lunedì 27 luglio 2015

domenica 26 luglio 2015

Il confino di Nenni a Ponza




L'8 febbraio del 1943, Pietro Nenni viene arrestato dalla Gestapo a Saint-Flour. Rinchiuso nel carcere parigino di Fresnes, vi rimane circa un mese e il 5 aprile viene consegnato alla polizia fascista al Brennero.
Trasferito a Regina Coeli, viene successivamente confinato a Ponza nella primavera del 1943. L'esperienza del confino sull'Isola pontina è magistralmente raccontata nei "Diari"
, dove Nenni, abile penna, descrive quei giorni e soprattutto l'episodio più importante, ossia l'arrivo di Benito Mussolini inviato al confino dopo l'arresto del 25 luglio:
Dalla finestra della mia stanza ora vedo col cannocchiale Mussolini: è anch'egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte. Scherzi del destino! Trenta anni fa eravamo in carcere assieme, per aver partecipato attivamente all'agitazione proletaria di Forlì contro l'impresa libica, legati da un’amicizia che sembrava dover sfidare il tempo e le tempeste della vita, basata come era sull’odio comune della società borghese e della monarchia e sulla volontà di non dare tregua al nemico comune. Oggi eccoci entrambi confinati sulla stessa isola; io per decisione sua, egli per decisione del re e delle camarille di corte, militari e finanziarie, che si sono servite di lui contro di noi e contro il popolo e che oggi di lui si disfano nella speranza di sopravvivere al crollo del fascismo. Ed ecco, stasera il destino ci riunisce nella breve cerchia di un comune destino, ma Mussolini è un vinto, è l'eroe dannunziano che, ruzzolato dal suo trono di cartapesta, morde la polvere e non c'è attorno a lui che gente che lo rinnega per volgersi verso altre mangiatoie. Noi, i suoi avversari di venti anni, i «rottami» contro i quali egli ha avventato i suoi sarcasmi, noi siamo in piedi per altre tappe, altre lotte, altri cimenti, in piedi con la dignità della nostra vita, in piedi con la fierezza della parola mantenuta, italiani senza aureola di gloria o di successo, ma dei quali si dovrà pur dire che per essi la politica fu una cosa seria. Mentre è stata per Mussolini e per i suoi niente altro che farsa e impostura.
Tempo di guerra fredda. Diari e lettere 1943-1956



Fabrizio Montanari
Nenni-Mussolini, amicizia impossibile
24Emilia, 13 marzo 2014


... Quando vent’anni dopo Nenni viene catturato in Francia e spedito in un vagone piombato in Germania, accade l’imprevisto. Improvvisamente e senza una spiegazione il 5 aprile del 1943, dopo aver trascorso 24 giorni sul vagone ferroviario, è deposto al Brennero e consegnato ai carabinieri italiani che hanno l’ordine di accompagnarlo al confino nell’isola di Ponza.

È stato Mussolini a salvarlo? Nenni non lo saprà mai con certezza, anche se nel diario* del Duce in riferimento alla sua caduta e alla prigionia a Ponza, seguita alla sua destituzione operata dal re dopo la seduta del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, si legge: “Quando giunsi a Ponza vi era confinato Nenni. Oggi sarà un uomo libero. Ma se è ancora in vita lo deve proprio a me. Sono molti anni che non lo vedo, ma non credo sia cambiato molto”.

°°°
Nota di Giovanni Carpinelli: diario a lui attribuito e pubblicato il 19 maggio 1962 dal quotidiano Il Tempo, presumibilmente alla data del 20 agosto 1943, ma riferendosi al suo arrivo nell'isola di Ponza, avvenuto la mattina del 28 luglio.


 

giovedì 23 luglio 2015

Ricorditi di me che son la Pia






 Pia de' Tolomei

Personaggio della Commedia (Purgatorio, V, 130-136) di Dante Alighieri (1265-1321). Gentildonna senese, della potente famiglia dei Tolomei, andata sposa – secondo quanto raccontano gli antichi commentatori – a un signorotto guelfo del castello maremmano della Pietra, Nello d’Inghirano dei Pannocchieschi, che l’avrebbe fatta uccidere, defenestrandola, per gelosia o per contrarre nuove nozze, appare ultima tra gli spiriti dei negligenti «per forza morti» sulla scena del canto quinto del Purgatorio, dopo Jacopo del Cassero e Buonconte da Montefeltro. Un’apparizione breve, ma intensa, segnata da un discorso epigrafico di forte suggestione. Dopo aver chiesto a Dante con pudica dolcezza di ricordarsi di pregare per la sua anima («ricorditi di me, che son la Pia») quando sarà «tornato al mondo / e riposato de la lunga via», ella compendia in una terzina dai toni elegiaci la sua tragica sorte: i luoghi della vita e della morte racchiusi in un verso dalla chiastica antitetica lapidarietà («Siena mi fé, disfecemi Maremma»), l’evocazione liricamente sfumata del rito nuziale, senza sdegno e rancore alcuno, se non una velata amarezza, verso colui che ben sa, lo sposo, colto per contrasto, con trepida emozione, nell’atto cruciale di metterle l’anello al dito, come promessa – poi violata – di fedeltà («salsi colui che ‘nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma»).
Personaggio di grande intensità poetica, la Pia suggella degnamente con la sua pacata e dolce femminilità, con la sua delicata e vereconda presenza il discorso sulla morte violenta, sulla tragica separazione dell’anima dalla fisicità terrena, iniziato da Jacopo del Cassero e proseguito da Buonconte da Montefeltro, riportandolo con le sue soavi parole a quel clima di pacificata dolcezza con cui le anime dei negligenti espianti, all’inizio del canto, intonano il salmo penitenziale Miserere.
Letteratura europea Utet 


"Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
e riposato de la lunga via",
seguitò 'l terzo spirito al secondo,

"Ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria

disposando m'avea con la sua gemma".

Purg. V, 130-136


Daniele Mattalia (1960), Purgatorio V, 135-136
salsi: sàllosi, se lo sa, come mi abbia «disfatta» Maremma, come io sia morta (ma si guarda bene dal dirlo, o dal correggere le false voci fatte correre a suo carico. È un accusa velata, ma, nella sostanza, precisa: la morte – così par si debba interpretare il passo che segue – le venne dal legittimo marito, da colui che per titoli legali e sacramentali più era tenuto ad averla cara e a proteggerne la vita. La voce della Pia è, come abbiam detto, dolce e trepida, ma forse la fortuna che l'episodio ha avuto nell'età romantica ci induce ancora in inganno, avverte il Porena, facendosi sentire nelle ultime parole della donna una nota d'amore e di dolce-dolente nostalgia al ricordo del marito e delle nozze: rancore non c'è, indubbiamente, e la disposizione della Pia pare al perdono; ma, pur in modo velato, la messa a punto della responsabilità è, dicevamo, precisa. Dante, del resto, non afferma affatto che la Pia fosse vittima pura e innocente: la donna è in una folla di anime di morti per forza e peccatori infino all'ultim'ora.colui... gemma: è ormai abbandonata l'interpretazione dovuta a confusione con un'altra Pia senese, secondo la quale la Pia verrebbe a dire di essere andata sposa a Nello in seconde nozze; leggendosi: colui che mi aveva «disposato» con la sua gemma, me, pria, innanellata, già sposa di un altro. La Pia dà rilievo, per le già dette ragioni, al carattere legale e sacramentale del vincolo con cui Nello si era a lei legato; e la cui rottura costituisce un reato tanto più grave e comunque inescusabile (si ricordi quanto Francesca dice del marito in Inf., V, 106): «innanellare» e «disposare», avverte il Torraca, sono termini di una formula che ricorre nei documenti e negli scrittori del tempo: «cum annulo aureo disponsavit» si legge in un documento ravennate del 1298 (pubbl. da S. Muratori nel 1913): il «dì dell'anello», «dare» o «mettere l'anello», erano, informa sempre il Torraca, espressioni d'uso corrente in Toscana. Anche il Boccaccio, Decam., X, 8: «io e colle debite parole e con l'anello l'ebbi sposata». Si trattava, informa il Del Lungo, del rito formale e impegnativo equivalente a quello che oggi chiamiamo fidanzamento ufficiale, e che consisteva nel dare l'anello alla donna disposando o «sposando», cioè impegnandosi solennemente al matrimonio. Il quale poi poteva seguire a breve o, come accadeva a quei tempi di precocissimi fidanzamenti (cfr. Par., XV, 104-105), anche a lunga scadenza. Seguo il Torraca nell'interpunzione del passo, lasciando isolato il pria, che rende più significante l'allusione: colui che, pria, una volta, prima (di fare quanto poi fece), mi aveva innanellata con la sua gemma (con la gemma che mi faceva sua, e all'inverso) disposando, legandosi a me con la solenne e rituale promessa. Ch'è poi una maliosamente bella, ma anche precisa circonlocuzione per affermare che l'uccisore fu il suo legittimo marito: una formale accusa, né più né meno. E ancora una volta, piaccia o non piaccia, Dante ha fatto credito alle due voci peggiori: di una Pia infedele, e di un marito assassino. Quinti canti; Inf.-Purg.; Francesca-Pia.



Il jihadismo radicale: una bibliografia

Paolo Di Motoli
L’Egitto come laboratorio della Jihad

Il recente attentato al consolato italiano in Egitto offre lo spunto per una possibile genealogia del jihadismo radicale che parte proprio dal paese delle piramidi. La piccola biblioteca che ci può aiutare, in un panorama ricco di testi sul fenomeno jihadista, si compone di due volumi che affrontano il fenomeno, il primo è il fondamentale Il Profeta e il Faraone di Gilles Kepel (Laterza 2006; il testo faceva seguito alla dissertazione di dottorato dell’autore sui movimenti islamisti nell’Egitto degli anni Settanta), il secondo è Il partito di Dio di Renzo Guolo (Guerini e Associati 2004) che in poche pagine ha il pregio di riuscire a collegare figure e movimenti che contribuiranno a formare il nucleo dei movimenti islamisti radicali degli ultimi vent’anni.

Rileggendo la presentazione di Kepel si comprende la soddisfazione di chi ha saputo comprendere l’importanza dei fenomeni politico-religiosi del mondo islamico quando gli accademici degli anni Ottanta li consideravano un residuo di arcaismo reazionario. Stesso discorso può farsi per lo studioso italiano che in tempi non sospetti ha compiuto un cammino simile al collega francese in un paese dove il ritardo della sociologia e il clima di fiducia verso la secolarizzazione avanzante proiettavano sul tema religione e politica un alone di “esotismo”. L’Egitto è centrale per il fenomeno jihadista radicale in quanto ha dato vita a movimenti che hanno prodotto pensatori, gruppi e leader decisivi per la storia recente.

La nascita dei Fratelli Musulmani nel 1928 rimane un evento fondamentale per tutto ciò che ne è seguito. Se la condotta dei suoi fondatori era volta a costruire un “ordine islamico” che pacificamente avrebbe portato le istituzioni a conformarsi ad esso nel corso degli anni (una sorta di egemonia gramsciana applicata all’Islam politico) la repressione nasseriana e le crisi degli anni settanta sotto Sadat produrranno invece nuovi movimenti volti a uccidere sovrani “empi” opponendosi frontalmente alle istituzioni con la violenza.  L’ideologo centrale della fase iniziale fu quel Sayyid Qutb che Nasser fece impiccare nel 1966. La riflessione dell’ideologo egiziano maturò nel terribile carcere di Tura che contribuì ad esacerbarne la costruzione ideologica.


Sayyid Qutb

Nel libro Ma'alim fi'l-Tariq (Pietre miliari sulla via) Qutb elaborò le categorie politiche del radicalismo islamico. La jihad contro l'apostasia e l'ignoranza, la rottura con l'ambiente empio sul modello del Profeta, la sovranità divina e il Jihad globale contro i nemici “interni” e quelli “esterni”. Il Nemico è centrale nella visione di Qutb che rifiutava la dicotomia della geopolitica religiosa per cui il mondo è diviso in Casa dell’Islam e casa della guerra. I musulmani considerano tutto ciò che si trova fuori dal proprio spazio casa della guerra. Per Qutb il nemico era interno al mondo musulmano. L’occidente diventava così interno e i partiti in campo erano il Partito di Dio e il Partito di Satana.

Detto questo bisogna sottolineare che la condotta dei Fratelli Musulmani fu molto prudente e che il pensiero di Qutb verrà disconosciuto dalla seconda guida spirituale del movimento, quell’Hasan Al Hudaybi che era succeduto al fondatore Al Banna. La fratellanza completò lo smantellamento del braccio armato proprio negli anni Settanta, avviando quella che gli studiosi come Omar Ashour chiamano la de-radicalizzazione. Proprio la costante diplomazia della fratellanza produrrà un fiorire di movimenti e militanti che ne usciranno per fondare gruppi di chiaro orientamento radicale e jihadista. Tra questi possiamo citare Takfir wa hijra (movimento che tentò di creare una vera e propria contro società in Egitto e uccise un ministro del governo Sadat nel 1977) e al Jihad, i cui esponenti uccisero il presidente egiziano Sadat nell’ottobre del 1981.


Anwar al-Sadat sulla copertina del Time, 2 gennaio 1978. Crediti di copertina Audrey Flack

La decisione di uccidere Sadat era maturata sulla via dell’analisi dell’ingegnere Muḥammad ʿAbd al-Salām Faraj che nella sua opera dal titolo Al farida al Ghaiba (L’obbligo assente) sosteneva che compiere un atto di Jihad contro il governante empio era il sesto pilastro dell’Islam. Faraj fallì nei suoi intenti a breve termine ma il suo libretto ebbe un'eco importante nel mondo del radicalismo islamico, e non solo in esso. Le idee contenute in quel libro, come quelle di Qutb, funsero da faro nel mondo dell'estremismo fondamentalista e terrorista di matrice islamica in Egitto durante tutti gli anni Ottanta e Novanta. Tra gli esponenti del gruppo al Jihad (oggi ormai de-radicalizzato come gli altri) troviamo figure di riferimento per l’islamismo globale come Ayman al Zawahiri e Omar ʿAbd al-Rahman. Alcuni teologi reagirono alle analisi compiute da questi “teologi mancati”. Jadd al-Haqq, dell’università al-Azhar, attaccò la dichiarazione che Sadat era un apostata e criticò certe interpretazioni del Corano, non appoggiate a solidi e ben sedimentati studi e riflessioni, incluso il noto passaggio del "versetto della Spada". Altri hanno misero in dubbio ancor più esplicitamente la debolezza della preparazione culturale di Muhammad Salam al Faraj, ricordando che i suoi studi avevano riguardato più l'elettricità che la Sharia. La scarsa solidità degli studi islamici è un fatto caratteristico di pressoché tutti i "nuovi dotti" del radicalismo.

Filiazioni dei Fratelli Mussulmani

Per comprendere meglio il fenomeno del radicalismo potremmo paragonare i Fratelli Musulmani al Partito Comunista Italiano e i gruppi jihadisti al fenomeno terroristico degli anni Settanta. Alcuni studiosi sostengono che la fratellanza sarebbe stata utile a contenere le spinte violente e radicali della società egiziana. La politica internazionale e quella interna al paese delle piramidi sembra essere andata però verso una direzione opposta. Sarebbe inoltre un errore considerare movimenti che pure hanno avuto la propria gestazione all’interno dei Fratelli Musulmani come espressione di questo movimento così come non possiamo considerare il ramo reggino delle Brigate Rosse espressione del partito comunista emiliano.

www.paolodimotoli.it

mercoledì 22 luglio 2015

La tromba di Paolo Fresu dalla Sardegna al mondo

Simone Lorenzati 


Paolo Fresu fa parte di quei musicisti che nascono in un luogo ma che poi si donano al mondo. Un trombettista che dalla Sardegna ha portato il suo nome ben oltre i confini della nostra isola. Inizia lo studio dello strumento già ad undici anni nella Banda Musicale “Bernardo De Muro” del proprio paese natale. Ma quando Fresu esce dalla sua condizione paesana, oltre a frequentare il Conservatorio di Sassari, conosce e si innamora del jazz. Nel 1984 si diploma in tromba presso il Conservatorio di Cagliari, avendo abbandonato Sassari, e nello stesso anno vince i premi RadioUno Jazz, Musica Jazz e RadioCorriere TV, come miglior talento del jazz italiano. Questi premi sono solo l'anteprima della fama internazionale, che arriverà non troppo dopo. Risale a questo periodo, poi, la sua idea di proporre, nella sua Berchidda, un festival di musica jazz. La manifestazione, denominata Time in Jazz, partì nella storica piazzetta rossa della piccola cittadina montana e con gli anni l'evento prese piede, passando da una data riservata agli amanti locali del genere afroamericano all'attuale manifestazione internazionale giunta alla sua XXV edizione, con artisti di calibro, una diffusione a macchia d'olio che coinvolge sia i locali dei concerti serali, sia le sempre nuove ambientazioni diurne e pomeridiane così come le continue innovazioni in campo artistico (ad esempio facendo nascere in parallelo un progetto di arti visive). 
Nel 1990 Fresu vince il premio Top jazz indetto dalla rivista 'Musica jazz' come miglior musicista italiano, miglior gruppo (Paolo Fresu Quintet) e miglior disco (premio Arrigo Polillo per il disco 'Live in Montpellier'), nel 1996 il premio come miglior musicista europeo ed il prestigioso ‘Django d’Or’ come miglior musicista di jazz europeo e nell’anno 2000 la nomination come miglior musicista internazionale. Sono solo i primi di una lunga serie di riconoscimenti che proseguono nel presente musicale. Docente e responsabile di diverse importanti realtà didattiche nazionali e internazionali, ha suonato in ogni continente e con i nomi più importanti del jazz degli ultimi 30 anni. Ha registrato oltre trecentocinquanta dischi di cui oltre ottanta a proprio nome o in leadership ed altri con collaborazioni internazionali (etichette francesi, tedesche, giapponesi, spagnole, olandesi, svizzere, canadesi, greche) spesso lavorando con progetti 'misti' come Jazz-Musica etnica, World Music, Musica Contemporanea, Musica Leggera, Musica Antica e altro ancora. Nel 2010 ha aperto la sua etichetta discografica Tŭk Music. Ha coordinato, inoltre, numerosi progetti multimediali collaborando con attori, danzatori, pittori, scultori, poeti, e scrivendo musiche per film, documentari, video o per il Balletto o il Teatro. Oggi è attivo con una miriade di progetti che lo vedono impegnato per oltre duecento concerti all’anno, pressoché in ogni parte del globo. Si divide tra Parigi, Bologna e l'amata Sardegna. E' dotato di uno stile unico e di un lirismo poetico estremamente toccante, sia si esibisca alla tromba sia al flicorno. Per quanto influenzato da Miles Davis e, soprattutto, da Chet Baker, Fresu ha saputo trovare una sua voce particolare, senza cadere nell'eccessivo virtuosismo pur essendo egli dotato di una tecnica invidiabile. Specie nelle ballads la tromba di Fresu è malinconica ma anche poetica, si riallaccia al jazz del passato ma strizzando l'occhio a quello che verrà. Un'ultima nota a margine. Chi scrive ha avuto la fortuna di partecipare ad un seminario di Siena Jazz e di suonare un paio di blues con lui insieme ad altri allievi. Un'emozione indimenticabile, al pari della grandezza e della modestia del piccolo grande Paolo Fresu. Guida all'ascolto essenziale: l'album di Aldo Romano “Non dimenticar”, con Paolo Fresu alla tromba, dedicato alla musica italiana in jazz, può essere apprezzato anche da chi non sia appassionato di musica afroamericana.

martedì 21 luglio 2015

La rosa nella parola dei poeti






Anacreonte
Ode LIII 

 Oggi vogl’io col canto
     Lodar la rosa estiva,
     E la stagion che avviva
     4L’erba novella e il fior.
Tu, mio tesoro, intanto,
     Il canto mio seconda,
     E facile risponda
     8A’ nostri carmi Amor.
...
traduttore Francesco Saverio de' Rogati (1824)


Cielo d'Alcamo

 Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate:
tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
  per te non ajo abento notte e dia,5
  penzando pur di voi, madonna mia.
...



Pierre de Ronsard 

À CASSANDRE
Mignonne, allons voir si la rose
Qui ce matin avait déclose
Sa robe de pourpre au soleil,
A point perdu cette vesprée,
Les plis de sa robe pourprée,
Et son teint au vôtre pareil.
...
Piccola, andiamo a vedere se la rosa 
che stamane aveva  dischiuso 
la sua veste di porpora al sole 
ha perso stasera 
le pieghe della sua veste purpurea
e quel colorito simile al vostro.

Rainer Maria Rilke


XXI

  Cela ne te donne-t-il pas le vertige
de tourner autour de toi sur ta tige
pour te terminer, rose ronde ?
Mais quand ton propre élan t'inonde,

tu t'ignores dans ton bouton.
C'est un monde qui tourne en rond
pour que son calme centre ose
le rond repos de la ronde rose.
[testo originale francese]

Non ti dà le vertigini girare
tutt’intorno a te stessa sul tuo stelo
per compierti, rosa rotonda?
Ma quando il tuo slancio ti inonda,
 
tu ti anneghi nel tuo boccio.
È un mondo che gira in tondo,
così il suo calmo centro osa
il riposo rotondo della rosa.


Jorge Luis Borges
La rosa

La rosa,
la inmarcesible rosa que no canto,
la que es peso y fragancia,
la del negro jardín en la alta noche,
la de cualquier jardín y cualquier tarde,
la rosa que resurge de la tenue
ceniza por el arte de la alquimia,
la rosa de los persas y de Ariosto,
la que siempre está sola,
la que siempre es la rosa de las rosas,
la joven flor platónica,
la ardiente y ciega rosa que no canto,
la rosa inalcanzable.



La rosa,
la rosa immarcescibile che non canto,
quella che è peso e fragranza
quella dell'oscuro giardino della notte fonda,
quella di qualunque giardino e qualunque sera,
quella che risorge dalla tenue
cenere per l'arte dell'alchimia,
la rosa dei persiani e di Ariosto
quella che è sempre sola,
quella che è la rosa delle rose,
il giovane fiore platonico,
l'ardente e cieca rosa che non canto,
la rosa irraggiungibile.

(da “La rosa profonda, 1975”)







lunedì 20 luglio 2015

L'inverno del nostro scontento



L'inverno del nostro scontento è un romanzo pubblicato nel 1961 da John Steinbeck, tradotto in italiano da Luciano Bianciardi per Mondadori l'anno dopo. Il titolo originale era The Winter of Our Discontent, chiaro richiamo ai versi con i quali si apre il Riccardo III di Shakespeare. E' il celebre monologo di Riccardo, ancora duca di Gloucester, atto primo, scena prima: 

 Now is the winter of our discontent
Made glorious summer by this sun of York;
And all the clouds that lour'd upon our house
In the deep bosom of the ocean buried.
Now are our brows bound with victorious wreaths;
Our bruised arms hung up for monuments;
Our stern alarums changed to merry meetings,
Our dreadful marches to delightful measures.
Grim-visaged war hath smooth'd his wrinkled front;
And now, instead of mounting barded steeds
To fright the souls of fearful adversaries,
He capers nimbly in a lady's chamber
To the lascivious pleasing of a lute.


°°°

Come è stato tradotto in italiano questo incipit?

 
Salvatore Quasimodo, 1952, per Mondadori (Newton, 1990)

Ora l'inverno della nostra amarezza s'è cambiato in gloriosa estate a questo sole di York; e tutte le nuvole che pesavano sulla nostra casa sono sepolte nel profondo cuore dell'oceano. Ora le nostre fronti sono strette da ghirlande di vittoria; le nostre armi contorte appese per memoria, i nostri bruschi allarmi mutati in lieti convegni, le nostre terribili marce in amabili danze. La guerra dal viso arcigno ha spianato la sua fronte corrugata, e ora, invece di montare bardati destrieri per atterrire il cuore dei tremendi nemici, salta lievemente nella stanza d'una lady al diletto lascivo d'un liuto.

Gabriele Baldini, 1956 per Rizzoli


L'inverno del nostro affanno s'è ora mutato in luminosa estate, grazie a questo bel sole di York; e tutte le nubi che incombevano minacciose sulla nostra casa sono ora seppellite nel profondoseno dell'oceano. La nostra fronte è cinta, ora da seri di vittoria; le nostre armi, segnate dai colpi nemici, sono appese, ora, in trofei; gaie riunioni tengon luogo dei nostri allarmi, che già suonarono sinistri, e le nostre terribili marce si tramutano ora in dilettevoli misure di danza. Il fiero Marte ha spianata la sua fronte, che s'aggrottava in un fiero cipiglio,ed anziché montare in sella a destrieri bardati, al fine d'atterrire l'animo del nemico, sgambetta leggero nel salotto d'una dama, secondando le note lascive d'un liuto.

Cesare Vico Lodovici, 1958, per Einaudi 

 

Ora l’inverno del nostro scontento è fatto estate sfolgorante da questo sole di York: e le nuvole che incombevano sulla nostra casa, sono sepolte nel profondo seno dell’oceano. Ora abbiamo le fronti coronate da serti di vittoria; e le nostre armi peste smozzicate appese a panoplie: mutati i truci allarmi nei richiami delle allegre brigate e le minacciose marce in dilettose danze. La cipigliosa guerra ha spianato le rughe della fronte: e ora, invece d’inforcare corsieri irti d’acciaio ad agghiacciare di spavento il cuore del tremido nemico, danza col piè leggero nel salotto di una dama al delizioso suono lascivo d’un liuto. 

 

Vittorio Gabrieli, 1988, per Garzanti


Ormai l'inverno del nostro rovello

s'è tramutato in fulgida estate sotto questo rovente sole di York;

e tutte le nuvole che gravavano minacciose sulla nostra casa

sono state sepolte nel profondo grembo dell'oceano.

Ora le nostre tempie s'inghirlandano delle fronde della vittoria,

le nostre armi ammaccate s'appendono come trofei,

alle veglie agitate subentrano ameni festini,

alle marce massacranti, voluttuose cadenze di danza.

La guerra dalle truci fattezze ha spianato la fronte rugosa

ed ora, invece d'inforcare il destriero corazzato

e d'atterrire il cuore di nemici sgomenti,

volteggia agile nelle camere delle dame

al ritmo lascivo d'un liuto.


 

 

 

Alla ricerca del senso, omaggio a Wisława Szymborska


Curiosamente ma non troppo per Wisława Szymborska l'Utopia ha a che vedere con la Certezza, l'Evidenza, il Senno, la Profonda Convinzione, la Verità. Tolte le maiuscole, sono tutti  valori o atteggiamenti che avremmo creduto rispettabili, meritevoli di considerazione se non sempre benefici. Forse allora il difetto non sta in queste innocue apparenze, ma nella loro assolutezza immobile espropriata da un'autorità attenta solo alla conferma delle sue pretese. Proviamo a capire: il contrario dell'Utopia sarebbe allora l'incertezza, l'oscurità, il non senso, l'assenza di convinzione, il falso? Chiaramente non funziona. E poi nel paese dell'Utopia c'è una grotta dove giace il senso (con la s minuscola). E' quello che bisogna ritrovare. Si torna allora al suggerimento contenuto nell'uso delle maiuscole. L'Utopia inganna quando promette la conquista  dell'assoluto. Fuori dal miraggio del paradiso in terra, deve essere possibile credere con tutti i dubbi del caso in qualche evidenza accertata, in una provvisoria rivelazione del senso, in una eventuale epifania del bene. Perché al di fuori e al di là dell'Utopia c'è la vita che merita di essere vissuta. Come per Pieter Bruegel.
Se vogliamo poi ragionare guardando all'attualità e alla storia degli ultimi decenni, la caduta della grande Utopia si è tradotta nel trionfo di una realtà caotica, spesso lontana da esigenze elementari di giustizia e nondimeno poco propensa a acquietarsi in una immagine compiaciuta di se stessa. E allora di un'altra utopia bisognerebbe parlare, di quella che senza invocare una improbabile rigenerazione del mondo punta a ritrovare il senso. Non il senso in generale, ma il senso definito o suggerito da coloro che oggi portano il peso di un ordinamento economico e sociale manifestamente iniquo. 


http://www.nilalienum.it/Sezioni/Bibliografia/Sociologia/MannheimIdeologiaUtopia.html


szymborska

 

Wisława Szymborska,  Utopia

[Sta in Vista con granello di sabbia, POESIE 1957-1993, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1998]

Isola dove tutto si chiarisce.
Qui ci si può fondare su prove.

L'unica strada è quella d'accesso.

Gli arbusti si piegano sotto le risposte.

Qui cresce l'albero della Giusta Ipotesi
Con rami da sempre districati.

Di abbagliante linearità è l'albero del Senno
presso la fonte detta Ah Dunque E' Così.

Più ti addentri nel bosco, più si allarga
la Valle dell'Evidenza.

Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.

L'Eco prende la parola senza farsi chiamare
e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.

A destra una grotta in cui giace il Senso.

A sinistra il lago della Profonda Convinzione.
Dal fondo si stacca la Verità e viene lieve a galla.

Domina sulla valle la Certezza Incrollabile.
Dalla sua cima si spazia sull'Essenza delle Cose.

Malgrado le sue attrattive l'isola è deserta,
e le tenui orme visibili sulle rive
sono tutte dirette verso il mare.

Come se da qui si andasse solo via,
immergendosi irrevocabilmente nell'abisso.

Nella vita inconcepibile.


°°°
Alfonso Berardinelli

Wislawa Szymborska (1923-2012) Poetessa del sorriso
Nella sua apparente leggerezza c'è un'instancabile e passionale tenacia che ha la funzione fondamentale, igienica, di disintossicare da idee generali, idoli e miti

Il Sole 24 ore, 9 febbraio 2014
Prima che ricevesse il Nobel, quando ancora non sapevo che Wislawa Szymborska esisteva nella realtà, sentivo il bisogno di inventarla. Prima di leggere la sua poesia, credo di averla immaginata e sognata. Mi ero convinto, ancora confusamente, che il suo era un modo di scrivere poesie di cui in Italia avevamo bisogno. Non voglio dire con questo che non ci fossero da noi buoni e ottimi poeti. Avevamo senza dubbio una tradizione novecentesca che si era conclusa, o esaurita, con gli ultimi libri di Montale; con i caotici, improvvisati poemetti e poesie giornalistiche di Pasolini; con il manierismo virgiliano-lacaniano di Zanzotto; con la teologia negativa in epigrammi aforistici di Giorgio Caproni; con la polimorfica, satirico-patetica «vita in versi» di Giovanni Giudici. Si potrebbero aggiungere altri nomi: anzitutto Sandro Penna e Amelia Rosselli, molto amati, se non imitati, dagli anni Ottanta in poi. Ma dopo? L'interruzione di continuità è stata evidente. Almeno a partire dalla mia generazione, entrata in scena intorno al 1975, si ricominciava più o meno da zero, dopo aver dato la poesia per finita. È quando all'improvviso la vitalità della poesia è stata riscoperta e continuamente riaffermata (anche con troppa fede, una fede sospetta) ci si è accorti che i poeti erano diventati veramente troppi. C'era dunque di che sognare, e io sognavo una poesia che somigliasse almeno un po' a quella della Szymborska. So bene che augurarsi un particolare tipo di poesia è un peccato contro la natura dell'invenzione artistica, che è e deve restare imprevedibile. Sono nemico delle poetiche programmatiche. I programmi sono quasi sempre attraenti per definizione, ma il giudizio deve riguardare i fatti, i risultati, non le intenzioni. Cercherò tuttavia di spiegare perché il mio sogno della Szymborska nasceva, come tutti i sogni, per compensare i difetti di una certa realtà. Qualunque lettore può notare nelle poesie della Szymborska una serie di caratteristiche che, messe insieme, la rendono inconfondibile. Ne elenco alcune: immaginazione sfrenata e occasioni di vita quotidiana; inclinazione umoristica e perfino comica; giochi di parole mai separati da giochi di idee e immagini; una dialettica della composizione che fa incontrare gli opposti e mette l'identico in contraddizione con se stesso; ironia e pathos che nascono l'uno dall'altro; estro e audacia intellettuali che coincidono con la perizia tecnica. Quasi tutte queste cose mancavano nella poesia italiana, o erano isolate l'una dall'altra e quindi non si rafforzavano a vicenda, restando spesso una semplice aspirazione. Abbiamo avuto per esempio un paio di poeti capaci di esibire uno stile di pensiero, senza che avessero davvero un pensiero a giustificare quella forma. Detto questo, devo aggiungere una cauta precisazione, almeno una: è così, salvo eccezioni. Queste eccezioni si trovano recentemente soprattutto nella poesia scritta da donne, che però non definirei "femminile", sia perché non rivendica diritti di genere né isola una tematica di esclusiva marca femminile; sia perché ha esattamente quelle caratteristiche che tradizionalmente, secondo una vecchia convenzione, venivano invece attribuite agli uomini: lucidità intellettuale, spregiudicatezza, coraggio, mancanza di sentimentalismo, distacco ironico, libertà di pensiero, energia espressiva e comunicativa, indipendenza da modelli. Il successo italiano della Szymborska è parallelo all'emergere da noi di un nuovo stile poetico del tutto privo di esoterismi e gergalismi poeticizzanti, privo di vaghe allusività, automatismi associativi, nebulosità semantica, indeterminatezza metrica. Chi voglia farsi un'idea di quello che dico, può cercare i libri di Patrizia Cavalli, Bianca Tarozzi, Anna Maria Carpi, Alba Donati, che hanno tutte pubblicato in questo ultimo anno. Nessuna di loro naturalmente imita la Szymborska. Di lei ha scritto la Donati che la sua poesia è carica «di enigmi e di prodigi, commuove e ci rende allegri, spinge alla meditazione e ci trascina in cielo come aquiloni». Ogni poeta ha un suo metodo, ma il metodo della Szymborska appare sempre in primo piano. La sua tecnica, i procedimenti e i meccanismi con cui costruisce le sue poesie sono visibili, vengono esibiti. Non sono solo forma; o meglio sono la forma della cosa che viene detta e che di per sé forse neppure esisterebbe. Se avessi il coraggio di fare un'ipotesi che non sono in grado di sostenere con nessuna prova, direi che in questo singolare metodo si incontrano le assurde meraviglie di Alice e la prassi conoscitiva della dialettica, quella di Marx e Engels, soprattutto di Engels, ma anche di Eraclito (il quale compare in una poesia). È possibile che del marxismo onestamente imparato in gioventù, alla Szymborska sia rimasto questo metodo dialettico che fa muovere, fa ballare le cose e ogni entità statica, convenzionale, autoritaria. In una delle poesie contenute nel suo vero libro di esordio, Appello allo Yeti, del 1957, si leggono queste due strofe: «Nulla due volte accade / né accadrà. Per tal ragione / si nasce senza esperienza, / si muore senza assuefazione (...) Non c'è giorno che ritorni, / non due notti tutte uguali, / né due baci somiglianti, / né due sguardi tali e quali» (Nulla due volte). Che sia vero o no, è questa la cosa che l'autrice trova interessante. Se si è capace di notarla, la differenza non fa sentire la ripetizione. Szymborska nota più la prima che la seconda, se ne rallegra, ci si diverte, ne è ispirata. La sua arguzia la aiuta a non cadere nel generico. Va a cercare, o trova subito, la singolarità. Per questo non si annoia, non ci annoia. Nella vita comune, questa poesia afferra ciò che comune non è. Se niente si ripete davvero, tutto è ogni volta interessante e da non perdere. Il singolare, famoso sorriso della Szymborska, che vediamo in tutte le sue foto, è un sorriso di divertimento e di sfida. Nella sua apparente leggerezza c'è un'instancabile e passionale tenacia. Sembra quasi che la sua poesia voglia avere una funzione. In realtà, ha solo quella, fondamentale, igienica, di disintossicare dalle idee generali che diventano idoli e miti quando le facciano vivere al di sopra delle circostanze. In un'intervista rilasciata a Francesco Groggia («la Repubblica», 7 aprile 2008), alla domanda su quale ruolo può avere la poesia contro i miti contemporanei, la risposta della Szymborska è: «Un ruolo molto piccolo, quasi nullo. Ma bisogna credere in ciò che si fa». La poesia è una sfida alle idee generali e al gran mondo della storia. Richiede una fede personale che non ha quasi fondamento pubblico. È questa qualità intellettuale e dialettica, è il ritmo nella costruzione dei significati, che ha permesso alla Szymborska di resistere bene, meglio di altri autori, alla rischiosa avventura della traduzione. Si perde un po' di musica, di allitterazioni, di omofonie eccitanti e comiche, ma il ritmo strutturale e il gioco concettuale rimangono illesi. Oltre alla musica verbale c'è una musica del pensiero. C'è il ritmo dialettico della scoperta e dell'indagine mentale. Il mondo delle meraviglie è dunque qui, è il nostro. Si dilata e si contrae, dal cosmico al quotidiano, dalla preistoria all'attimo presente, purché si rovesci l'apparenza immediata e si sappia che c'è sempre altro da pensare, c'è sempre un «rovescio della medaglia». È uno «spasso» (così si intitola uno dei suoi libri) questo mondo singolare e plurale, maschio e femmina, presente e passato, realtà e possibilità, caldo e freddo, alto e basso. I modi e le forme della grammatica si mescolano con ciò che si legge nei libri di scienze, geografia, paleontologia e storia. Divertimento, teatralità, acume dialettico, imprevedibili assurdità, devozione al dettaglio: tutte cose che auguravo alla poesia italiana. Nella stessa intervista che ho citato, la conclusione della Szymborska è questa: «La maggior parte delle persone non si dà la pena di pensare con la propria testa (o perché non può, o perché non vuole), e di conseguenza, è facilmente preda di suggestioni collettive. Qualcuno ha detto che le persone si istupidiscono all'ingrosso e rinsaviscono al dettaglio. Dunque amiamo e sosteniamo i casi al dettaglio».

WisławaSzymborska

sabato 18 luglio 2015

La vera colpa di Crocetta

Francesco La Licata
Antimafia, la vera colpa di Crocetta 
La Stampa, 18 luglio 2015 




Ha toccato tutti i toni del teatro dell’Arte, la vicenda delle intercettazioni telefoniche tra il chirurgo Matteo Tutino, attualmente agli arresti per irregolarità in danno dei soldi pubblici della Regione siciliana, settore Sanità, e il governatore dell’isola, Rosario Crocetta, fino a ieri icona dell’Antimafia di successo sostenuta proprio da quella Lucia Borsellino – figlia di Paolo – che l’intercettazione pubblicata da L’Espresso vorrebbe oggetto di scherno e minacce del sanitario, coperto dal colpevole silenzio del governatore.
La rappresentazione ha avuto inizio con un colpo di scena che ha mandato in frantumi l’ennesimo pezzo di Antimafia (di questi tempi vittima di una sorta di maledizione che sembra trovare origine nella premonizione di Leonardo Sciascia sui «Professionisti dell’antimafia»). Lo scoop dell’Espresso è un tuono assordante, Tutino che, al telefono, suggerisce a Crocetta di liberarsi dell’assessore alla Sanità, Lucia Borsellino: «Va fermata, come il padre». Immediata la messa in scena della farsa canonica dell’indignazione collettiva, soprattutto politica. Un lungo elenco di attori e comparse che non lesinano frecciate avvelenate al governatore che ha tradito «la memoria di Paolo Borsellino». Lei, Lucia, intanto si è già dimessa dall’incarico di governo qualche giorno prima dello scoop giornalistico e, di fronte alla terribile frase tace, poi si limita a dire di «provar vergogna per loro». L’elenco degli indignati è lungo e non sempre in regola coi criteri della buona decenza. Spiccano, infatti, indagati, chiacchierati, impresentabili e falsi profeti. Ma la diga è rotta e passa di tutto. Arrivano anche le dichiarazioni di solidarietà delle più alte cariche dello Stato, sinceramente scosse dalle tremende parole anticipate alle agenzie di stampa da L’Espresso
E che fa Crocetta, di fronte a tanto sfacelo? Prima nega di aver ascoltato simili frasi («forse è andata via la comunicazione»), poi – sicuramente intimorito dallo tsunami che gli arrivava addosso – si autosospende dalla carica e affida la gestione della Regione proprio all’assessore che ha preso il posto della dimissionaria Borsellino. A parte l’irritualità dell’autosospensione (non prevista dal regolamento regionale), rimane da chiedersi e chiedere a Crocetta se tale atteggiamento non possa essere preso per ammissione di colpa. Ma fin qui siamo ancora al dramma, che – presto – scivolerà nella commedia degli equivoci. D’altra parte, siamo nella terra di Sciascia e di Pirandello ed è difficile scorgere brandelli di verità assoluta, specialmente in un palcoscenico dove fanno da protagonisti la politica e i sistemi con cui viene condotta la battaglia per il potere (e per i soldi). 
La scena cambia quando il procuratore Lo Voi verga un comunicato perentorio con cui nega, a nome del suo ufficio e dei carabinieri che hanno condotto l’indagine, l’esistenza dell’intercettazione «anticipata» dal settimanale. E’ un gesto importante, tanto più che arriva dopo le esternazioni di condanna e solidarietà alla Borsellino, delle più alte cariche dello Stato. Tuttavia è un gesto che può dare libero sfogo alla vocazione teatrale del governatore. Così arriviamo alla sceneggiata pura con tanto di pianti e singhiozzi in diretta tv. Crocetta, forte degli equivoci irrisolti, può addirittura indossare i panni della vittima («la mafia mi vuol far fuori politicamente») e capovolgere la scena, mentre il numero degli indignati si assottiglia e qualcuno addirittura si abbandona a monologhi garantisti e rimbrotti contro i «soliti giornalisti». Non sposta molto la conferma del settimanale sull’esistenza di quella intercettazione: «L’abbiamo ascoltata, risale al 2013 è disturbata in qualche parte». Il comunicato della procura della Repubblica fa da argine e difficilmente i cronisti potranno rivelare le loro fonti che, sicuramente, ci saranno.
Cosa si può dire, per evitare che l’intera vicenda possa scadere nell’immancabile «pantomima sicula»? Forse bisognerebbe abbandonare il teatro e rientrare nella realtà. L’esperienza ci dice che qualcosa di non irreprensibile ci sarà nelle numerose intercettazioni allegate al fascicolo dell’inchiesta. Forse non si troverà la frase su Borsellino ma è probabile che il primario abbia espresso più di qualche apprezzamento poco gradevole nei confronti dell’assessore che lo contrastava. Ed è probabile (non si capirebbe altrimenti il ricorso cautelativo all’autosospensione) che Crocetta non abbia adeguatamente difeso Lucia Borsellino, preferendole l’amico e il medico di fiducia. Anzi si potrebbe dire che, per esprimere un giudizio politico su Crocetta, non bisognerebbe aggrapparsi alla «teatralità dell’antimafia tradita» perché basterebbero i fatti certi. E i fatti certi dicono che il medico Tutino era entrato nelle grazie del presidente della Regione e di un giro di vip a lui vicini, compresi alcuni magistrati della Procura che hanno usufruito della sapienza e della perizia del medico, per interventi di miglioramento dell’estetica. Il vero tradimento di Crocetta non riguarda la memoria di Paolo Borsellino o la retorica dell’Antimafia, no. Riguarda l’aver permesso – non sappiamo se per debolezza o per interesse – che il rinnovamento della politica sulla sanità potesse esser bloccato da ritorni alla gestione amicale.

venerdì 17 luglio 2015

Treviso, la barbarie domestica

Il Fatto quotidiano
16 luglio 2015
articolo siglato F.Q.

Il clima a Quinto di Treviso è da rivolta sociale. I cittadini di una zona residenziale (il complesso ex Guaraldo) sono scesi in strada, da ieri sera, per protestare contro la decisone della prefettura di alloggiare 101 profughi all’interno di alcune palazzine già abitate da diverse famiglie. Qualcuno nella notte ha dato fuoco a mobili e materassi trovati in uno degli appartamenti destinati ai profughi mentre oggi, sorvegliati da polizia e carabinieri, i residenti della zona hanno continuato la protesta impedendo che gli addetti della cooperativa che ha in carico i migranti consegnassero loro una cesta di cibo
A Quinto di Treviso in mattinata è arrivato anche il governatore del Veneto Luca Zaia che si è schierato a fianco dei cittadini: “Va chiuso urgentemente questo presidio e gli immigrati devono andarsene – ha detto -. Lo dico anche perché, pur essendo noi contrari ad ogni forma di ospitalità, perché abbiamo già 517 mila immigrati, pur avendo già dato, se uno vuole trovare una soluzione questa è la peggiore che si possa trovare: mettere un centinaio di persone immigrate che non sanno nulla del Veneto e noi non sappiamo chi sono, metterli in un condominio accanto a famiglie con bambini piccoli vuol dire non avere assolutamente cognizione di cosa significa”.  
Il governatore ha poi rincarato la dose: “Questa non è un’emergenza. Ci hanno dormito sopra per quattro anni, stiamo africanizzando il Veneto. Ho chiesto che l’Uls (l’azienda sanitaria locale, ndr) vi facesse un’ispezione. Penso che i sindaci siano messi nelle condizioni di produrre delle ordinanze se i dati andassero nella direzione della inagibilità dei luoghi. Con il sovraffollamento io se fossi un sindaco farei un’ordinanza di sgombero. I sindaci sono eletti dal popolo e i prefetti non mi risulta si siano mai candidati. Qui comandiamo noi. I veneti scelgono i loro amministratori e i loro sindaci. Il governo non deve mandare più anche un solo profugo. E, purtroppo questi fatti accadono anche in altre regioni d’Italia”.
Solidarietà alle famiglie di Quinto di Treviso è arrivata anche dal segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini, che sabato si recherà sul posto: “Quello che sta accadendo è intollerabile, via il prefetto se non è in grado di gestire. Questi immigrati devono andar via. Sia chiaro: noi non avalliamo alcun tipo di violenza”. 


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giovedì 16 luglio 2015

Varoufakis, un'epopea mediatica

Maria Laura Rodotà
Il (vero) talento di Varoufakis: la comunicazione 
Corriere della Sera, 15 luglio 2015


Se la Grecia non fosse piombata in un incubo, se non crescesse tra italiani e spagnoli la paura che gli succeda qualcosa di simile, se in generale si fosse meno preoccupati, si guarderebbe con maggiore serenità a Yanis Varoufakis. E si potrebbe ammettere, da lavoratori della comunicazione, che lui è più bravo di noi. Una settimana fa era un controproducente ministro delle Finanze dimissionato; oggi esterna da combattente anti-trojka defenestrato per oscuri motivi. Finora, altri economisti ne criticavano lo spessore di studioso della teoria dei giochi; nelle ultime due settimane sembra aver vinto la sua partita. Rivelandosi un asso delle strategie comunicative. Tra sprazzi di genio, tempismo, estro, ma pure talento nel contropiede, abilità nel coniare slogan, e un tot di mascolinità assertiva da coatto che imbarazza i più sobri, però piace. Varoufakis più prima che poi andrà studiato, da consulenti politici e da altri. L'ex ministro è stato zitto per un po'. Poi, ogni giorno, si è fatto vivo in un modo diverso. Mentre il Parlamento votava sull'accordo, è apparso su un traghetto. Poi è apparsa una sua foto in slip da bagno. Poi è stata diffusa una sua intervista a una radio australiana, in cui ha definito l'accordo "un trattato di Versailles" prodotto da una "politica dell'umiliazione". Poi ha scritto sul Guardian accusando l'Europa - insomma la Germania - di usare la Grecia come esempio per "infondere timor di Dio" ai francesi. Poi si è fatto intervistare dal New Statesman, dicendo che la Grecia era stata "raggirata". E che lui era stato buttato fuori per aver insistito sul piano B con autoriduzione del debito e nazionalizzazione della Banca centrale. E ieri è tornato a scrivere sul suo blog. Paragonando l'accordo di Bruxelles al "golpe dei colonnelli" del 1967. Parlando di "resa della Grecia", "vassallo dell'Euro-gruppo". Ora, forse, si potrebbe prevedere un discorso pubblico. E forse una ridiscesa in politica, con i dissidenti di Syriza. Forse temporanea, prima di una risalita internazionale come frontman della malridotta sinistra europea e/o dei partiti populisti. Potrebbe succedere; comunque la si pensi, Varoufakis è un grande performer, e ha un suo stile nell'argomentare. [...] La sua frase migliore resta [...]: "La nostra eurozona è un posto inospitale per le persone rispettabili". L'ironia è britannica, l'aggressività è mediterranea, il talento da attore protagonista indubbio. Verrebbe da dire che è il personaggio dell'estate, se non fosse un personaggio di un dramma, se non si temesse di seguire più lui dei drammi veri. 


 

martedì 14 luglio 2015

La leggenda di Maria Maddalena

Paolo Di Stefano
Maddalena superstar
Tre personaggi in uno: peccatrice, convertita, mistica 
Corriere della Sera, 15 gennaio 1995


... Per affrontare la complessità di un personaggio che non finisce di eccitare la fantasia contemporanea, abbiamo incontrato Giovanni Pozzi, padre minore cappuccino, nato a Locarno nel 1923, allievo di Billanovich e di Contini, per tre decenni professore di Letteratura italiana all'Università svizzera di Friburgo, filologo e studioso della poesia barocca, in particolare di Giovan Battista Marino (sua è l'edizione dell' Adone); indagatore, tra l'altro, dell'oratoria sacra, dei rapporti intimi tra parola e immagine nel Seicento, della "poesia per gioco", degli enigmi iconico poetici. La sua ultima raccolta di saggi, dopo La parola dipinta, si intitola Sull' orlo del visibile parlare (Adelphi). 
Padre Pozzi, come si sviluppa l' immensa fortuna di Maria Maddalena?
"La sua fortuna letteraria e artistica, che risale all'alto Medioevo e a ondate successive arriva fino a noi, va tenuta ben distinta rispetto alla fortuna devozionale e alla leggenda, anche se vi si collega per molti aspetti. Il personaggio di Maria Maddalena nasce dai Vangeli e sin dall' inizio si sviluppa in due direzioni: da una parte negli apocrifi, dall' altra negli gnostici. E' noto che la leggenda confonde tre Marie evangeliche: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni e che ha seguito il Cristo sul Calvario; Maria di Betania, che fu rimproverata dalla sorella Marta e difesa da Gesu' , ed è la sorella di Lazzaro; e la generica convertita di cui parla Luca, che ottenne da Gesù il perdono dei propri peccati. In Giovanni, Gesù risorge a Maddalena, che diverrà la sua prima messaggera. Sono tutti episodi molto suggestivi che vengono fusi in un solo personaggio dalla leggenda".
Perche' questa fusione? 
"La sintesi si deve a Gregorio Magno e si impone in Occidente. Dal IX secolo, le "vite dei santi", che fioriscono con il rafforzarsi della devozione, divulgano la leggenda di una Maria Maddalena che unisce in sé le tre figure evangeliche. Ormai la filologia testamentaria è favorevole alla distinzione. In Oriente i tre personaggi sono sempre rimasti separati".
Ma che cosa viene aggiunto dalla leggenda rispetto alle informazioni evangeliche? 
"La leggenda completa e ricostruisce le vicende della santa dopo l'ascensione di Cristo, per esempio il viaggio su una nave senza timone che si conclude per miracolo con l'approdo a Marsiglia. Poi, tutta la parte penitenziale, la vita eremitica nella grotta di Sainte Baume vicino a Marsiglia. Questo è il risultato di un altro innesto, quello della leggenda di Maria Egiziaca, un personaggio inventato che non fa concorrenza a Maria Maddalena ma la completa".
Questo cumulo di personaggi in uno contribuisce all' ambiguita' di Maria Maddalena e alla possibilita' di raffigurazioni e di letture diverse... 
"Certo. Per esempio, prendiamo un fatto in fondo poco spettacolare ma molto significativo e di grande impatto: la Maria Maddalena che sta ai piedi della croce commette un'infrazione perché ai piedi della croce dovrebbe stare un discepolo. Ma quell' infrazione Gesu' la approva e quell' episodio permetterà a Maria Maddalena di assumere un ruolo molto importante nella promozione della donna. Forse è per questo che ha avuto tanta fortuna presso gli gnostici. Poi, è chiaro che i diversi momenti storici mettono in evidenza un aspetto della santa e ne tengono in ombra altri".
In questo senso, allora, il romanzo di Brignole Sale* si puo' considerare una "summa" dei motivi che accompagnano il personaggio di Maria Maddalena? 
"Dal punto di vista della vicenda, Brignole Sale non inventa assolutamente nulla. La vita di Maddalena è quella data dall' agiografia. Brignole Sale ricama sui motivi, soprattutto sulla bellezza nei suoi vari aspetti, che è il motivo segreto che percorre tutto il romanzo, così come altre metafore: il fuoco, rappresentato prima dalle fiamme del desiderio e poi dal pallore della cenere; e poi l' acqua, il pianto, le lacrime. Questi motivi torneranno combinati in tutti i modi possibili. Il fatto più significativo è che Brignole Sale adotta la forma romanzo, un genere di consumo ancora agli inizi, assumendo un argomento sacro che si presta bene alla rappresentazione della bellezza. Negli inserti poetici, che sono delle amplificazioni, Brignole Sale sviluppa le sue fantasie barocche. Va detto, tra l'altro, che l'autore scrisse questo libro prima della conversione, quindi ha molte venature libertine, è un tipico impasto barocco di sacro e profano. Come la sua eroina, del resto: per questo piace tanto al gusto moderno".
Ma come si può consigliare la lettura di Brignole Sale al lettore moderno? 
"Consiglierei di leggere il romanzo a piccole porzioni, magari seguendo l' indice tematico (erano gli autori secenteschi stessi a compilare indici tematici per le loro opere), saltando qua e là a seconda dei temi, che sono come lanterne magiche. La lingua e l'eccesso di metafore possono essere d'ostacolo a una lettura continuata. Sarebbe come mangiare un cibo con troppa salsa".
Dunque, è la metamorfosi di Maria Maddalena a sollecitare diversi punti di vista. Puo' fare qualche esempio sul piano figurativo? 
"La rappresentazione iconografica della Maddalena viene da lontano: basti pensare alla pittura medievale. Il Beato Angelico la rappresenta attaccata ai piedi di Gesu' anche al momento della deposizione. Botticelli la ferma nell'attimo della conversione. Masaccio, nei primi del Quattrocento, la raffigura ai piedi della croce, in rosso, con lunghi capelli sciolti. Vincent Malo ce la fa vedere mentre lava i piedi al Cristo deposto. In pieno XV secolo, di solito abbiamo la figura di Maria Maddalena sola con un vaso di unguenti. Ovviamente, con una grande eccezione, quella di Donatello, straordinaria. Tra fine Quattro e inizio Cinquecento c'è la cortigiana, elegante e con vesti sontuose, a volte discinta. Con Tiziano abbiamo la penitente nella grotta, ma il tema biblico è un modo per evitare la censura di fronte alla nudità: basti pensare a tutte le Susanne cinquecentesche al bagno. Sostituire Venere con una santa era un artificio per rispettare gli obblighi imposti dalla Chiesa. In altri casi, non c'è nudo, come nei bellissimi dipinti di La Tour, per esempio quello con lo specchio. In Caravaggio trionfa l'estasi, così come in Rubens. Le varianti sono moltissime: dalla rappresentazione erotica della peccatrice, a quella mistica e devozionale, a quella penitenziale, eccetera".
E la letteratura? 
"L' esplosione si ha nel Seicento, specialmente in Francia. Ricordo che in Francia nel Medioevo Maria Maddalena (le cui reliquie si conservano in tre luoghi: a Vézelay, a Marsiglia e a Efeso) viene assunta come rappresentante di un grande ordine monastico, quello di Cluny, e diventa la protettrice dell' eremitaggio. La sua importanza, in Francia, dura fino all' Ottocento, quando Maria Maddalena diventa la bandiera della restaurazione cattolica (penso, per esempio, al padre Lacordaire). Ma torniamo al barocco. L'autore piu' famoso che nel Seicento si occupa di Maddalena è il provenzale Pierre de Saint Louis, il quale scrive un poema barocco straordinario che fu fonte di dileggio da parte della cultura francese, mal disposta verso il concettismo. Questo Pierre costruisce, attorno alla Maddalena, giochi incredibili, acrostici, anagrammi, metafore ardite. Poi c'è una ricca serie di pezzi lirici, madrigali e sonetti: in Italia, Marino ne ha di bellissimi. Sarebbe inoltre straordinario raccogliere le prediche secentesche su Maria Maddalena come esempi della più incredibile eloquenza barocca".
Torniamo indietro, abbiamo dimenticato Aretino, che pure si interessa al personaggio. 
"Aretino, ovviamente, aveva i suoi buoni motivi per parlare di Maria Maddalena. Ma la assume come pendant dei personaggi piu' osceni, perché gli serve giocare con la mistica".
E il Novecento? Testori, per esempio, fa un libro su Maddalena con proprie poesie accompagnate da molti quadri, soprattutto barocchi. 
"Lasciamo perdere Testori. Certo, poteva piacergli il personaggio di Maria Maddalena: ma i suoi ultimi testi sono le miscele disgustose di un dannunziano cattolico, piene di sporcizie. Crede di essere barocco, ma il barocco lombardo è un'altra cosa".


* Anton Giulio Brignole Sale, Maria Maddalena peccatrice e convertita. Scritto nel 1636, è stato riproposto in una edizione a cura di Delia Eusebio nella collezione Pietro Bembo (Guanda, pp. 541), diretta da Dante Isella e Giovanni Pozzi.


Beato Angelico




Beato Angelico







Beato Angelico





Vincent Malo (Sainte Baume)








Masaccio