domenica 31 ottobre 2021

Nella polemica contro Mach, Lenin aveva torto

 


 

Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020

Nel 1909, quattro anni dopo la fallita Rivoluzione del 1905 e otto anni prima della vittoriosa Rivoluzione d’Ottobre, Lenin, firmandosi con lo pseudonimo «V. Il’in», pubblica Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, il suo testo più filosofico. Bersaglio politico implicito contro cui è indirizzato il testo è Aleksandr Bogdanov, fino a quel momento suo amico e alleato, con lui fondatore e principale testa pensante dei bolscevichi.

Negli anni che precedono la Rivoluzione Aleksandr Bogdanov aveva pubblicato un lavoro in tre volumi per offrire una base teorica generale al movimento rivoluzionario. Faceva riferimento a una prospettiva filosofica chiamata empiriocriticismo. Lenin inizia a vedere in Bogdanov un rivale e ne teme l’influenza ideologica. Nel suo libro critica ferocemente l’empiriocriticismo, «filosofia reazionaria», e difende quello che chiama materialismo.

Empiriocriticismo è un nome con cui Ernst Mach designava idee come le proprie. Ernst Mach, ricordate? La fonte d’ispirazione filosofica per Einstein e Heisenberg.

Mach non è un filosofo sistematico e talvolta manca di chiarezza, ma ha avuto un’influenza sulla cultura contemporanea che credo sia sottovalutata. Ha ispirato l’inizio di entrambe le grandi rivoluzioni della fisica del XX secolo, relatività e quanti. E' “stato al centro del dibattito politico-filosofico che ha portato alla Rivoluzione russa. Ha avuto un’influenza determinante sui fondatori del Circolo di Vienna (il cui nome pubblico era «Verein Ernst Mach»), l’ambiente filosofico dove è germogliato l’empirismo logico, radice di tanta filosofia della scienza contemporanea, che eredita da Mach la retorica «antimetafisica». La sua influenza arriva al pragmatismo americano, altra radice della filosofia analitica odierna.

La sua zampata arriva alla letteratura: Robert Musil, fra i massimi romanzieri del Novecento, ha svolto la tesi di dottorato su Ernst Mach. Le agitate discussioni del protagonista del suo primo romanzo, I turbamenti del giovane Törless, ripercorrono i temi della tesi sul senso della lettura scientifica del mondo. Le stesse questioni attraversano in filigrana la sua opera maggiore, L’uomo senza qualità, fin dalla prima pagina, che si apre con una sorniona doppia descrizione, scientifica e quotidiana, di una giornata di sole.

L’influenza di Mach sulle rivoluzioni della fisica è stata quasi personale. Mach era amico di lunga data del padre e lui stesso padrino di Wolfgang Pauli, l’amico con cui Heisenberg discuteva di filosofia. Mach era filosofo preferito di Schrödinger, che da ragazzo aveva letto praticamente ogni sua riga. Einstein aveva come amico e compagno di studi a Zurigo Friedrich Adler, figlio del cofondatore del Partito Socialdemocratico austriaco, promotore di una convergenza di idee fra Mach e Marx. Adler diverrà dirigente del Partito Socialdemocratico Operaio; per protestare contro la partecipazione dell’Austria nella Grande Guerra assassinerà il primo ministro austriaco Karl von Stürgkh, e in prigione scriverà un libro su… Mach. Insomma Ernst Mach sta a un impressionante crocevia fra scienza, politica, filosofia e letteratura. E pensare che oggi qualcuno vede scienze naturali, scienze umane e letteratura come ambiti impermeabili l’uno all’altro…

Obiettivo polemico di Mach è stato il meccanicismo settecentesco: l’idea che tutti i fenomeni siano prodotti da particelle di materia che si muovono nello spazio. Secondo Mach, i progressi della scienza indicavano che questa nozione di «materia» è un’assunzione «metafisica» ingiustificata: un modello utile per un po’, ma dal quale bisogna imparare a uscire perché non diventi pregiudizio metafisico. Mach insiste che la scienza si deve liberare da ogni assunzione «metafisica». Basare la conoscenza solo su ciò che è «osservabile».

Ricordate? Questa è esattamente l’idea di partenza del magico lavoro di Heisenberg concepito sull’isola di Helgoland. Il lavoro che ha aperto la strada alla teoria dei quanti e il racconto di questo libro. Ecco come si apre l’articolo di Heisenberg: «L’obiettivo di questo lavoro è gettare le basi per una teoria di meccanica quantistica basata esclusivamente su relazioni fra quantità che siano in linea di principio osservabili», quasi una citazione di Mach.

L’idea che la conoscenza si fondi su esperienza e osservazioni non è certo originale: è la tradizione dell’empirismo classico che risale a Locke e Hume, se non ad Aristotele. L’attenzione alla relazione fra soggetto e oggetto della conoscenza e il dubbio sulla possibilità di conoscere il mondo «come veramente è» avevano portato, nel grande idealismo classico tedesco, alla centralità filosofica del soggetto che conosce. Mach, scienziato, riporta l’attenzione dal soggetto all’esperienza stessa – che Mach chiama «sensazioni». Studia la forma concreta con cui la conoscenza scientifica cresce sulla base dell’esperienza. Il suo lavoro più conosciuto esamina l’evoluzione storica della meccanica. La interpreta come sforzo di sintetizzare nel modo più economico i fatti noti sul movimento rivelati dalle sensazioni.

La conoscenza non è quindi vista da Mach come dedurre o indovinare un’ipotetica realtà al di là delle sensazioni, ma come la ricerca di un’organizzazione efficiente del nostro modo di organizzare queste sensazioni. Il mondo che ci interessa, per Mach, è costituito da sensazioni. Qualunque assunzione su cosa si nasconda «dietro» le sensazioni è sospetta di «metafisica».

La nozione di «sensazione» in Mach è tuttavia ambigua. È la sua debolezza, ma anche la sua forza: Mach prende questo concetto dalla fisiologia delle sensazioni fisiche e lo fa diventare una nozione universale indipendente dalla sfera psichica. Usa il termine «elementi» (in un senso simile alle dhamma della filosofia buddhista). «Elementi» non sono solo le sensazioni che prova un essere umano o un animale. Sono qualunque fenomeno che si manifesti nell’universo. Gli «elementi» non sono indipendenti: sono legati da relazioni, che Mach chiama «funzioni», e sono queste che la scienza studia. Anche se imprecisa, quella di Mach è dunque una vera e propria filosofia naturale che sostituisce il meccanicismo della materia che si muove nello spazio con un insieme generale di elementi e funzioni. L’interesse di questa posizione filosofica è che elimina tanto ogni ipotesi su una realtà dietro le apparenze, quanto ogni ipotesi sulla realtà del soggetto che ha esperienza. Per Mach non vi è distinzione fra mondo fisico e mondo mentale: la «sensazione» è egualmente fisica e mentale. È reale. Così descrive Bertrand Russell la stessa idea: «Il materiale primo di cui è fatto il mondo non è di due tipi, materia e mente; è soltanto arrangiato in strutture differenti dalle sue inter-relazioni: alcune strutture le chiamiamo mentali, altre fisiche». Sparisce l’ipotesi di una realtà materiale dietro ai fenomeni, sparisce l’ipotesi di uno spirito che conosce. Chi ha conoscenza, per Mach, non è il «soggetto» dell’idealismo: è la concreta attività umana, nel concreto corso della storia, che impara a organizzare in forma via via migliore i fatti del mondo con cui interagisce.

Questa prospettiva storica e concreta entra facilmente in risonanza con le idee di Marx e Engels, per i quali la conoscenza è pure calata nella storia dell’umanità. La conoscenza viene svestita di ogni carattere astorico, di ogni ambizione di assoluto o pretesa di certezza, e calata nel processo concreto dell’evoluzione biologica, storica e culturale dell’uomo sul nostro sul nostro pianeta. Viene interpretata in termini biologici ed economici, come strumento per semplificare l’interazione con il mondo. Non è acquisizione definitiva, ma processo aperto. Per Mach il sapere è la scienza della natura, ma la sua prospettiva non è lontana dallo storicismo del materialismo dialettico. La consonanza fra le idee di Mach e quelle di Engels e Marx è sviluppata da Bogdanov e trova consensi nella Russia prerivoluzionaria.”
La reazione di Lenin è tagliente: in Materialismo ed empiriocriticismo attacca violentemente Mach, i suoi discepoli russi, e implicitamente Bogdanov. Lo accusa di fare filosofia «reazionaria», il peggiore degli insulti. Nel 1909 Bogdanov è espulso dal comitato editoriale del «Proletario», il giornale underground dei bolscevichi, e poco dopo dal Comitato Centrale del Partito.

La critica di Lenin a Mach e la risposta di Bogdanov ci interessano. Non perché Lenin sia Lenin, ma perché la sua critica è la reazione naturale alle idee che hanno portato alla teoria dei quanti. La stessa critica viene naturale anche a noi e la questione dibattuta da Lenin e Bogdanov ritorna nella filosofia contemporanea ed è una chiave per comprendere la valenza rivoluzionaria dei quanti.

Lenin accusa Bogdanov e Mach di essere «idealisti». Un idealista, per Lenin, nega l’esistenza di un mondo reale fuori dallo spirito e riduce la realtà al contenuto della coscienza.
“Se esistono solo «sensazioni», argomenta Lenin, allora non esiste una realtà esterna, vivo in un mondo solipsistico dove ci sono solo io con le mie sensazioni. Assumo me stesso, il soggetto, come unica realtà. L’idealismo è per Lenin la manifestazione ideologica della borghesia, il nemico. All’idealismo Lenin oppone un materialismo che vede l’essere umano, la sua coscienza, lo spirito, come aspetti di un mondo concreto, oggettivo, conoscibile, fatto soltanto di materia in moto nello spazio.”
“Comunque si giudichi il suo comunismo, Lenin è stato senza dubbio un politico straordinario. Anche la sua conoscenza della letteratura filosofica e scientifica è impressionante; se oggi eleggessimo politici così colti, forse sarebbero più efficaci anche loro. Ma come filosofo Lenin non è un granché. L’influenza del suo pensiero filosofico è dovuta più al suo lungo dominio della scena politica che alla profondità dei suoi argomenti. Mach merita di meglio.

Bogdanov risponde a Lenin che la sua critica sbaglia il bersaglio. Il pensiero di Mach non è idealismo, ancor meno solipsismo. L’umanità che conosce non è un soggetto trascendente isolato, non è l’«io» filosofico dell’idealismo: è l’umanità reale, storica, parte del mondo naturale. Le «sensazioni» non sono «dentro la nostra mente». Sono fenomeni del mondo: la forma nella quale il mondo si presenta al mondo. Non arrivano a un io separato dal mondo: arrivano alla pelle, al cervello, ai neuroni della retina, ai percettori dell’orecchio, tutti elementi della natura.

Lenin nel suo libro definisce «materialismo» la convinzione che esista un mondo fuori dalla mente. Se è questa la definizione di «materialismo», Mach è certo materialista, siamo tutti materialisti, anche il papa è materialista. Ma poi per Lenin l’unica versione del materialismo è l’idea che «non c’è null’altro nel mondo che materia in moto nello spazio e nel tempo», e che noi possiamo arrivare a «verità certe» nel conoscere la materia. Bogdanov mette in luce la debolezza tanto scientifica quanto storica di queste affermazioni perentorie. Il mondo è fuori dalla nostra mente, certo, ma è più sottile di questo materialismo ingenuo. L’alternativa non è soltanto fra l’idea che il mondo esista solo nella mente, oppure che sia fatto unicamente di particelle di materia in moto nello spazio.”

Mach non pensa certo che non ci sia nulla fuori dalla mente. Al contrario, gli interessa proprio ciò che sta fuori dalla mente (qualunque cosa sia la «mente»): la natura, nella sua complessità di cui siamo parte. La natura si presenta come un insieme di fenomeni, e Mach raccomanda di studiare i fenomeni, costruire sintesi e strutture di concetti che ne rendano ragione, non postulare soggiacenti realtà.

La proposta radicale di Mach è di non pensare ai fenomeni come manifestazioni di oggetti, ma pensare agli oggetti come nodi di fenomeni. Non è una metafisica dei contenuti della coscienza, come la legge Lenin: è un passo indietro rispetto alla metafisica degli oggetti-in-sé. Mach è sferzante: «La concezione del mondo [meccanicista] ci appare mitologia meccanica [come] la mitologia animistica delle religioni antiche».

Einstein ha riconosciuto più volte il suo debito verso Mach. La critica all’assunzione (metafisica) dell’esistenza di uno spazio fisso reale «entro cui» si muovono le cose ha aperto le porte alla sua relatività generale.”
“Nello spazio aperto dalla lettura della scienza che fa Mach, che non dà per scontata la realtà di qualcosa se non nella misura in cui ci permette di organizzare i fenomeni, si infila Heisenberg, per togliere all’elettrone la sua traiettoria e reinterpretarlo solo nei termini delle sue manifestazioni.

In questo stesso spazio si apre la possibilità dell’interpretazione relazionale della meccanica quantistica, in cui gli elementi utili per “descrivere il mondo sono manifestazioni di sistemi fisici gli uni agli altri, non proprietà assolute di ciascun sistema.

Bogdanov rimprovera Lenin di fare della «materia» una categoria assoluta e astorica, «metafisica» nel senso di Mach. Gli rimprovera soprattutto di dimenticare la lezione di Engels e Marx: la storia è processo, la conoscenza è processo. La conoscenza scientifica cresce, scrive Bogdanov, e la nozione di materia propria della scienza del nostro tempo potrebbe rivelarsi solo una tappa intermedia nel cammino della conoscenza. La realtà potrebbe essere più complessa dell’ingenuo materialismo della fisica settecentesca. Parole profetiche: pochi anni dopo Werner Heisenberg apre le porte al livello quantistico della realtà.

Altrettanto impressionante è la risposta politica di Bogdanov a Lenin. Lenin parla di certezze assolute. Presenta il materialismo storico di Marx ed Engels come qualcosa di acquisito per sempre. Bogdanov osserva che questo dogmatismo ideologico non solo non coglie la dinamica del pensiero scientifico, ma porta anche al dogmatismo politico. La Rivoluzione russa – argomenta Bogdanov nei turbolenti anni che seguono questa Rivoluzione – ha creato una struttura economica nuova. Se la cultura è influenzata dalla struttura economica, come ha suggerito Marx, allora la società post-rivoluzionaria deve poter produrre una cultura nuova, che non può più essere il Marxismo Ortodosso concepito prima della Rivoluzione.

Il programma politico di Bogdanov era lasciare potere e cultura al popolo, per nutrire la cultura nuova, collettiva, generosa auspicata dal sogno rivoluzionario…

“Il concetto chiave della produzione teorica di Bogdanov è la nozione di «organizzazione». La vita sociale è organizzazione del lavoro collettivo. La conoscenza è organizzazione dell’esperienza e dei concetti. Possiamo comprendere la realtà come organizzazione, struttura. L’immagine del mondo che Bogdanov propone è nei termini di una scala di forme di organizzazione via via più complesse: da elementi minimi che interagiscono direttamente, attraverso l’organizzazione della materia nel vivente, lo sviluppo biologico dell’esperienza individuale organizzata in individui, fino alla conoscenza scientifica, che è, per Bogdanov, esperienza organizzata collettivamente. Attraverso la cibernetica di Norbert Wiener e la teoria dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy, queste idee avranno un’influenza poco riconosciuta ma profonda sul pensiero moderno, sulla nascita della cibernetica, sulla scienza dei sistemi complessi, fino al realismo strutturale contemporaneo.”

 


 

sabato 30 ottobre 2021

Lenin ritorna. Allegria!

Annuncio su Instagram istitutogramscitorino "Ignorata o fraintesa dalle socialdemocrazie europee, la dialettica suscita il grande interesse di Lenin, che la studia e la usa come arma teorica per l'individuazione delle contraddizioni dell'arretrata Russia zarista e nel confronto con le altre correnti politiche del tempo. Affiancando allo studio di Marx la dialettica di Hegel, Lenin sottrae il marxismo all'ortodossia della Seconda Internazionale, riflettendo su nodi critici irrisolti quali la teoria dello Stato e la prospettiva comunista. Alla luce di queste considerazioni, l'autore si propone di ricostruire alcune tappe del dibattito sulla dialettica dopo Hegel, concentrandosi non solo sugli aspetti strettamente teorici, ma anche sul peso che essa ha avuto nelle analisi e nelle scelte politiche di Lenin, sullo sfondo delle vicende che hanno preparato la Rivoluzione d'ottobre e accompagnato la costruzione dell'URSS". ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Adesso che sappiamo tutto (o quasi) su Lenin e la dialettica, possiamo di nuovo estasiarci sulle prodezze del grande leader sovietico. Restano i nodi critici irrisolti, ma cosa volete che siano rispetto alla gloria della rivoluzione vittoriosa! Lenin ce l'ha fatta, è questo che conta. Poi è pure aperto al presente: riflette sui nodi irrisolti, la teoria dello Stato, roba da poco: Bobbio ha vinto la sua battaglia contro l'ambiguità del Pci proprio su questo e noi di questo abbiamo bisogno, di tornare agli anni Settanta del Novecento. L'altro nodo critico irrisolto sarebbe la prospettiva comunista. Da un punto di vista teorico tutto funziona, perché no. Il comunismo è sempre da riscoprire, da ri-fondare. Poi Rifondazione comunista è finita a pezzi, solo a Torino erano in cinque a riproporre quella musica e nessuno di loro è riuscito a entrare in consiglio comunale. Quale comunismo, poi? Quello storico è miseramente crollato trent'anni fa. Tanto per dire. Solo sul piano metafisico una risorgenza (o rifondazione che sia) è possibile. Chi lo avrebbe detto? Il comunismo, lungi dall'essere il movimento delle cose reali, da ultimo diventa una stella che risplende nel cielo delle idee. Ad maiora! Più in alto e più oltre...

mercoledì 27 ottobre 2021

Barbero e le donne

Matteo Marchesini,Caro Barbero, quali donne hanno successo in una società maschilista?,Il Foglio, 27 ottobre 2021 E così anche Alessandro Barbero, dopo essersi chiesto in un’intervista se non ci siano per caso “differenze strutturali” tra uomini e donne che rendono alle donne più difficile il successo in certi campi, è stato travolto dall’intero spettro di reazioni che caratterizza i dibattiti in tempo reale sul web: spettro che va dal più grossolano degli insulti alla più sottile delle difese, dalle accuse di biologismo a ricostruzioni filologiche così scrupolose da far sembrare due righe di quotidiano un frammento presocratico. In realtà, chi non si è occupato del tema come economista o psicologo sociale non può che tenere il tono di una discussione a tavola – poco importa se cordiale o agitata – da semplice “cittadino”, per dirla alla Barbero. Se poi è maschio, potrebbe prudentemente limitarsi a porre qualche domanda partendo da esperienze personali. L’ipotesi di Barbero è nel senso letterale discutibile, cioè degna di essere discussa; ma l’idea che la differenza delle carriere si debba a una minore aggressività delle donne mi lascia perplesso. Dipenderà dal fatto che ho un rapporto irrisolto con il femminile, e che lo percepisco a volte come minaccioso, manipolatorio o insondabile (sono un lettore empatico di Tozzi, Moravia, Pavese), ma non mi sembra vero. Bisogna vedere cosa si intende per aggressività. Non è detto che quella più chiassosa sia la più intensa ed efficace. In ogni caso mi stupisco quando proprio da parte femminista si accetta una simile distinzione (escludendo come pervertite le donne di piglio “thatcheriano”). Nel 1999, appena uscito dal liceo, fui invitato da un insegnante a un’assemblea di suoi colleghi, riuniti in un movimento per l’“autoriforma gentile” (minuscolo) della scuola. Quando parlai della violenza nei gruppi di adolescenti, una pedagogista m’interruppe dicendo che “sono dinamiche esclusivamente maschili”. Rimasi così stupefatto da ammutolire. La mia storia scolastica mi dimostrava cosa possono fare alle compagne e ai compagni più deboli delle studentesse che oggi si chiamerebbero inadeguatamente bulle; e proprio allora, da libraio e aspirante scrittore, iniziavo a conoscere i meccanismi vessatori che governano l’editoria per ragazzi, a gestione prevalentemente femminile. Barbero però non parla solo di aggressività, ma anche di “spavalderia” e “sicurezza di sé”. E qui, per ciò che riguarda la mia esperienza, il bilancio è diverso. Penso ad esempio a quel che capita nella redazione dell’Età del ferro, la rivista diretta da Siti, Manacorda e Berardinelli a cui collaboro. Negli incontri e negli interventi, la maggioranza maschile è schiacciante. Ne abbiamo discusso spesso. C’è tra noi una complicità che inavvertitamente emargina altre voci? Mi chiedo se questa disparità non abbia oscuramente a che fare col taglio militante della rivista, con la sua vocazione alla critica appunto “spavalda”, alla stroncatura, e a un saggismo che collega con un’induzione un po’ spericolata i propri fatti personali all’interpretazione del mondo. Sono tratti poco femminili? So che alcune amiche letterate vedono in quello stile i segni di un’hybris infantile. Diffidano dei vaghi giudizi sintetici a priori: preferiscono un registro da impeccabili studiose o un’ironia magari spietata ma tutta matter of fact. Può darsi che un’educazione più rigorosa o, ehm, castrante, le trattenga dal tracciare un ponte tra il vissuto e un sapere tendenzialmente oggettivo? Non saprei. Certo parecchie volte mi è capitato di assistere a riunioni dove una donna taceva tesa e perplessa, oppure, con un eloquio talmente forbito da rasentare il formalismo, cercava di fissare qualche punto fermo in un dibattito altrimenti tutto fatto di suggestioni che svanivano l’una nell’altra come bolle di sapone. Ma le dichiarazioni di Barbero mi hanno ricordato anche un altro tipo di riunioni e di presenza femminile in minoranza. Anni fa partecipai a un’assemblea organizzata da un partito in una casa privata. C’erano economisti, avvocati, giornalisti, storici dell’arte: doveva essere un laboratorio programmatico, ma divenne presto un dialogo da “brevi cenni sull’universo”. Al tavolo sedeva un’unica donna: sui trent’anni, di una bellezza e di un’eleganza convenzionali e vistose. Tra gli epigrammi lanciati dai vecchioni ai suoi fianchi, la sua voce si alzava ogni tanto tremando. Tendeva a fare un po’ la lezione, e diceva continuamente “appunto”, come a un esame. Metteva ansia e imbarazzo. Appena taceva, i suoi vicini le sussurravano parole galanti. Capii che incarnava la donna come la immaginavano gli organizzatori del convegno, anziani e benestanti. Ecco un altro tema a cui un uomo può alludere solo camminando sulle uova: se è vero, manzonianamente, che i sopraffattori hanno anche la colpa di corrompere le vittime, ci si può chiedere quali donne hanno successo in una società maschilista – quella società in cui media e partiti, editori e festival le usano come testimonial.

martedì 26 ottobre 2021

L'infinito


 

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

PARAFRASI

Sempre caro fu a me questo colle solitario
e anche questa siepe, che sottrae alla mia vista
una parte tanto ampia dell'orizzonte più lontano.
Ma rimanendo seduto e osservando il quadro con cura,
io mi figuro mentalmente spazi sterminati oltre la siepe,
e silenzi umanamente inimmaginabili
e profondissima quiete, tanto che per poco
il mio animo non si spaventa. E non appena odo
il vento stormire tra le piante, paragono
quell'infinito silenzio a questo rumore:
e mi viene in mente l'idea dell'eternità,
i tempi già trascorsi e dimenticati, e quello attuale e
ancor vivo, con la sua voce. Così il mio pensiero
sprofonda in quest'immensità dello spazio e del tempo:
e sparire in questo mare mi dà un senso di dolce abbandono.

Versi scritti duecento anni fa. La situazione descritta non ha nulla di eccezionale: la coesistenza del finito e dell'infinito nella visione, e nell'ascolto, di un paesaggio. Tutta la magia poetica deriva dal ricorso al sublime nell'espressione. Si fa plausibile l'annullamento del desiderio in uno stato di abbandono a una appartenenza di ordine cosmico. La parafrasi può essere approssimativa. Dà però un'idea dei meccanismi messi in atto. Meccanismi che Leopardi stesso porta alla luce nello Zibaldone, quando scrive:
Del rimanente, alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l’immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario.  [1820]
Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’Infinito e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per la lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito ec. ec. ec.
[1821]
A queste considerazioni appartiene il piacere che può dare e dà, quando non sia vinto dalla paura, il fragore del tuono, massime quand’é piú sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una foresta o tra i vari oggetti di una campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per le strade ec. Perocché oltre la vastità e l’incertezza e confusione del suono non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpestio de’ piedi o la voce ec. Perocché l’eco non si vede ec. E tanto piú quanto il luogo e l’eco è piú vasto, quanto piú l’eco vien da lontano, quanto piú si diffonde; e molto piú ancora se vi si aggiunge l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono né i punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto piú quanto piú negligentemente son messe e toccando il soggetto, senza mostrar l’intenzione per cui ciò si fa, anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre e di non toccarli se non per ispontanea e necessaria congiuntura e indole dell’argomento ec. [1821]
La consapevolezza poetica ha anticipato quella teorica. Di che si tratta alla fine? Il poeta arriva a fissare un momento di ebbrezza cosmica partendo dall'idea di un orizzonte nascosto al suo sguardo. La poesia resta, l'incanto si rinnova a ogni lettura. Frase per frase, parola per parola. Deus sive natura: per l'effetto di una splendida illusione l'uomo, che contempla il tutto, nel tutto si perde, o si riconosce.

 

lunedì 25 ottobre 2021

Crepax, Valentina e Trockij

 
In Viva Trotsky, una delle avventure di Valentina, Crepax esprime chiaramente il suo credo antistalinista e antiautoritario. La storia parla di un viaggio onirico in cui Valentina si trova immersa in uno scontro tra zaristi e bolscevichi che si contendono la conquista di un treno in corsa. L’assalto alla locomotiva diventa metafora della conquista del potere: liberatasi degli zaristi e dei loro alleati occidentali, Valentina saluta la vittoria della rivoluzione rispondendo al pugno chiuso dei “rossi” con le parole del poeta Alexandr Blok (“Con tutto il corpo, con tutto il cuore, con tutta la coscienza, ascoltiamo la rivoluzione”), ma subito dopo vede a terra il corpo senza vita di Trotskij, il conducente della locomotiva. Un soldato le comunica che anche Ulianov (Lenin) è morto e che ora comanda Dzugasvili, il vero nome di Stalin. Poi, in una semplice battuta, Crepax delinea l’esito finale della Rivoluzione russa: “La Burocrazia Ferroviaria (il Soviet Supremo) garantisce il perfetto funzionamento del nostro treno. Gli altri treni non ci interessano!”. Come a dire: la rivoluzione finisce qui. A una malinconica Valentina, tornata alla realtà, non resta che scrivere il nome di Trotskij sul finestrino del treno. A futura memoria.
 
La tomba di Trotsky nel patio della sua casa a Città del Messico

sabato 16 ottobre 2021

Tre piani, il film di Nanni Moretti

 


Simone Lorenzati

Tre piani è l’ultimo film di Nanni Moretti. Doveva uscire un anno e mezzo fa, ossia ad aprile 2020, ma, com’è noto, si era in piena pandemia covid. E così tutto è inevitabilmente slittato. Ma viene da pensare, malignamente forse, che si sarebbe ancora potuto attendere altro tempo. Già perché, Tre piani, è una pellicola piuttosto deludente. Lo sarebbe in generale ma, trattandosi di Moretti, la delusione risulta ancora più accentuata. Il film è tratto dall’omonimo libro dello scrittore israeliano Eshkol Nevo – si passa semplicemente da Tel Aviv a Roma – e ci mostra tre famiglie che vivono all’interno dello stesso palazzo. E già dalla prima scena, un incidente automobilistico inquadrato in tutta la sua crudezza, le vite delle tre famiglie cominciano ad intrecciarsi. Famiglie cupe, scure, rigidissime. Ed incapaci di cambiare, fosse pur solo minimamente, per poter affrontare il susseguirsi degli eventi. Nanni Moretti si perde in storie accennate e mai davvero approfondite, in una sequenza di eventi che si potrebbero tranquillamente già ipotizzare di volta in volta, per tacere di un sentimentalismo da telenovela che, talvolta, fa capolino. Con l’intento, probabilmente, di alleggerire la cupezza delle tre storie. E rendendole così, invece, pure ridicole. Intendiamoci. Ci sono spunti anche interessanti, c’è un voler creare una sorta di psicanalisi collettiva. Ma, per l’appunto, mai un approfondimento, mai un guizzo, mai un colpo di scena. Che ne è del Moretti che non lasciava adito a dubbi? Quello che creava personaggi approfondendone ogni minimo particolare? E la sua pungente ed amata ironia? Nulla, assolutamente nulla di tutto ciò. La storia, di cinque anni dopo in cinque anni dopo, si perde nella rigidità e nella fissità dei suoi protagonisti. Per poi arrivare ad un melodrammatico finale, con momenti alla Cento Vetrine, di mediasettiana memoria. Che poi, in effetti, ben rispecchia la recitazione di certi giovani protagonisti dell’opera. Ed a proposito di attori. Aleggia dietro di loro una psicologia che tinteggia di sensi di colpa, di sospetti, di solitudini, di attese e di speranze svanite nel nulla. Alba Rohrwacher è bravissima nei panni di una mamma bipolare in perenne attesa del marito Adriano Giannini (buona la sua parte), mentre Margherita Buy, giudice e moglie dello stesso Moretti, è ormai una solida certezza. Bene anche la coppia anziana Anna Bonaiuto – Paolo Graziosi, così come Elena Lietti, moglie di Riccardo Scamarcio. Ecco, Riccardo Scamarcio. Se ancora oggi, nel 2021, il bel ragazzo pugliese viene considerato un attore, beh allora vi sono speranze per ognuno di noi davvero in qualsivoglia campo. Lo stesso Nanni Moretti, infine, convince piuttosto poco pure nelle vesti di attore. La speranza è che Nanni Moretti abbia preso un abbaglio affidandosi ad una storia scritta da altri. La certezza, invece, è che di piano ne sarebbe stato ampiamente sufficiente uno.

venerdì 15 ottobre 2021

Una apparizione

 


 

Gustave Flaubert, L'educazione sentimentale, 1869 


Fu come un'apparizione.
Ella sedeva, tutta sola, al centro della panchina; o almeno, egli non intravide altri, preso dal bagliore sprigionato dagli occhi di lei. Quando lui  passò, ella alzò la testa: Federico curvò d'istinto le spalle; poi, messosi più lontano, dalla sua stessa parte, si voltò a guardarla.
Aveva un cappello di paglia, largo, con dei nastri rosa dietro che il vento faceva palpitare. I capelli neri le scendevano in lunghe bande lisce, sfiorando l'estremità dei grandi sopraccigli, come per serrare teneramente l'ovale del suo viso. La veste di mussola chiara a piccoli pois ricadeva in fittissime pieghe. Era intenta a un lavoro di ricamo; e il profilo diritto, la linea del mento, tutta la sua figura erano incisi nel blu cielo dello sfondo.
Dato che lei non mutava atteggiamento, Federico fece parecchi giri in qua e in là per dissimulare la manovra, poi venne a installarsi proprio accanto al suo parasole, ch'era appoggiato alla panchina; e fingeva d'interessarsi a una scialuppa sul fiume.
Mai aveva visto splendore come quello della sua pelle bruna, né grazia pari a quella dei suoi fianchi, né la dolcezza fragile delle sue dita orlate dalla luce. Contemplava il suo cestino da lavoro con meraviglia, come un oggetto straordinario. Qual era il suo nome, quali la sua dimora, il suo passato, la sua vita? Avrebbe voluto conoscere i mobili della sua stanza, tutti gli abiti che aveva portato, la gente che frequentava; il desiderio di possesso fisico era come soffocato da una voglia più profonda, in una curiosità dolorosa e senza freni. 

 Ce fut comme une apparition :
Elle était assise, au milieu du banc, toute seule; ou du moins il ne distingua personne, dans l’éblouissement que lui envoyèrent ses yeux. En même temps qu’il passait, elle leva la tête; il fléchit involontairement les épaules ; et, quand il se fut mis plus loin, du même côté, il la regarda.
Elle avait un large chapeau de paille, avec des rubans roses qui palpitaient au vent derrière elle. Ses bandeaux noirs, contournant la pointe de ses grands sourcils, descendaient très bas et semblaient presser amoureusement l’ovale de sa figure. Sa robe de mousseline claire, tachetée de petits pois, se répandait à plis nombreux. Elle était en train de broder quelque chose ; et son nez droit, son menton, toute sa personne se découpait sur le fond de l’air bleu.
Comme elle gardait la même attitude, il fit plusieurs tours de droite et de gauche pour dissimuler sa manœuvre ; puis il se planta tout près de son ombrelle, posée contre le banc, et il affectait d’observer une chaloupe sur la rivière.
Jamais il n’avait vu cette splendeur de sa peau brune, la séduction de sa taille, ni cette finesse des doigts que la lumière traversait. Il considérait son panier à ouvrage avec ébahissement, comme une chose extraordinaire. Quels étaient son nom, sa demeure, sa vie, son passé ? Il souhaitait connaître les meubles de sa chambre, toutes les robes qu’elle avait portées, les gens qu’elle fréquentait; et le désir de la possession physique même disparaissait sous une envie plus profonde, dans une curiosité douloureuse qui n’avait pas de limites.

mercoledì 13 ottobre 2021

Stendhal e Leopardi sull'amore

la cristallizzazione in Stendhal 

Circa l’amore, Stendhal ha dato il nome di cristallizzazione a quel processo di idealizzazione dell’altro che in Dell’amore spiega con un aneddoto: “Comincia la prima cristallizzazione. Ci si compiace di ornare di mille perfezioni la donna del cui amore siamo sicuri (qualche volta anche quella di cui non siamo sicuri, ndr), ci si rappresenta la propria felicità in tutti i suoi particolari con infinita compiacenza. Tutto ciò si riduce a esagerare un magnifico possesso, che ci è caduto dal cielo, che ci è sconosciuto, ma siamo certi che è nostro. Lasciate lavorare la testa di un innamorato per ventiquattr’ore, ecco cosa troverete. Nelle miniere di sale di Salisburgo si usa gettare nelle profondità abbandonate della miniera un ramo sfogliato dal gelo; due o tre mesi dopo lo si ritrova coperto di fulgide cristallizzazioni; i più minuti ramoscelli, quelli che non sono più grossi dello zampino di una cincia, sono fioriti di una miriade di diamanti mobili e scintillanti, è impossibile riconoscere il ramo primitivo. Quello che io chiamo cristallizzazione, è l’opera della mente, che da qualunque occasione trae la scoperta di nuove perfezioni dell’oggetto amato”. Ecco all’opera, in termini poetici, quel processo di idealizzazione connesso alla nascita dell’amore che, come Freud ha dimostrato, conferisce all’oggetto amato tutte le qualità sognate e determina in lui l’illusione di essere amato per le sue qualità spirituali, mentre al contrario “solo la gratificazione sensuale ha potuto procurargli tali meriti”. (Gabriele Lodari) 

l’idea della follia in Leopardi 

È degno di nota il fatto che proprio in Aspasia, sorta di poesia-trattato, troviamo esposta una teoria dell’amore (di come l’uomo si innamora e prova amore per la donna) che ha parecchio in comune con la teoria stendhaliana della cristallizzazione: “Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà. […] Vagheggia / Il piagato mortal quindi la figlia / Della sua mente, l’amorosa idea, / Che gran parte d’Olimpo in sé racchiude, / Tutta al volto ai costumi alla favella / Pari alla donna che il rapito amante / Vagheggiare ed amar confuso estima”. Incrociando ancora Stendhal, troviamo, a proposito dell’amore, la denominazione di “follia”, cioè cristallizzazione, come follia, nel senso di un totale travisamento della realtà, di una sostituzione di una realtà immaginata alla realtà effettiva, è l’esperienza testé descritta da Leopardi: “La parola nuova cristallizzazione […] esprime il fenomeno principale di questa follia chiamata amore, follia che procura però all’uomo i più grandi piaceri che sia dato agli esseri della sua specie di gustare sulla terra”. La parola “cristallizzazione” è usata da Stendhal per indicare proprio “quell’atto di follia che ci fa scorgere tutte le bellezze, tutte le specie di perfezione nella donna che cominciamo ad amare” o anche “una certa febbre d’immaginazione, che rende irriconoscibile un oggetto il più delle volte abbastanza ordinario, e ne fa un essere a parte” o ancora un “insieme di illusioni incantevoli”. (Roberto Carnero) http://www.treccani.it/scuola/lezioni/in_aula/lingua_e_letteratura/comparatistica/carnero.html

sabato 2 ottobre 2021

Le conseguenze politiche di Draghi

Massimo Rostagno, DRAGHI: PRESENTE O FUTURO? Il Mondo di Pannunzio, 1 ottobre 2021 La figura di Draghi è come un catalizzatore che accelera reazioni chimiche, altrimenti molto più lente. Queste righe non sono un elogio di Mario Draghi. Sarebbe inutile. L’uomo è l’italiano più conosciuto e riconosciuto al mondo, ha ridato prestigio internazionale al nostro paese, sta affrontando con successo la catastrofe pandemica e rappresenta la garanzia internazionale per l’assegnazione degli ingenti fondi europei. Di fronte ad una tale evidenza dei fatti, non vi è alcun bisogno di aggiungere commenti, perché la realtà si commenta da sé. Piuttosto il vero problema è un altro: l’esperienza del governo Draghi è destinata ad esaurirsi con lui o può essere il seme di una proposta compiutamente politica che ancora non c’è? Se osserviamo i primi mesi del suo governo, l’impatto sul quadro politico appare notevole. I partiti protagonisti della stagione populista e i loro alleati appaiono scompaginati. I penta stellati, che nascono come barbarica forza antiestablishment fanno a gara per allinearsi nel modo più diligente possibile alle decisioni del premier; il partito democratico, in perenne confusione mentale, dopo aver scommesso sull’alleanza strategica con il populismo grillino, si misura con la sua dissoluzione e forse comincia a porsi qualche dubbio. Ma è soprattutto nella Lega che le contraddizioni esplodono producendo uno scenario impensabile fino a qualche settimana fa: il leader finora indiscusso rischia di perdere non soltanto consensi, ma addirittura il proprio partito, osteggiato dalla propria ala “governista”, ormai insofferente alla perenne demagogia del capo. La figura di Draghi, il suo stile politico, la sua tecnica di governo stanno mettendo la maggioranza dei partiti che lo sostengono di fronte alla pochezza delle proprie proposte e del proprio personale politico. È come un catalizzatore che accelera reazioni chimiche, altrimenti molto più lente. L’Italia e l’elettorato italiano sono stati da anni sottoposti alla cura intensiva di messaggi demagogici, mirati ad intercettare i peggiori umori della gente, in una ricerca spesso indecente, del consenso immediato. La cultura del populismo trionfante ha prodotto tonnellate di chiacchiere, dichiarazioni, pose più o meno gladiatorie, con dentro il nulla. La sua egemonia nel dibattito pubblico, con la complicità di gran parte del sistema dell’informazione e dei media, l’ha resa maggioritaria nel paese. Persino un partito come il Partito democratico, nato su presupposti diametralmente opposti e su una base solidamente riformista, di fronte alla potenza dell’ondata demagogica, non ha trovato di meglio che tradire sé stesso per diventarne alleato. Le tragiche elezioni del 2018 hanno consacrato politicamente la forza d’urto populista producendo i due peggiori governi della storia repubblicana: il Conte I e il Conte II. Dopo aver proclamato per legge la fine della povertà, e dichiarato guerra a migliaia di disgraziati che sbarcavano sulle coste meridionali, all’insorgere di un problema vero e drammatico come la pandemia, l’inettitudine di quei governi e di quel ceto politico è venuta al pettine. Colpo di palazzo o meno (nel caso, benvenuto), è stato necessario ricorrere proprio a Mario Draghi per prendere in mano un paese che la sua classe dirigente aveva portato allo sbando. Questo è il contesto in cui è atterrato l’ex presidente della BCE. Che sia o no il salvatore della patria, l’uomo della provvidenza non interessa. Sarebbe un dibattito sterile. Non è sterile invece ricordare come il suo arrivo abbia rappresentato la certificazione del fallimento di un’intera stagione politica e come la sua prassi di governo sia esattamente l’opposto di quanto ci è stato somministrato negli ultimi anni: Persino la modalità comunicativa è stata ribaltata: “prima si fanno le cose, e poi le si comunica”, ha dichiarato poco dopo il suo insediamento, gettando nel panico l’intero sistema mediatico, abituato a costruire audience su annunci, chiacchiere, dichiarazioni tanto fragorose quanto inconcludenti. Ma oltre a tutto questo – che già è moltissimo – Draghi ha soprattutto mostrato di avere una visione chiarissima e non retorica del bene collettivo, dell’interesse generale del paese. Il premier non ha avuto esitazione a dichiarare pubblicamente che strizzare l’occhio ai no vax per lucrare il loro voto equivaleva ad invitare la gente a morire. Matteo Salvini non l’ha presa bene, ma si è adeguato. Draghi sembra peraltro consapevole che il perseguimento del bene pubblico di lungo periodo non è un pranzo di gala. Comporta scegliere tra interessi, colpire resistenze e abbattere privilegi consolidati. Significa non assecondare il sentire comune del momento. Citando Andreatta, ha affermato che occorre fare ciò che è necessario, anche prescindendo dal consenso immediato. Di fronte alla puntuale serie di decisioni precise, nette adottate dal governo i partiti sono obbligati dalle circostanze ad approvare. Non hanno molte scelte. Ma per notificare al mondo la loro esistenza in vita, si vedono costretti a mettere stancamente in scena una rappresentazione teatrale, cui affidare i residui della propria identità politica. Gli scontri quotidiani tra Letta e Salvini, cercati da entrambi proprio per questo, ne sono l’esempio più eloquente. Ormai anche l’elettore medio però è in grado di misurare l’abissale distanza tra l’azione del governo che – la si condivida o no- incide come un bisturi sulla realtà, e il teatrino dei pupi della politica, in cui ci si scambia a giorni alterni il ruolo di Angelica, di Orlando e di Agramante. E qui giungiamo al nocciolo della questione. Se quella che sta mettendo in campo Draghi è alta scuola di governo, può generare qualcosa che diventi patrimonio duraturo della politica italiana, una volta esaurita la sua esperienza, si spera non prima del 2023? Chi sta apprezzando l’azione dell’attuale governo e del suo premier – e stando ai sondaggi sulla fiducia pare che non siano pochi – può accettare di tornare alle risse da talk show, ai selfie, alle dirette Facebook, al bipopulismo e alle demagogie contrapposte in competizione tra loro? Difficile. Sarebbe come bere vino al metanolo dopo aver assaggiato il barbaresco. Non è dato sapere, al momento, quale forma potrà prendere l’eventuale continuazione dell’esperienza del governo attuale: partito di Draghi? Scomposizione e ricomposizione del quadro politico? Assunzione piena ed esplicita dell’agenda del premier da parte di qualche soggetto politico? Si vedrà. La speranza però è che il ‘draghismo’ – inteso come insieme delle prassi messe in opera dal premier – contamini e rigeneri quel che resta della politica italiana. E che i partiti attuali prendano coscienza del fallimento di una stagione e di quanto tossici siano stati i suoi frutti. Sarebbe già molto.

Il premierato assoluto

Marco Revelli, Il partito unico dei padroni e il premierato assoluto di Mario Draghi Volere la luna, 30 settembre 1921 "Se ci fosse il partito di Draghi, questo sarebbe il suo congresso fondativo e questi 1200 industriali in grisaglia, che si spellano le mani a ogni suo passaggio, i suoi delegati. Il partito del Pil". Non è un grido d’allarme. Al contrario la frase è stata scritta con soddisfatto compiacimento in apertura dell’ articolo di commento all’Assemblea di Confindustria sul portale del quotidiano italiano che più si è distinto nell’apologetica draghiana. E purtroppo corrisponde a verità. In effetti il 23 settembre, al Palazzetto dello sport di Roma, è nato il “partito unico dei padroni” intorno al suo leader massimo e indiscutibile, l’ex banchiere di Stato Mario Draghi. E nello stesso momento, con la proclamazione del medesimo a suo capo carismatico e titolare naturale di un Esecutivo sintetizzato nella sua persona, è stata annunciata la nuova forma di governo definibile come “Premierato Assoluto” (nulla di più lontano dal dettato costituzionale). L’evento è stato accolto dal coro bulgaro dei media (tutti quelli mainstream, TG di stato in testa, a far gara nell’abbinare le Ola dei confindustriali con gli abbracci degli atleti con tanto di dono della bicicletta, come dire denaro e muscoli uniti nell’applauso) ormai senza pudore nell’ostentare un culto della personalità degno di altri tempi. E accanto a loro la politica, anche qui senza quasi eccezioni, a invocare lunga vita al premierato dorato, se fosse possibile vita eterna, come nelle monarchie d’altri tempi… Se valessero ancora le “regole auree” fissate dalla politologia novecentesca – mica quella marxista o socialdemocratica, ma la politologia liberaldemocratica, di orientamento comportamentista, egemone nell’area anglosassone – si dovrebbe dire che siamo fuori dal quadro democratico. In quel paradigma, infatti, la cifra di una democrazia sana, o comunque accettabile, stava nella netta separazione (in una effettiva “divisione del lavoro”, si diceva) tra i sottosistemi fondamentali: quello Politico, quello Economico e quello Culturale (ovvero Parlamento e Governo, Imprese e Banche, Informazione e Media). Quando uno di questi travalica la propria sfera e prende il controllo degli altri, si esce dai limiti dalla forma democratica: se la Politica pretende di annettersi Economia e Cultura si ha il “totalitarismo”, se l’Economia si compra Politica e Media si ha una abnorme variante di quello che Max Weber chiamò “patrimonialismo”, se la Cultura domina sugli altri due si ha una “teocrazia”. Il 23 settembre abbiamo avuto l’immagine plastica di questo cortocircuito malsano, che stava nell’aria, si percepiva da tempo, ma che mai era stato così materialmente visibile ed evidente. Draghi Non stupiscono in questo i 1200 imprenditori che facevano la Ola nel parterre del Palazzetto dello Sport (anche il genius loci qui conta): erano lì a incassare le cedole del loro investimento, fatto già nel 2018, immediatamente dopo i risultati delle elezioni politiche in teoria più destabilizzanti del secolo (nuovo), quando appunto la bandiera di Mario Draghi fu alzata contro l’esito delle urne, e continuò a essere agitata ad ogni tornante di questa tormentata legislatura, fino alla liquidazione dell’ultimo governo Conte. Il rito ricordava i Te Deum cantati nelle cattedrali di mezza Europa dopo il congresso di Vienna, con i vecchi sovrani e le loro aristocrazie di corte a celebrare l’avvenuta Restaurazione. E nemmeno coglie di sorpresa più di tanto(avremmo dovuto esserci preparati) il ruere in servitium quasi unanime del coro mediatico: si tratta appunto di organi di stampa quasi tutti proprietà di gruppi industriali e finanziari che Draghi l’hanno da sempre considerato “uno dei loro”, se non altro per il suo essersi distinto in quelle “privatizzazioni senza liberalizzazioni” (così le definisce, con felice espressione, Giulio Sapelli sulle neonate pagine cartacee di “Tpi”) che costituiscono il suo capolavoro da grande Commis d’Etat. Forse colpisce un po’ di più la velocità con cui i partiti, nella stragrande maggioranza, si sono affrettati a consumare la propria (terminale) cessione di sovranità, e a certificare così la propria crisi strutturale. Esempio di scuola di autolesionismo delle élites nella fase del loro strutturale declino. Perché è fin troppo evidente – anche un bambino lo capirebbe – che all’ombra di questo Premierato Assoluto, con un Capo onnidecidente e il resto che, come l’intendenza napoleonica, deve seguire, tutto ciò che sta al piano terra della cuspide del potere, in primo luogo il “sistema dei partiti” che la tradizione politologica vorrebbe essenziale cerniera e canale di comunicazione tra Società e Istituzioni, avvizzisce e marcisce. Bonomi applaude DraghiIl fenomeno è evidente nelle traversie dei 5 Stelle, movimento sempre più evidentemente privo di radicamento territoriale. O nelle recenti convulsioni della Lega, dilaniata dalla sua Bestia. Ma se ne può cogliere un segno, di questo avvizzimento, anche nella prima esternazione del Segretario del PD dopo l’assemblea confindustriale romana, quando ha detto che il suo vuol essere “il partito degli industriali e dei lavoratori” (proprio così, letteralmente: “dell’Impresa e del Lavoro”). Ora Enrico Letta è uomo troppo erudito in fatto di culture politiche per non aver letto Alfredo Rocco o Ugo Spirito e ignorare che quella è la base del corporativismo d’infausta memoria. Quella voce “dal sen fuggita” deve essere frutto di un appannamento collettivo grave, che tuttavia getta una luce inquietante sull’altro nodo gordiano emerso da quell’Assemblea. La questione del “Patto Sociale”. Rimasto evidentemente l’ultimo strumento nella mani dell’establishment per immaginare un qualche rapporto tra le Istituzioni e il Sociale, dopo l’evaporazione del canale partitico. E infatti è stato il secondo coniglio tirato fuori dal cilindro da Draghi, sia per tracciare un percorso oltre l’emergenza sanitaria, sia anche, forse, par attenuare l’immagine di un suo eccessivo schiacciamento sulla parte confindustriale; sia infine per esorcizzare un conflitto che cova tra le pieghe di un mondo del lavoro angariato e sfidato da chiusure, tagli all’occupazione, vessazioni diffuse. Ma sarà davvero questo? Un patto tra pari per regolare le relazioni Capitale/Lavoro nel nuovo contesto? Credo che sia lecito dubitarne fortemente, data l’asimmetria drammatica tra le due parti (soprattutto se una può contare sull’appoggio o l’identificazione col Governo). E d’altra parte il clima che si respira “in alto”, dove persino la formula moderata del “salario minimo” evoca reazioni isteriche, non invoglia all’ottimismo (Draghi infatti si è affrettato a derubricarlo). Più probabilmente quello a cui si mira è un “patto leonino” in cui un movimento sindacale timido verrebbe chiamato a far da palo a una “politica dei redditi” punitiva per il lavoro. Ma la partita è aperta. E bisognerà giocarsela, soprattutto “in basso”. Una versione leggermente più breve dell’articolo è stata pubblicata sul Manifesto del 29 settembre col titolo Ecco s’avanza il partito unico dei padroni Marco Revelli E' titolare delle cattedre di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro", si è occupato tra l'altro dell'analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della "cultura di destra" e, più in genere, delle forme politiche del Novecento e dell'"Oltre-novecento". La sua opera più recente: "Populismo 2.0". È coautore con Scipione Guarracino e Peppino Ortoleva di uno dei più diffusi manuali scolastici di storia moderna e contemporanea (Bruno Mondadori, 1ª ed. 1993). Vedi tutti i post di Marco Revelli 3 Comments on “Il partito unico dei padroni e il premierato assoluto di Mario Draghi” Roberto ha detto: 30/09/2021 alle 4:10 pm Non è solo corporativismo. Prima è la dottrina sociale della chiesa Rispondi benvenuti sul titanic ha detto: 01/10/2021 alle 8:39 am un ex banchiere, neoliberista, al comando, ovviamente senza passare da elezioni politiche, e – udite udite – pure con il plauso e il sostegno delle sinistre. misure contro i lavoratori pesantemente provati dalla pandemia: se non ti vaccini non puo lavorare. unico stato al mondo! il secolo scorso in questo paese era il datore di lavoro a dover per legge garantire a sue spese (!) la salute sul posto di lavoro. adesso fanno pagare pure i tamponi (obbligatori per lavorare) e le mascherine (anch esse obbligatorie per lavorare). e con legge hanno sollevato il datore da qualsiasi responsabilita in caso di contagio covid. é la trama di un film fantascienza che ha vinto qualche oscar? no, no é la realta. un costo del denaro sottozero (pure in termini reali), grazie alle politiche della BCE (ma tu guarda le coincidenze). toglieranno il reddito di cittadinanza, aumentera la forza lavoro da paesi poveri per dare una bella abbassata al valore del lavoro (come se ce ne fosse bisogno). l evasione fiscale galoppa. elezioni politiche? figurarsi. quando le faranno ci sarà un esplosione delle destre, le uniche che promettono di stare dalla parte di chi è piu debole. del resto hanno gioco facile: le sinistre non esistono, appoggiano e sono indistinguibiil dai neoliberisti. ai disperati e alle persone in difficolta non rimane altra scelta. i giovani senza santi in paradiso scappano all estero (e fanno bene). Rispondi Antonino C. Bonan ha detto: 01/10/2021 alle 10:35 am Facciamo un po’ di fanta(???)politica. Al Quirinale Draghi e al Governo Giorgetti, o in alternativa figure meno decidenti al posto loro (e loro stessi a fare da Richelieu). Mario Mori senatore a vita: con le mafie si tratta, per condividere il governo effettivo del vero potere. Maggioranze liquide, in un Parlamento ancora più denso e viscoso, che le tiene a galla. Periodiche emersioni della realtà nelle maglie dei media, giusto per eliminare la “vecchia politica” (i militanti, i partiti e altri corpi intermedi). Costanti derive, che perfino vanno oltre la consunta deriva al centro o a destra. Derive in basso, direi. Dal bar dello sport con gli amici pensionati o dalla macchinetta del caffè coi colleghi… allo schermo del proprio smartphone: un tempo si diceva “l’han detto in tv”, ora si dirà “me l’ha certificato l’app”. In tutto ciò, è riduttivo cercare nei protagonisti della politica italiana di oggi le reminiscenze della peggior politica novecentesca. Si tratta solo di barlumi. La luce promana dal futuro, più di quanto non promani dal passato cui asseritamente o inconsciamente si ancorano costoro. Per riconoscere quel futuro, non serve fare i complottisti. Basta non chiudere gli occhi e fare non solo uno più uno, ma tutta l’algebra che si può e si sa fare. Ad esempio, quando Draghi dice cose “di sinistra” e a sinistra paiono tirare sospiri di sollievo (perchè altrimenti Salvini e Meloni ecc. ecc.), costa così tanto dirne a gran voce l’inconsistenza intellettuale (sono solo slogan!) prima ancora della contradditorietà rispetto alla concreta azione di governo? Finchè non lo si facesse a sufficienza, ci sarebbe sempre qualcuno pronto a dire “sì, però se non c’era Draghi ti sognavi quell’innovazione”… che magari in singoli contesti sociali ha pure portato una ventata di giustizia! E allora cosa si risponderebbe?