giornale «Rizospastis», organo del Partito Comunista di Grecia (Kke) ha dedicato degli articoli di critica ai due partiti comunisti russi che non hanno sottoscritto il documento. I comunisti greci contestano ai compagni russi il supporto che offrirebbero a Putin e alla «guerra imperialista». Il partito russo che ha attirato i colpi più duri è stato il Partito Comunista Operaio della Russia (Pcor). Si tratta di un partito di dimensioni ridotte, a cui non è permesso presentarsi alle elezioni. Il Pcor concorda con i greci e gli altri partiti nel definire «imperialista» l’aggressione russa ma subito ci aggiunge che «l’intervento armato della Russia contribuisce alla salvezza della popolazione del Donbass». Per questo, il partito russo assicura che «non si opporrà a tale reale sostegno», al contrario, «nel momento in cui le condizioni hanno reso necessario esercitare violenza verso il regime fascisteggiante di Kiev, noi non ci opponiamo nella misura in cui ciò favorisce il popolo lavoratore».

Una presa di posizione piuttosto confusa. La confusione emerge anche dal fatto che l’organizzazione giovanile del Pcor ha invece aderito al documento dei 42, mentre la questione della guerra ha creato intensi scontri nella direzione del partito russo con le dimissioni di due membri dell’Ufficio Politico. La «deriva nazionalista», denuncia «Rizospastis», ha portato il Pcor a organizzare di recente una manifestazione «per la vittoria» insieme al movimento nazionalista «Altra Russia», l’erede del partito Nazional-Bolscevico di Limonov.

Più attenta la critica dei greci verso il partito russo più importante, il Partito Comunista della Federazione Russa (Pcfr), presente nella Duma e in vari parlamenti nazionali. Il Pcfr si è rifiutato di definire «imperialista» il conflitto, sostenendo che si tratta di una «guerra di liberazione nazionale contro l’internazionale del nazismo e il nuovo ordine degli Usa e della Nato». La Russia, sostengono i russi, «è uno dei Paesi più poveri d’Europa» quindi non si può usare il termine «imperialista», che peraltro «Lenin ha usato per la Grande Guerra», quindi del tutto «inappropriato» nell’attuale conflitto. A riprova aggiungono che «gli oligarchi russi si sono schierati contro l’operazione militare in Ucraina», dato che hanno subito «severe sanzioni». Sono i punti salienti della puntuale risposta del Pcfr alle accuse dei compagni greci. Accusati di sostenere Putin, i comunisti russi rispondono che è il presidente russo che ha ceduto alle loro pressioni ed è andato incontro alla «popolazione sofferente» del Donbass e di Lugansk, dove il Pcfr si vanta di avere «centinaia di militanti che combattono i nazisti». Aggiungono che il governo di Mosca ha tentato ripetutamente di mettere argine all’espansione della Nato ad est ma senza risultato. Oltre alle due regioni dell’Ucraina con popolazioni russe, i comunisti russi descrivono l’Ucraina come un paese totalmente in mano agli interessi occidentali, dove l’uso della lingua russa è proibito, come proibita è anche l’attività dei comunisti, mentre Kiev starebbe preparando in proprio armi nucleari e biologiche.

Quanto alle accuse greche di «flirtare con idee e forze nazionaliste», la risposta dei russi è tranciante: «Dichiariamo con orgoglio di essere la maggiore forza patriottica della sinistra in Russia». Alla fine della sua polemica risposta, il Pcfr esprime il suo «profondo rispetto verso il Kke, partito che ha contribuito come nessun altro alla rinascita del movimento internazionale ed operaio dopo il crollo dell’Urss». È un riconoscimento non formale. Se questa polemica ha un significato politico, questo consiste nel fatto che il Kke, (5,3% alle ultime elezioni) ha effettivamente svolto un ruolo di primo piano nell’aggregare e sostenere vari partiti comunisti in Europa e oltre. In Italia collaborava prima con il Partito Comunista di Marco Rizzo, la cui organizzazione giovanile Fgc fuoriuscita dal partito, appare tra i firmatari del documento internazionale.

Anche tale testo di condanna dei 42 partiti è stata opera dei comunisti greci, aiutati dai PC turco e messicano e dal Partido del Trabajo spagnolo. Ora che la guerra ha collocato i pilastri del comunismo postsovietico su posizioni diametralmente opposte il tentativo di ripresa deve superare un altro grande ostacolo.

 

 

domenica 22 maggio 2022

Verità e credenze

 

 

 

Vilfredo Pareto, Introduzione alla scienza sociale, capitolo II del Manuel d'économie politique, Marcel Giard Libraire-Éditeur, Paris 1927.

Gli autori non cercano quasi mai quale è la verità, ma cercano argomenti per difendere ciò che già credono essere la verità, e che è per loro articolo di fede. Ricerche di quel genere sono sempre, almeno in parte, sterili. E non solo gli autori seguono quella via perché involontariamente soggiacciono alle passioni; ma la percorrono per deliberato volere: né si ritengono dal biasimare acerbamente chi si rifiuta di ciò fare. Quante sciocche ed insulse accuse furono mai fatte al Machiavelli!  Tale difficoltà esiste pure per l'economia politica; e similmente le difficoltà che ora noteremo sono comuni all'economia politica ed alla sociologia. La maggior parte degli economisti studiano ed espongono la materia loro avendo in mente di giungere a una determinata mèta.

 

Tommaso Detti, L'oggettività della storia: istruzioni per l'uso, RSI, 22 novembre 2012

 Secondo un senso comune molto diffuso la storia dovrebbe essere obiettiva. Lo storico non farebbe altro che descrivere i fatti del passato e sarebbe la loro oggettività a rendere veritiere le sue ricostruzioni. Non è così. Se lo fosse, i nostri libri non sarebbero che racconti di eventi in successione, di cui i lettori potrebbero soltanto prendere atto. Agli studenti, poi, non resterebbe che imparare a memoria lunghe e noiose serie di date, nomi e luoghi.

A chi può interessare sapere che nel 1789 scoppiò in Francia una rivoluzione, se non aggiungiamo che quell'evento fu importante perché abbatté l'assolutismo, proclamò i diritti dell'uomo e del cittadino ed è una delle basi della democrazia moderna? Queste però non sono affermazioni oggettive: sono opinioni. Non a caso il dibattito sulle interpretazioni della rivoluzione francese non si è mai sopito e ha prodotto interi scaffali di libri.

Ma la soggettività della storia è un limite di questa forma di conoscenza? Niente affatto. Lo storico inglese Edward H. Carr è stato molto efficace nel confutare la contrapposizione tra «il duro nocciolo costituito dai fatti» e la «polpa circostante costituita dalle interpretazioni, soggette a discussione»: la parte nutriente del frutto – ha obiettato – non è il nocciolo, è la polpa.

Vero è che nell'Ottocento anche gli studiosi pensavano che la storia dovesse essere oggettiva. Leopold von Ranke disse che il passato andava ricostruito «wie es eigentlich gewesen», come era effettivamente stato. Certo, il passato non deve essere distorto e in questo senso Ranke aveva ragione. Per il resto, però, non esistono storie oggettive. Quelle che pretendono di esserlo in genere sono storie ufficiali prodotte da regimi autoritari. Se qualcuno sostiene di aver detto l'ultima parola su un problema del passato, dunque, la cosa più saggia che possiamo fare è diffidarne.

Un altro grande storico, il francese Marc Bloch, ha scritto che il passato per definizione non è modificabile. A cambiare sono le domande che poniamo al passato per capire quando, come e perché si è formato il mondo in cui viviamo. E cambiano perché è il mondo che cambia. Le nostre risposte a tali domande sono diverse? Non c'è nulla di male, anzi: le verità rivelate sono un fatto di fede, ma la storia è altra cosa. Le interpretazioni degli storici, dunque, debbono essere passate al vaglio della critica. E ciò, naturalmente, vale anche per quanto vi ho detto oggi. 

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Nella composizione di un'opera storiografica contano molto le opinioni, oltre all'accertamento dei fatti. Ma si può dire che una opinione vale l'altra? E che non ci sia modo di stabilire se una opinione sia preferibile all'altra? Ecco un abbozzo di risposta:
"Nella buona storia i criteri sono da un lato quelli noti di rigore filologico, archeologico, di reperimento delle fonti, ecc. che definiscono l’insieme delle variabili da interpretare e che dev’essere quanto più possibile ampio, variegato e suffragato. Ma a ciò deve seguire una capacità di ricomposizione radicata in una conoscenza della natura umana, che integri quelle informazioni nel quadro più comprensivo e illuminante possibile, laddove per illuminante si intende “capace di dar ragione degli atti e degli effetti”. Qui i criteri del meglio e del peggio sono ben presenti, e questi sono ciò che definisce il senso e la qualità della verità storica". (Andrea Zhok) 


giovedì 19 maggio 2022

Berlinguer e la Nato

 


 Guido Liguori, Berlinguer e la Nato, un equivoco che dura ancora, il manifesto,

Per i drammatici fatti d’Ucraina e la rinnovata centralità assunta dalla Nato, è tornata a circolare la tesi della presunta scelta che Enrico Berlinguer avrebbe compiuto nel 1976 in favore dell’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti. In realtà si tratta di una semplificazione che distorce la realtà. Vale la pena di chiarire la vicenda, anche per un «giudizio equanime» sul segretario comunista in vista dei cento anni dalla nascita, il prossimo 25 maggio.

Ricostruiamo i fatti. Anzi, due antefatti. In primo luogo, negli anni ’70 il Pci – pur ribadendo il giudizio negativo su Nato e Stati Uniti – non chiedeva più «l’uscita dell’Italia dalla Nato», ma il superamento di entrambe le alleanze militari esistenti. Nella convinzione che una uscita unilaterale potesse far tornare il rischio di guerra, in anni in cui invece in Europa si viveva una stagione di speranze di pace, con gli accordi di Helsinki del 1975, firmati da trentacinque paesi, tra cui Stati uniti, Urss e tutti gli Stati europei tranne Albania e Andorra.

Il secondo antefatto è l’incidente di Sofia, accaduto nell’ottobre 1973: in visita ufficiale in Bulgaria l’auto in cui viaggiava Berlinguer fu travolta da un camion militare, l’interprete sedutogli accanto morì e il comunista italiano si salvò per miracolo. Come si sarebbe saputo decenni dopo, egli maturò la convinzione (senza prove, e dunque a lungo taciuta, tranne che a pochi familiari e amici) di essere stato vittima di un attentato commissionato dai sovietici. Certezze non ve ne sono nemmeno oggi, ma è assodato che Berlinguer fosse un personaggio scomodo a Est come a Ovest, critico acerrimo dell’invasione di Praga nel ’68 non meno che del golpe in Cile, fautore di una «distensione dinamica» in cui la volontà dei popoli non fosse soffocata dalla «cortina di ferro».

E veniamo alla celebre intervista rilasciata a Pansa del Corriere della Sera pochi giorni prima delle elezioni del 20 giugno 1976. La dichiarazione sulla Nato era tesa a persuadere l’elettorato moderato per tentare il sorpasso sulla Dc? Anche. Ma il modo in cui Berlinguer pose la questione non era contingente. Al giornalista che gli chiedeva se non temesse che Mosca gli facesse fare la fine di Dubcek replicava: «Noi siamo in un’altra area del mondo… non esiste la minima possibilità che la nostra via al socialismo possa essere ostacolata o condizionata dall’Urss». L’Italia non apparteneva al Patto di Varsavia e dunque si potevano escludere atti militari sovietici. Continuava Berlinguer: «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico “anche” per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua», sapendo però che se «all’Est, forse, vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», in Occidente «alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Era quindi chiaro che gli Usa continuavano a essere un nemico delle sinistre e della democrazia, come il Cile aveva dimostrato.

E infatti lo stesso giorno in cui uscì l’intervista Berlinguer in tv ribadì che vi erano «tentativi di interferire nella libera scelta del popolo italiano» anche in Occidente, ricordando tra l’altro che «questo Patto Atlantico che viene presentato come scudo di libertà è un patto che ha tollerato per anni la Grecia fascista, il Portogallo fascista». Un giudizio inequivoco sulla Nato, dunque: nessuna conversione. Ma con la consapevolezza che anche il «socialismo reale» male avrebbe tollerato la «via democratica» del Pci.

Non vi fu nessun filo-atlantismo in Berlinguer, quindi, come oggi si dice, ma solo la necessità di destreggiarsi tra due potenze ostili e con estremo realismo: il passaggio verso un «socialismo nella libertà» era stretto, tra Est autoritario e Ovest a libertà limitata. Pesava in questo giudizio l’onda lunga di Praga – aggravata forse dai sospetti per lo strano incidente di Sofia. E la consapevolezza che tutto sarebbe stato tentato per fermare il Pci. Non solo la «strategia della tensione». Pochi giorni più tardi, il 27 giugno, al G7 di Puerto Rico, i leader di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania Ovest si riunirono segretamente e convennero sulle misure punitive che sarebbero state prese nei confronti dell’Italia se il Pci fosse andato al governo: si sarebbe provocato il fallimento economico del paese (un po’ come per la Grecia in anni recenti). Fu il leader socialdemocratico tedesco Schmidt a rendere pubblico l’avvertimento: un vero e proprio «terrorismo economico».

Va anche detto che i sovietici non mostrarono sorpresa o rammarico per le affermazioni di Berlinguer sulla Nato. Anch’essi forse pensavano che era un’affermazione comprensibile alla vigilia di elezioni tanto importanti. Affermazioni non gratuite, ma anche non del tutto felici, possiamo aggiungere, per i molti malumori che provocarono nel Pci stesso. Anche perché i media misero in rilievo solo una parte del ragionamento di Berlinguer, lasciando in ombra quella sulla democrazia dimezzata dei paesi occidentali. Viste nella loro interezza, le dichiarazioni del segretario del Pci adombravano la ricerca di una «terza via» tra imperialismo americano e socialismo autoritario sovietico. Ma l’equivoco dura in parte anche oggi. È ora di rimuoverlo.


mercoledì 18 maggio 2022

Ricordo di Percy Allum

 


 

Mauro Calise, Morto Percy Allum, lo specchio del potere a Napoli, Il Mattino, 29 aprile 2022 

 

Fin dagli esordi fulminanti del suo libro sui Gava, Percy Allum - spentosi ieri mattina a 88 anni nella sua casa in Inghilterra, circondato dai suoi cari - era diventato lo specchio del potere a Napoli, la sua autocritica vivente. Una presenza immancabile e imperdibile nelle aule universitarie, nei circoli intellettuali, nei dibattiti a stampa, nei quartieri popolari dove lo incrociavi spessissimo, dovunque pulsasse la domanda sulle nostre radici e identità. Eravamo, e siamo rimasti ancora dopo mezzo secolo, come Percy ci ha scolpiti nelle pagine di Potere e società a Napoli, il libro di Einaudi del '75 che divenne la prima analisi sociologica di come il potere democristiano funzionasse, e perché fossero così solide le basi del suo consenso. Uscito due anni prima per Cambridge University Press, il testo aveva fatto scalpore, ancora prima di vedere la luce. E infatti era rimasto a lungo in bozze per paura di ritorsioni o querele. In occasione della sua presentazione, nella storica libreria Minerva, Gava era seduto in prima fila. Ancora indispettito come ricordò Lietta Tornabuoni su «La Stampa» - che nel testo non ci fosse nemmeno un'intervista al protagonista principale, con la sua versione dei fatti, ma solo fonti documentarie e un'analisi puntigliosa della mappa territoriale delle preferenze elettorali. Percy era questo mix affascinante di irrefrenabile passione politica e rigorosa metodologia di ricerca. Studi a Cambridge, prima di Storia poi di International Law, subito il passaggio parigino alla prestigiosissima Sciences Po dove incrocia la migliore tradizione di microanalisi del voto, poi il coup de foudre per Napoli. Invitato da Manlio Rossi Doria, entra subito nel giro di Compagna e Galasso, nella fucina di «Nord e Sud», la risposta della sinistra laica all'egemonia culturale comunista di «Cronache meridionali». E comincia il suo lavoro di scavo sul potere nel dopoguerra a Napoli. Con una girandola di incontri che lo trasformerà rapidamente in una icona del paesaggio culturale cittadino. L'italiano forbito parlato con la rapidità di uno scioglilingua, la memoria infallibile con cui ogni episodio diventava un file d'archivio, e la tensione intellettuale che lega ogni riga di un testo che si divora d'un fiato come un romanzo. Un classico che ancora oggi fa scuola per la ricchezza dei suoi materiali e, ancor più, per l'icastica formula che è la sua chiave di lettura: il contrasto tra comunità e società, l'evoluzione che nel canone di Tønnies è il superamento dei legami tradizionali e che, invece, a Napoli si presenta come transizione bloccata e, a tutt'oggi, incompiuta. La città era ed è - rimasta prigioniera dei suoi eccessi comunitari familistici, clientelari e anche, in una certa misura, identitari e incapace di salire sul treno della modernizzazione societaria. Quando Allum scriveva queste pagine, a Napoli c'era ancora l'Italsider, la zona-Est non era diventata quel deserto di archeologia industriale che oggi assedia le periferie, c'erano alcuni snodi importanti di politica nazionale: l'Isveimer, il Banco di Napoli, la Cassa per il Mezzogiorno non era del tutto defunta. Insomma, la battaglia per la società a Napoli era ancora aperta. Poi, ne abbiamo perso il bandolo. La direzione. La leadership. E ogni volta che si prova a forzare, aprirsi un varco ecco che le resistenze rispuntano. A sinistra non meno che a destra. E il neo-comunitarismo diventa la bandiera la bandana con cui dar fiato al neo-populismo. Da grande comparativista autore di uno dei manuali più studiati Percy non si era mai sorpreso di questi corsi e ricorsi. Dalla cattedra di Scienza politica all'Orientale, poi da quella ricoperta a Vicenza in costante dialogo con Ilvo Diamanti, era tornato in Inghilterra a Reading. In compagnia della famiglia che adorava, e dei suoi inimitabili dipinti. Minicartoline e collages in cui fotografava i paesaggi come fossero cristallizzazioni sociali. Patchwork di abitazioni, agglomerati urbani metafisici nella loro immediatezza e semplicità. Il suo modo di continuare a ragionare, analizzare, vivisezionare anche con l'acquarello e il pastello. In tante serate insieme, non gli ho mai visto fermare il pensiero. Sempre pronto a incalzare se stesso. I rari attimi di sospensione schiudevano un'affermazione lapidaria. Come nell'intervista autobiografica che si chiude con la più intrepida dichiarazione d'amore per il paese che l'aveva adottato: «What would you say you learned from Italians?» «How to live!» Mi piace immaginare che di fronte al tentativo della città che tanto amava di tornare a sfidare il futuro, Percy non avrebbe resistito ad avanzare dubbi, perplessità, condizioni. Ma poi avrebbe finito col cedere all'ottimismo della volontà. Con quel gesto rapido del capo per scrollarsi i capelli dalla fronte, si farebbe sfuggire un: «Why not? Provaci ancora, Napoli».

sabato 14 maggio 2022

Hitchcock e le donne

 

Ingrid Bergman


Orio Caldiron
, Hitchcock, vite, donne e film di un puer aeternus, il manifesto Alias, 14 maggio 202

«Nessun altro artista uomo del XX secolo ha dedicato altrettanto tempo e impegno a esplorare lo stile di vita e l’identità femminile. Intrappolato tra sentimenti di ammirazione e risentimento, identificazione e straniamento, tra l’impulso all’adorazione e il desiderio di controllo, Hitchcock aveva una serie di idee complesse e contraddittorie sulle donne e sul suo rapporto con loro. Da un lato se ne circondava, ne cercava l’amicizia e affidava loro responsabilità e opportunità. Dall’altro, fu proprio tramite le donne che rivelò i lati più oscuri e sconcertanti di sé». Nel libro di Edward White, Le dodici vite di Alfred Hitchcock, edito da il Saggiatore nella traduzione di Camilla Pieretti (pp. 430, euro 27,00), l’affermazione è il filo conduttore del più recente volume su un personaggio poliedrico, che impone uno sguardo plurale in grado di fronteggiarne le molteplici, sfuggenti individualità. Azzeccato o meno, il titolo rimanda ai dodici capitoli del libro, altrettante immagini proiettate provocatoriamente sul volto impassibile del protagonista: l’eterno bambino, l’assassino, l’autore, il donnaiolo, il grassone, il dandy, il padre di famiglia, il voyeur, l’intrattenitore, il pioniere, il londinese, l’uomo di Dio. Nell’allestire i dodici ritratti, ognuno da un’angolazione diversa capace di cogliere non solo la figura pubblica e l’aura mitica, ma anche i vari ruoli che, in bilico fra realtà e finzione, ha incarnato, l’arguto quarantunenne collaboratore del Times Literary Supplement prende le distanze dalle biografie più celebri per affidarsi piuttosto all’Alfred Hitchcock Collection di Los Angeles e a tutti gli altri fondi disseminati fra Londra e New York, Boston e Dallas, senza trascurare le testimonianze orali, le lettere, i documenti privati di quanti hanno attraversato in un modo o nell’altro il Pianeta Hitch.

Se i critici amano dire che ripercorrere la carriera del regista è un modo efficace per studiare l’intera storia del cinema – e in realtà i suoi cinquantasei film spaziano fra il muto e il sonoro, il bianco e il nero, il colore e il 3D, l’espressionismo e il film noir, l’epoca d’oro di Hollywood, l’avvento della televisione e i fermenti degli anni Sessanta e Settanta – spesso considerano irrilevante il retroscena di Il labirinto delle passioni (1925), il primo film di produzione anglo-tedesca che firma come regista. La troupe, che da Monaco arriva a Sanremo, è formata da Hitchcock non ancora ventiseienne, il direttore della fotografia Giovanni Ventimiglia, Alma Reville, l’aiuto regista che sposerà soltanto nel dicembre dello stesso anno e gli sarà accanto per tutta la vita con il suo fiuto di montatrice e spesso anche di sceneggiatrice. La ragazza che doveva tuffarsi in mare sta confabulando con uno degli interpreti. «Non può bagnarsi», dice l’attore. «Come facciamo?». «Vuoi dire che si rifiuta di far la parte? Ha paura dell’acqua?», chiede perplesso Hitch. «Non esattamente», risponde l’attore, passando la patata bollente a Ventimiglia, costretto a spiegare all’imbranato neoregista i problemi del ciclo mestruale, suscitando l’imbarazzata confessione: «Non ne sapevo nulla. Sono andato a scuola dai gesuiti e di certe cose non si parlava». L’ignoranza sessuale corrisponde all’immagine dell’aeternus puer, uno dei tratti più caratteristici della sua soggettività. Se l’aneddoto del breve soggiorno in cella nel commissariato di polizia è riportato dappertutto in versioni tanto diverse da indurre il sospetto che sia inventato, per cogliere la centralità della paura nel piccolo Alfred forse è più importante la notorietà che si è conquistata L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, uscito all’inizio del secolo scorso. Soprattutto se si tiene conto del fatto che nella sua disinvolta familiarità con la psicoanalisi, più volte esibita con l’aria da esperto, è convinto che i sogni possono aiutarlo a comprendere il fanciullo interiore annidato nel suo inconscio. Ma il trauma della guerra con i bombardamenti tedeschi che centrano l’East End, il quartiere di Hitchcock, insedia da allora l’ansia che da adulto non lo abbandonerà mai.

Nei suoi film l’omicidio di massa si declina al singolare, insieme al voyeurismo e al senso di colpa, scegliendo come vittime privilegiate le donne, soprattutto bionde. Se le donne vengono massacrate nella doccia, spinte giù da un campanile, fatte a pezzi con un’ascia e sotterrate fra le aiuole, agli uomini non è riservato un trattamento migliore. Nessun luogo è sicuro. Le violenze avvengono in scuole, chiese, bagni, cucine, mulini a vento, motel, persino in una giostra. L’omicidio è al centro di molti titoli della stagione inglese, sin da quello che considera il suo primo vero film d’autore, Il pensionante (1926), che attinge alle sanguinose vicende di Jack lo Squartatore, il clamoroso protagonista della cronaca nera fin de siècle, ambientato, guarda caso, nell’East End. Nella leggenda del serial killer di prostitute, avviata sin dai quotidiani dell’epoca, c’è anche chi lo collega a importanti figure di pittori, confermando senza volerlo la tesi di L’assassinio come una delle belle arti di Thomas De Quincey del 1837, che Hitch conosce e cita in più di un’occasione. Tra le fonti letterarie del primo decennio prevalgono i romanzi polizieschi e di spionaggio, che rifiutano il whodunit, il «chi è stato» di Agatha Christie, a cui sostituisce la suspense, fondata sulla ricerca delle emozioni tipica del cinema.

Se gli episodi di violenza domestica attraggono l’immaginazione del regista, non sarebbe strano scoprire che è d’accordo con George Orwell, per il quale uccidere la propria moglie a calci potrebbe esser considerato il tipico crimine inglese, dove la signorilità borghese nasconde un sottotesto brutale.
La sua stagione migliore è quella americana, quando crea la sua casa di produzione all’interno della Paramount. Se qualcuno gli attribuisce una storia con Joan Harrison, a cui affida le due serie tv, nessuno ha mai esibito prove concrete. L’infatuazione per Ingrid Bergman all’epoca di Il peccato di Lady Considine (1949) inaugura la galleria delle attrici predilette dal maestro. Sul rapporto con Grace Kelly, altra indubbia infatuazione, non occorre insistere perché Ghiaccio Bollente è lei, e cioè la tipologia femminile che lo entusiasma, quella in cui sotto le più algide apparenze si nasconde una sessualità vulcanica. Il teorema Kelly funziona anche all’incontrario, cioè nei maldestri tentativi di sostituirla, prima con Vera Miles, poi con Kim Novak e infine con Tippi Hedren, con ognuna delle quali si ripete il rituale del controllo più assoluto, dal guardaroba alla vita privata.

Il caso clamoroso è quello di Tippi Hedren, con cui il meccanismo – inghiottito dall’Ombra – esplode nella frustrazione per approdare, ahimè, alle molestie sessuali. L’immagine del grassone è quella che l’interessato avrebbe gradito di meno. Anche se il rapporto con il suo peso, di cui era vietato parlare sul set, è più ambivalente. Se dice più volte: «Non sono a mio agio nella mia ciccia», in realtà, fra una dieta e l’altra, sfrutta la sua rotonda silhouette per accentuare la narcisistica affermazione dell’io in una identità estrema. L’ammiratore di Cary Grant, che considera la più elegante incarnazione della mascolinità, non può che detestare la sua stazza sovrabbondante, ma nello stesso tempo la usa come riconoscibile marchio di fabbrica nei piccoli show di apertura di Alfred Hitchcock presenta, la fortunata serie televisiva. Il suo episodio preferito è quello in cui la padrona di casa serve il cosciotto di agnello con cui ha ucciso il marito ai poliziotti che stanno indagando sulla sua scomparsa. Sono innumerevoli i pranzi nella vita di Alma, grande cuoca, e di Alfred, raffinato gourmet, ma nella sua derisoria ambiguità questo è imbattibile come un delitto perfetto.




 


 


venerdì 13 maggio 2022

Paul Ginsborg, una certa idea dell'Italia

 


Claudio Vercelli, Paul Ginsborg, tra analisi scientifica e intervento civile, il manifesto, 12 maggio 2022

Con la silenziosa eleganza che ne ha contraddistinto l’intera esistenza se ne è andato, dopo una malattia tanto insidiosa quanto repentina nei suoi esiti fatali, Paul Ginsborg. La sua traiettoria intellettuale si è articolata tra il Regno Unito e l’Italia, le sue due patrie, la prima di origine, l’altra di appartenenza.

Nato a Londra nel luglio del 1945, quando il paese stava uscendo da una guerra pressoché totale, aveva studiato al prestigioso Queens’ College di Cambridge, proseguendo successivamente come Fellow al Churchill College. Il suo insegnamento è sempre stato sospeso tra la passione per la storia moderna e contemporanea e l’afflato sociologico.

A PARTIRE dagli anni Ottanta si era trasferito in Italia, dove aveva svolto attività di docenza a Siena, Torino e poi a Firenze. Nell’ateneo di quest’ultima città aveva quindi insegnato storia dell’Europa contemporanea dal 1992 fino al pensionamento, avvenuto nel 2015. L’attenzione per le dinamiche continentali e per quelle italiane hanno costituito il fuoco del suo lavoro. Così come l’identificazione con il nostro Paese, del quale era diventato cittadino nel 2010. Le sue opere «italiane» risalgono al 1978, con uno studio su Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49.

Tuttavia, i testi più importanti sono quelli che l’hanno reso noto al di là del tradizionale pubblico accademico. Si tratta di una serie di volumi, itineranti tra il rigore dell’analisi scientifica e l’urgenza dell’intervento civile, con i quali ha cercato di mettere a fuoco i caratteri più recenti della società italiana. In particolare i lavori pubblicati da Einaudi, a partire dalla Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, uscito nel 1989 e più volte ristampato nonché aggiornato, passando per L’Italia del tempo presente e la curatela dell’Annale einaudiano dedicato al Risorgimento. Insieme, infine, all’ultima opera di maggiore impatto analitico, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950.

A QUESTE OPERE, di maggiore densità analitica, si erano accompagnati e poi aggiunti i libri che ne qualificavano l’intervento nell’attualità. Critico severo e implacabile di Berlusconi, letto come un fenomeno di dissoluzione dei quadri repubblicani e costituzionalistici (ad esempio con il suo Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica oppure nel lavoro collettaneo, coordinato con Enrica Asquer, sul Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere), si era ripetutamente dedicato alla riflessione sul rapporto tra istituzioni, società e cultura civile.

Il timbro britannico, e con esso la necessità di mantenere un profilo che non fosse totalmente travolto dalle passioni politiche, nei fatti si era notevolmente stemperato con l’adesione alla stagione dei movimenti, quella che a partire dalla dissoluzione dei partiti della Prima repubblica, dall’emergere del populismo e dal ritorno di politiche di impronta patrimonialista e autocratica, rivendicava l’impossibilità di rispettare il distacco tra impianto teoretico e impegno civile.

A tale riguardo, Ginsborg coglieva lo smarrimento di quel composito aggregato sociale che anch’egli era andato definendo come «ceto medio riflessivo», dinanzi alle fratture e alle lacerazioni prodotte dalla transizione da un’organizzazione industriale a società dove l’immaterialità era un campo di costruzione non solo di egemonie ma anche di domini.

LA SUA INTERPRETAZIONE della lunga età di Berlusconi, dal 1994 fino agli anni più recenti, si inserisce infatti dentro una tale cornice, nella quale ritornano anche gli echi, emendati tuttavia dell’ideologismo originario, di una riflessione a tutto campo sulle fragilità civili del nostro Paese. Lo studioso era infatti molto attento, posta la sua sensibilità sociologica, ad evitare le trappole di un discorso declinato meramente sul piano dell’antropologia negativa, dove invece prevalgono le caratterizzazioni stereotipate sui presunti «caratteri» nazionali.

È difficile iniziare a parlare da subito di un’eredità di Paul Ginsborg qualora il suo magistero intellettuale, e la sua attività politica, non vengano messe in relazione con l’affermarsi, nello stesso arco di tempo, delle suggestive ma inconsistenti ipotesi di una «terza via», quella propugnata da Anthony Giddens e fatta propria da Tony Blair. Nel mentre quest’ultima attraversava una buona parte di ciò che era rimasto dei partiti socialisti e della sinistra europea, di fatto svuotandone completamente la residua identità, Paul Ginsborg si stava scoprendo animatore intellettuale dei gruppi dei girotondini, divenendo poi uno dei fondatori di Libertà e Giustizia.

L’intero suo lavoro culturale ci restituisce una serie di intensi fotogrammi su un lunghissimo tempo, quello della transizione e dell’impotenza, avviatosi già con la fine degli anni Settanta e per nulla conclusosi nel nostro Paese.

 https://www.repubblica.it/cultura/2022/05/11/news/morto_paul_ginsborg_ritratto_personaggio_storico_militante_innamorato_dellitalia-349112896/

 Simonetta Fiori, Paul Ginsborg, uno storico militante, la Repubblica, 11 maggio 2022 

Il professore inglese che cambiò la storia d'Italia. A Paul Ginsborg, morto ieri all'età di 76 anni, venne subito riconosciuta la patente di inventore di un nuovo genere storiografico. Aveva una qualità allora rara tra gli storici italiani. Sapeva raccontare. E, a differenza di altri studiosi anglosassoni, evitava di inarcare il sopracciglio verso gli eterni vizi del carattere nazionale. Figura esile, temperamento mite (nell'accezione bobbiana dei forti), inconfondibile accento british, perfino nella fisicità leggera restituiva una sua eccentricità rispetto al ceto accademico consapevole.

Nato a Londra il 18 luglio del 1945, del nostro paese s'era innamorato da giovane, fin dai tempi della tesi di dottorato sul patriota Manin. E dopo un lungo insegnamento a Cambridge, a Firenze ha scelto di trascorrere gli ultimi trent'anni della sua vita, intrecciando il mestiere dello storico con l'impegno civile. I girotondi, il movimento in difesa della legalità che nel 2002 contribuì a fondare contro gli abusi di Silvio Berlusconi, hanno rappresentato l'esito naturale di un'idea del paese maturata nel corso dei suoi studi. Come se dopo tanta ricerca intellettuale, occorresse rimboccarsi le maniche per raddrizzare il legno storto, al fianco di "quel ceto medio riflessivo" - espressione di suo conio - nel quale era depositato tutto il potenziale civico dell'Italia migliore.

Pur senza rivendicare blasoni e medaglie, Ginsborg è stato un innovatore. Prima della sua Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, uscita da Einaudi sul finire degli anni Ottanta, nessuno studioso aveva raccontato il nostro paese oltre la dimensione politica e istituzionale, allungando la lente sul costume e sulla società, sui consumi degli italiani, sul loro rapporto con il cinema e la tv. Anche le sue fonti erano diverse da quelle tradizionali, spaziando dalle testimonianze orali alle indagini sociologiche e ai rapporti delle commissioni parlamentari. In un panorama ondeggiante tra l'accademia e l'ideologia, Ginsborg rompeva anche con una narrazione ancora condizionata dalle famiglie comunista e cattolica, per adottare uno sguardo libero, nel solco tracciato dagli azionisti Vittorio Foa e Alessandro Galante Garrone, i "suoi maggiori". Lui si definiva un figlio del Sessantotto, del quale fino alla fine ha rivendicato "l'insofferenza a qualsiasi forma di potere e strapotere", un intellettuale di sinistra che non ha mai finto di essere neutrale. Ma proprio la consapevolezza delle proprie passioni lo induceva a lottare contro la faziosità e il pregiudizio, dando voce il più possibile ai documenti.

La pluralità di fonti e l'originalità dello sguardo non furono l'unica novità della sua Storia d'Italia che per la prima volta trasferiva sul terreno storiografico il tema della famiglia, un grande attore politico fino a quel momento recluso entro i confini dell'antropologia e della sociologia. E al permanere di forti legami parentali lo studioso attribuiva lo scarso senso dello Stato nutrito dagli italiani, la debole etica pubblica, in una contrapposizione costante tra valori individuali e valori nazionali. Quello del familismo e più in generale della centralità della famiglia nella società è un filone che attraversa la ricerca di Ginsborg nei suoi innumerevoli saggi, fino al fondamentale affresco sul Novecento europeo che vede qualsiasi utopia anarchica, progetto sovversivo o ideologia rivoluzionaria arrestarsi sulla soglia di casa. Di fronte alla famiglia - è la sua tesi ampiamente documentata - dovettero fermarsi perfino i totalitarismi rosso e nero, incapaci di scioglierla in un ordine sociale superiore (Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950, Einaudi).

Familismo, in Italia, può fare rima con clientelismo e trasformismo. Allo storico del "tengo famiglia" doveva capitare in sorte di essere il primo autore d'un saggio storico sul nascente evo berlusconiano. Uscito nel maggio del 1994, su incarico del Saggiatore, Stato dell'Italia era la radiografia di un paziente bizzarro, che sogna la rivoluzione e vota a destra, che pare mosso da una spinta morale per poi regredire all'egoistico interesse materiale, che si nutre di antifascismo sul piano esistenziale per poi mandare al governo il partito dei postfascisti. La nuova destra gli pareva ereditare i vecchi vizi del sistema italiano. E il tempo non gli avrebbe fatto cambiare idea. Alla natura patrimoniale del sistema berlusconiano dedica un importante saggio nel 2011, al termine del cosiddetto ventennio azzurro (Berlusconismo, con Enrica Asquer, Laterza): Ginsborg vi rintracciava un'inedita forma di dispotismo populista che cambiava forma e sostanza dello Stato di diritto, attraverso il controllo dei media e l'estensione delle proprietà private di Berlusconi nella sfera pubblica. Ma nonostante l'individualismo sfrenato diffuso nel paese, lo studioso non rinuncia ad aver fiducia nel "ceto riflessivo", nel ceto medio pensante a cui attribuisce il patrimonio delle virtù civili, smarrito da una sinistra politica esangue. Nel 2002, insieme a Pancho Pardi, guida "la marcia dei professori" a Firenze, all'interno del più vasto movimento dei girotondi, nato contro le ingerenze del potere esecutivo contro quello giudiziario. È l'anno delle piazze animate da Nanni Moretti, Nando Dalla Chiesa, Paolo Sylos Labini. Sette anni più tardi scende in campo il cosiddetto "popolo viola", sorto per autoconvocazione su Facebook contro le "leggi canaglia" del premier: anche stavolta Ginsborg non mancherà di dare il suo sostegno.

La sua elaborazione intellettuale s'accompagna sempre più a una militanza civile febbrile. Presente sulle pagine di Repubblica e di Passato e presente, la rivista degli storici di sinistra, lo studioso è molto attivo nelle sedi di Libertà e Giustizia, l'associazione fondata da Gustavo Zagrebelsky e Sandra Bonsanti di cui tre anni fa è divenuto presidente. La politica non lo distrae dagli studi storici, a cui continua a dare apporti innovativi. Il suo volume sul Risorgimento, curato insieme ad Alberto Mario Banti per la Storia d'Italia di Einaudi, ancora una volta valorizza mentalità, emozioni, immaginari rispetto alla storia istituzionale. Una cesura netta rispetto alla tradizione storiografica.

Ma nella stagione dell'impegno, da storico avvertito, Ginsborg è capace innanzitutto di storicizzare sé stesso. Non è un caso che uno degli ultimi saggi einaudiani sia dedicato alla passione, divenuto il nuovo lemma del suo personalissimo lessico politico. Compassione, inclusione, amore. Quanto più prestiamo attenzione alla passione, tanto più potremo reimparare a essere democratici, a cominciare da quel luogo privilegiato di sentimenti e affetti che è la famiglia. Questo, in fondo, il lascito del professore di Cambridge che ha osservato gli italiani come nessuno aveva mai fatto prima.

giovedì 12 maggio 2022

La piccola Battaglia portatile

 

 

Paolo Nori

La Battaglia è una bambina che quando aveva otto anni, la prima volta che è andata a dormire in un albergo, a Torino, quando è arrivata alla stazione di Torino Porta Nuova si è fermata davanti al tabellone delle partenze ha allargato le braccia ha detto «Che città meravigliosa». E dopo, in albergo, a Torino, quella volta, mancava poco all’ora di pranzo, suo babbo si era riposato un quarto d’ora lei intanto aveva ispezionato la stanza, ogni tanto gli portava a vedere una cosa che aveva trovato, le ciabatte di spugna, la cuffia per fare la doccia, il kit per cucire, e quando lui si era tirato su e le aveva chiesto «Andiamo a mangiare?», lei gli aveva riposto «Ma mangiamo qua, c’è anche il frigo». Ed è una bambina, la Battaglia, che nel dicembre del 2010, quando aveva sei anni, saltava sul letto diceva «Io salverò il mondo dall’umanità, io salverò il mondo dall’umanità». E che quando mangia il gelato, dopo un po’ dice sempre «Mi si è ghiacciato il cervello». E che ogni tanto va in giro per strada canta «Ma com’è bello andare in giro / con le ali sotto i piedi / con una Mosca special che / ti toglie i problemi». 

Marcos y
Marcos, 2015

lunedì 9 maggio 2022

La guerra per procura

 


 

Angelo d'Orsi, Falsi e veri lacchè, Rifondazione comunista, 10 aprile 2022

... se i fatti storici sono determinati sempre da tre fattori, il conflitto in Ucraina – che non è la guerra dell’Ucraina, ma della Nato contro la Russia, e della sorte della popolazione ucraina non importa un accidenti a nessuno – lo conferma: i fattori sono gli individui (in questo caso la decisione, che condanno, di Putin di attaccare), il contesto (il golpe di Euromaidan, la presenza di forze neonazi in Ucraina, i 15 mila morti in Donbass provocati dagli ucraini tra la popolazione russofona e russofila) e il caso (fin qui non determinante, ma fattore sempre importante). La combinazione dei tre ha condotto alla guerra. E mandare armi, o pensare di mandare soldati, e aderire alla logica delle sanzioni di cui l’Europa (e l’Italia in primis) subirà le conseguenze, sono tre scelte scellerate. E dobbiamo dirlo. A dispetto dei “lacchè”, non di “Santa Madre Russia”, ma, piuttosto, dei padroni dei media, tra l’altro tutti coinvolti nei giganteschi affari dell’economia di guerra, ossia produzione di armi, mezzi militari, proiettili. Sarà un caso?

Marcello Flores Mario Gozzini, La "guerra per procura", Il Post, 7 maggio 2022

 Il mantra più frequente delle ultime settimane, introdotto dagli «esperti geopolitici» e utilizzato con entusiasmo da tutti coloro che non vogliono (per timore o per avversione) che si mandino armi in difesa della resistenza ucraina contro l’invasione russa, è la «guerra per procura» o «proxy war». La «procura» è la delega attraverso cui qualcuno (persona, istituzione, stato) conferisce a un’altra entità (persona, istituzione, stato) il potere di rappresentarlo. Parlare di guerra per procura tra Russia e Stati Uniti (o NATO) vuol dire ritenere che siano stati gli Stati Uniti (o la NATO) a conferire all’Ucraina di rappresentarli nella guerra contro Putin: di cui, evidentemente, porterebbero responsabilità significative nell’averla iniziata o nel continuarla.

Per quanto il pensiero geopolitico tenda a ritenere soggetti della storia soltanto le grandi potenze, le cui ambizioni, timori e percezioni dovrebbero essere tenute in considerazione e rispettate (mentre quelle delle piccole potenze evidentemente no), sono rimasti in pochi coloro che non riconoscono che sia stato Putin a invadere l’Ucraina. Altra sorpresa per i geopolitici – in genere poco attenti a fattori non materiali come le ideologie – è stata la capacità di resistenza di una piccola (appunto) nazione come l’Ucraina. E infatti la scelta di parlare di «guerra per procura» non è stata immediata, ma si è fatta sempre più insistente man mano che – di fronte alle capacità inattese di resistenza degli ucraini – Stati Uniti ed Europa si sono trovati costretti (moralmente, politicamente e geopoliticamente) ad aumentare i loro aiuti, anche militari, a chi si sta difendendo da un’aggressione illegittima e criminale.

In questo modo si equipara, con un salto logico che dovrebbe far riscrivere gran parte della storia e degli scontri militari avvenuti in passato, l’aiuto fornito a un paese aggredito all’entrata in guerra diretta contro il paese aggressore. Perché succede? Per cercare una risposta siamo andati a rileggere le memorie autobiografiche di Bob McNamara, ministro della difesa statunitense al tempo della guerra in Vietnam. Si dimise in pieno Sessantotto per dissenso con il modo di gestire il conflitto e ormai convinto che quella guerra la si poteva solo perdere. Nelle sue memorie scrive che il motivo vero e profondo della sconfitta americana sia stata la mancanza di “empatia con il nemico”: non sapevamo chi avevamo di fronte e in queste condizioni è molto facile perdere. Anche oggi, come sempre, il problema è lo stesso: chi è Putin? Il guaio delle domande giuste è che producono altre domande. La risposta a questa la cerchiamo in un altro libro molto demonizzato e poco letto: Lo scontro di civiltà di Samuel Huntington. Il punto centrale del libro è che, finite le grandi ideologie del Novecento (fascismo, comunismo), sono destinate a risorgere antiche identità religiose. Scritto otto anni prima dell’undici settembre, non c’è male come capacità di analisi.In Putin si ritrova lo stesso passaggio: da ufficiale del KGB a (finto) seguace della chiesa ortodossa e soprattutto credente nel nazionalismo grande russo. Ma d’altra parte, cosa ha da offrire al futuro la Russia? Non ha le capacità industriali della Cina, non ha la scienza e la tecnologia degli USA (vaccino sputnik insegna). Ha delle risorse naturali (gas, petrolio) in via di sostituzione se non si vuole bruciare il pianeta. Anzi è stata proprio la “maledizione” – gli economisti dello sviluppo la chiamano proprio così – della rendita petrolifera a viziare i russi, scoraggiare i loro imprenditori, alimentare la corruzione. E a perdere i vantaggi che indubbiamente avevano al tempo dello Sputnik (quello vero, il primo satellite spaziale). A Putin rimane perciò solo la forza bruta militare. Quella ha e quella mette sul tavolo. Come dice Shakespeare “c’è del metodo in questa follia”.

Perché non ci accorgiamo di queste piccole cose? La geopolitica realista ha avuto notevole successo nell’epoca della guerra fredda, ma nemmeno in quel periodo si è usato il termine di «guerra per procura» per spiegare i conflitti in Vietnam, in Medio oriente, in Afghanistan. Di quegli anni, tuttavia, è rimasto in gran parte dell’opinione pubblica – soprattutto di quella di sinistra e pacifista – l’idea dei «campi» contrapposti, un’idea sopravvissuta, dopo trent’anni, alla fine del comunismo e della guerra fredda; con il collegato e conseguente atteggiamento fortemente critico nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente, e spesso tollerante e giustificazionista verso quello sovietico.

In gran parte d’Europa, e in Italia in modo particolare, si è continuato a guardare ai nuovi rapporti internazionali e al nuovo mondo multipolare con gli occhi del passato, del secolo scorso: e questo ha portato a sottovalutare le mire neoimperiali e l’ideologia neonazionalista di Putin (che non sono solo riedizioni del passato ma hanno forti elementi di novità), con cui ci si è sempre più legati nella dipendenza energetica, frutto di una visione bipartisan della destra e della sinistra; ma anche l’evoluzione della politica statunitense e la sua crescente debolezza proprio in politica estera e sulle scelte internazionali (dal fallimento in Siria di Obama a quello in Afghanistan di Biden, passando per la schizofrenia pericolosa di Trump).

Ricondurre la guerra di aggressione russa all’Ucraina a un conflitto per procura tra Russia e Stati Uniti è un modo consolatorio per utilizzare i criteri e i parametri della guerra fredda con cui siamo convissuti per decenni, ma impedisce di comprendere la novità – preoccupante e difficile da risolvere – della strategia aggressiva di Putin, una reinvenzione a uso russo e della sua storia, in un’ottica ideologica religiosa-nazionalista, dello «spazio vitale» ritenuto imprescindibile dal potere di Mosca (e che molti «realisti» considerano il limite da non violare pena il rischio di una guerra nucleare).

Coloro che rifiutano, con motivazioni diverse e da prospettive politiche e ideologiche differenti e opposte, la consegna di armi all’Ucraina per continuare a difendersi dall’aggressione russa, cadono nella logica del non-intervento che non ha dato in passato – pur con tutte le differenze di situazioni non comparabili – risultati da considerare positivi. Il non-intervento di Francia e Gran Bretagna di fronte alla ribellione militare dei generali spagnoli contro la Repubblica ha permesso la vittoria, dopo tre anni di guerra civile (e con altri trenta di violenta dittatura) di Franco e dei paesi fascisti che l’avevano militarmente appoggiato, accelerando la scelta bellicista dell’Asse nel 1939. Il non-intervento in Siria da parte di Obama dopo averlo minacciato se si fosse superata la linea rossa delle armi chimiche si è risolto nell’intervento russo e nella terribile e cruenta vittoria di Assad dopo la distruzione di Aleppo e altre città. Si tratta di due esempi, il più lontano e il più vicino nel tempo, in cui la logica di evitare una escalation bellica ha condotto alla vittoria militare dell’aggressore, con conseguenze terribili per la popolazione civile, non solo nell’immediato ma anche nel tempo futuro.

Terminare o ridurre l’aiuto alla resistenza ucraina, sia militare che economico, sia diplomatico che umanitario, può solo accelerare una vittoria – magari solo parziale dal punto di vista territoriale, ma completa – dell’esercito russo, le cui forme di occupazione abbiamo visto con dovizia di documentazione a Bucha, Mariupol e tanti altri luoghi. La possibile trattativa che ne seguirebbe non potrebbe essere che un riconoscimento delle condizioni poste da Mosca, mentre quella che facesse seguito a una non-vittoria russa potrebbe incanalarsi su una vera trattativa con la possibile partecipazione di paesi garanti.

Resta l’interrogativo – a cui nessuno per ora sa e può dare risposta – se in caso di perdurante non vittoria Putin possa decidere l’escalation verso forme più distruttive fino all’uso possibile di armi nucleari tattiche. Se però fosse questo timore a impedire di continuare ad armare gli ucraini per difendersi si aprirebbe la strada a un equilibrio di «non deterrenza» in cui le potenze nucleari possono invadere e conquistare a piacimento i propri vicini con la minaccia di usare, se ostacolati e fermati, le armi atomiche.

La «guerra per procura», in realtà, nasconde anche un’altra insidia, che è forse la più pericolosa: quella di non considerare come entità autonome e indipendenti i popoli e gli stati che vivono accanto o nelle sfere d’influenza delle grandi potenze, di cancellare la loro volontà e le scelte che vogliono e possono compiere, per sottometterli alla logica ferrea del realismo geopolitico e quindi delle ragioni del più forte. Si tratta, da questo punto di vista, di una regressione – non solo ideale e giuridica – di quanto conquistato faticosamente con la pace di Westfalia, anche se la fine della seconda guerra mondiale mantenne e anzi affermò la logica dei campi contrapposti e intoccabili, che poi il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda accantonarono in nome dei principi di libertà e autogoverno.

Ci pare, in particolare, che non si sia colta in Occidente la novità di quella che gli ucraini chiamano “rivoluzione della dignità” e che nel 2014 porta alla fuga del presidente filorusso. Protagoniste di quella rivoluzione non sono le bandiere degli USA (come era accaduto alla caduta del muro di Berlino nel 1989) bensì quelle dell’Unione Europea (ed è la prima volta che accade nella storia). Il significato ci pare chiaro: non è (solo) l’idea di una prosperità economica a muovere gli ucraini, ma un’idea più ampia e generica di libertà e democrazia (e anche questo è la prima volta che accade). È  questo a spaventare Putin, per le implicazioni potenziali che riguardano le giovani generazioni russe. Ma la sua reazione è immersa nel passato: pensa di replicare Budapest 1956 o Praga 1968 con una parata di tank a scopo deterrente. E invece si trova davanti a un mondo cambiato. Anche gli Stati Uniti e la Gran Bretagna oscillano di fronte alla novità: prima offrono un salvacondotto a Zelensky, poi pensano di vincere la guerra sottovalutando le capacità di prolungata guerra di attrito a disposizione di Putin. Errori si mischiano ad errori, da entrambe le parti. Così in passato si è entrati nelle guerre mondiali. A costo di apparire menagrami, è nostro dovere di storici ricordarlo.





sabato 7 maggio 2022

Gramsci e la musica

 

 

Concerti e sconcerti. Cronache musicali
a cura di Fabio Francione e Maria Luisa Righi
pp. 168, € 16
Mimesis edizioni, Milano, 2022

L'Indice, N.7/835
Giovanni Carpinelli, Don Giocondo Fino accanto a Beethoven, p. 35

È come se al ben noto laboratorio di Gramsci si fosse aggiunta una nuova stanza, la stanza della musica. Nel volume sono raccolti 83 articoli di argomento musicale. Quelli noti prima che si avviasse la pubblicazione delle Opere complete (Edizione nazionale), erano 16 in tutto e ricompaiono qui. 34 riguardano l’operetta, 34 l’opera, 2 la musica lirica, 13 la musica classica strumentale. Anche quando si occupa di musica, Gramsci rimane un grande intellettuale. Intanto colpisce la vasta gamma dei settori da lui considerati. Anche in letteratura Gramsci si è occupato di Dante come di Carolina Invernizio. E qui c’è don Giocondo Fino accanto a Beethoven. Poi è nuova e originale l’attenzione per la sociologia dello spettacolo, come nota nella postfazione Fabio Francione. Infine quando si trova di fronte alla grande musica, Gramsci si mostra capace di formulare opinioni significative. Non è un critico musicale, e lo sa, si muove da ascoltatore sensibile e attento. Su questo aspetto sono assai utili le indicazioni di Maria Luisa Righi nella prefazione. Fu Italo Calvino a suggerire per primo il titolo di Cronache musicali, nel 1950. Già Gramsci stesso aveva scritto: “Non siamo critici, ma cronisti” (p. 68). Aveva una sua cultura da esperto in materia, conosceva bene la Storia universale della musica di Hugo Riemann, aveva letto Jean-Christophe di Romain Rolland e ne era stato segnato: ”Il nostro amore per Beethoven è l’aspirazione profonda alla fraternità umana, alla giustizia, alla bellezza, al socialismo” (p. 69).
Gli mancavano per sua stessa ammissione i ferri del mestiere, eppure dai suoi scritti si può ugualmente ricavare un inquadramento teorico della materia considerata. Al centro si trova l’emozione sincera: “la musica – Franck o Beethoven o Wagner - esprime appunto quello che costituisce la comunione delle anime: l’emozione. L’emozione pura e indeterminata, come dice Nietzsche, la possanza emozionale dell’anima. Ah! Ci dicono ingenui nel nostro linguaggio: certo, lo siamo: e vogliamo rimanerlo, sempre” (p. 65). César Franck, sia detto per inciso, era visto come “unico erede di Beethoven” (p. 63). C’era, bisogna riconoscerlo, qualcosa di ingenuo in una tale assolutezza di principio. A farne le spese fu Puccini in particolare. Ampiamente riconosciuto come il successore di Verdi, per Gramsci era invece un musicista mediocre.
Tra i critici, solo Ildebrando Pizzetti e Fausto Torrefranca sarebbero stati d'accordo con lui, ma non venivano neppure citati. Puccini sembrava ridotto a essere un modesto piccolo borghese, come i protagonisti delle sue opere. Il successo teatrale veniva attribuito alla bravura degli interpreti. Se Stravinskij viene definito “indubbiamente un musicista di valore” (p. 66), Puccini è regolarmente demolito senza nessun riguardo Sull’operetta grava una generale svalutazione: il libretto e la trama scenica contano poco, la musica nei casi migliori appare improntata a grazia e vaporosità leggera. Quanto all’opera, il repertorio classico incontra un generale apprezzamento.
In un tempo successivo alla stesura delle cronache musicali, Gramsci sposò una violinista. “Nello stentato rapporto tra i coniugi – scrive Maria Luisa Righi – si percepisce come nella musica si riverberassero tutti gli elementi del loro difficile rapporto” (p. 15). Una passione per la vita. 

                                                                                                   

 https://palomarblog.wordpress.com/2017/04/18/gramsci-e-la-musica/

 

 

domenica 1 maggio 2022

Olga e Olexander, il bisogno di normalità e di pace

 

 
Francesca Mannocchi, La lenta avanzata. Donbass, La Stampa, 1 maggio 2022
 
In piazza si sente solo la voce di Olga «cosa avete fatto al nostro Donbass? Come l'avete ridotto?» grida a un noi che non ha forma se non quella della necessità di trovare un responsabile al proprio dolore, chiunque sia.
«Mio padre è arrivato qui con una valigia vuota, ha lavorato sotto terra in miniera per quarant'anni, e ora io devo umiliarmi, povera, sporca e chiedere mezzo chilo di farina?».
Olga non riceve aiuti umanitari da due settimane, si batte le mani sul volto prima di fare il segno della croce con il viso rigato più dalla vergogna che dalle lacrime.
Uno dei volontari della Croce Rossa Ucraina, appena arrivato, le chiede se ha bisogno di acqua, di medicine. Lei risponde che ha solo bisogno di pace e se ne va, trascinando la borsa per il manico. La piazza torna silenziosa com'era, Olga scivola via insieme all'eco delle ruote della sua sacca da cui si vedono sporgere le taniche d'acqua. Vuote.
...
Normalità è la parola che più di tutte si sente pronunciare qui da quando la guerra a cui la regione era abituata ha preso un'altra forma, quella delle case distrutte, dei colpi d'artiglieria incessanti, delle notti vissute nel timore di essere colpiti dai missili, del timore di morire sotto le macerie della propria abitazione, o schiacciati nel proprio rifugio improvvisato.
...
Alla fine della discesa che dal centro della cultura porta al piccolo corso d'acqua a valle, Oleksander cammina con quattro taniche di plastica. Raggiunge una piccola fonte alla fine di una strada sterrata. Ha lavorato come camionista per quarantacinque anni, ora ne ha settanta, una pensione da 1300 grivne, 40 euro, e due nipoti di otto e dieci anni a cui ha già spiegato che la carne non si mangia perché costa troppo e a cui ora deve spiegare perché arrivino i missili sulla strada di casa, perché non ci sia più acqua per lavarsi e perché bisogna dormire in cantina.
Oleksander ride poco ma quando lo fa i denti che gli mancano raccontano la vita di sacrifici che ha fatto. «Ho vissuto l'Unione Sovietica e l'ho vista morire e in cocci, siamo gente umile qui ma sappiamo che il bene il male non stanno solo da una parte» dice anticipando una domanda che sto per fargli.
«Come è iniziata lo sappiamo, Oleksander, ma secondo te, come va a finire?» gli chiedo.
Lui, che ha la saggezza di chi la guerra non deve giustificarla né combatterla, ma deve cercare di sopravviverle, mi chiede di aspettare che arrivi con le taniche alla fine della salita per rispondermi.
Così cammino accanto a lui e aspetto «se sei disposto a perdere fino all'ultimo uomo, all'ultimo giovane che hai, non vuoi negoziare e questo non è il ragionamento di un capo, è il ragionamento di chi è intrappolato nella guerra che sta combattendo».
Risponde così, non nomina Putin, non nomina Zelensky. Evoca però, la normalità di cui la gente ha bisogno. La stessa che Putin aveva promesso di riportare in questa terra di industrie e di miniere, di lavoro e di fatica, eppure così impoverita e piegata.
La stessa che Zelensky vuole riportare al Paese promettendo di vincere una guerra che è già una guerra destinata a durare a lungo.
I russi lo sanno e hanno fatto del tempo un pezzo della strategia che può diventare la trappola di Zelensky. Mentre il presidente ucraino si dimostra determinato a non cedere di un passo, in Donbass la strategia militare russa non solo funziona ma ha una logica.
Tanto più lentamente avanzano le truppe russe, tanto più la popolazione si fiacca e la gente piegata dalla fame, dalla sete e dalla paura, tenderà a pensare che il nuovo possa essere la soluzione.
È la strada russa verso, più che la normalità, la normalizzazione.
Avanza così, al passo lento di chi sa che la fame e la sete hanno fretta, ma le aspettative di chi vuole un vecchio, nuovo impero, possono aspettare i tempi di una guerra lunga.