domenica 30 gennaio 2022

Il fallimento di una certa politica



Massimo Giannini, La bancarotta della politica e i costruttori di democrazia, La Stampa, 
30 gennaio 2022

Le coalizioni si sfarinano. Il centrosinistra ha vinto giocando di rimessa, con un numero di

Gran
di Elettori non certo determinante. Per Letta, Mattarella è stato "il massimo" fin

dall'inizio. In subordine, c'era Draghi. Uno schema un po' statico, a tratti rinunciatario, ma

che alla fine ha dato i suoi frutti. Le correnti restano e pesano, ma almeno stavolta il

compromesso è stato virtuoso. Il centrodestra come l'abbiamo conosciuto finora, al

contrario, non esiste più. Ha dissipato un gigantesco capitale, prima prigioniero del

velleitarismo berlusconiano, poi vittima dell'avventurismo salviniano.

Le forze populiste e sovraniste che trionfarono nel 2018 hanno fallito la prova di maturità.

Sul fronte Lega, Capitan Salvini si è illuso di poter dare la spallata, senza avere né i nomi né

i numeri per farlo. In molti abbiamo pensato che ci fosse del metodo nella sua apparente

schizofrenia. Forse ci siamo sbagliati. Ora la sua leadership è in pericolo. Non voleva

Mattarella, voleva dare il benservito a Draghi, e alla fine se li ritrova tutti e due. La Lega

governista, da Giorgetti ai governatori regionali, gliene chiederà conto. Sul fronte grillino,

l'Avvocato Conte ha pagato l'eclissi pentastellata in atto da tempo. Ha ragione, a suo modo,

quando dice "non è vero che abbiamo cambiato posizione": per cambiare posizione, infatti,

bisogna averne una. E lui non ce l'ha avuta. Solo questa, ossessiva: mai Draghi sul Colle.

L'obiettivo l'ha raggiunto. Ma, per il resto, molto nulla raccontato con enfasi. Anche qui c'è

una leadership periclitante, e si sta per consumare la madre di tutte le battaglie con un'altra

ala governista, quella di Luigi Di Maio.

Nulla sarà più come prima, in questa Italia che scivola verso un regime presidenziale-

preterintenzionale. E qui si impone un'ultima riflessione, che riguarda proprio Mattarella. La

rielezione, piaccia o no, configura un altro passo nello stato di eccezione. E sono vent'anni,

ormai, che di eccezione in eccezione stiamo manomettendo senza accorgercene la

Costituzione formale e materiale. È ora di fermare i motori, e di fare un serio tagliando alla

macchina. Ripensare, in modo finalmente organico e coerente, la legge elettorale, i

regolamenti parlamentari, la forma di governo. Una spinta decisa a queste grandi riforme ce

l'aspettiamo anche dal "nuovo" Presidente. Mattarella non è Cossiga, per fortuna. Ma

qualche colpo di piccone, alle incrostazioni della nostra democrazia bloccata, qualcuno

dovrà pur cominciare a darla. E chi può aprire il cantiere, se non i "costruttori"? 


martedì 25 gennaio 2022

Gli errori di Draghi




Adriano Sofri
, Piccola posta, Il Foglio 25 gennaio 2021

 A reti ancora inviolate si può fare qualche considerazione su quello che è già successo. Un paio di mesi fa, prima che cominciasse la recita, immaginavo che Draghi fosse più ambizioso, per così dire, di un aspirante alla presidenza della Repubblica italiana. Mi sembrava che età e curriculum e dimestichezza con l’atlante lo mettessero al riparo e, caso mai, gli facessero desiderare qualcosa di più o qualcosa di meno. Mi colpiva intanto l’atteggiamento pressoché unanime di suoi fautori e suoi avversi: i casi di encomio servile superati da quelli di oltraggio invidioso e livoroso, i vincitori di lotteria cui era stato rubato il tagliando a metà incasso. Uni e altri sembravano credere, e sostenevano perentoriamente, che la scelta di restare a capo del governo o trasferirsi al Quirinale dipendesse solo da lui: forse sono riusciti a persuaderne lui stesso. Che così ha commesso, penso, due errori politici. (Mi fa ridere la storiella di chi è politico e di chi non lo è, compresa la rivendicazione del riscatto della politica – il correttore voleva scrivere ricatto – da parte di chi si fece strada gridandole vaffanculo: è politico, e non da oggi, Draghi, sono politiche le altre comparse del chiasso quotidiano, senza nemmeno pagarne lo scotto). Il primo, umanissimo, errore di Draghi, ai miei occhi, è stato di desiderare di andare al Quirinale. Il secondo, la vera ingenuità, di lasciar trasparire questo desiderio, contraddicendo la sobrietà irritante che in lui sembrava far le veci dell’ipocrisia. Non aspettava altro, la scolaresca sgangherata messa d’un tratto in castigo. C’è un Parlamento largamente – ed effimeramente – composto di senzatetto e franchi tiratori per interesse e più ancora per meschinità. Impallinato Draghi, si sarebbe azzoppato governo e Quirinale. Impallinato ancora prima del fischio d’inizio: ecco un risultato che si poteva evitare. Cui ha contribuito anche la sciocchezza di credere, o fingere di credere, che la candidatura di Berlusconi andasse presa sul serio: cinque minuti supplementari per vivere di rendita. E adesso? Chi lo sa. Il programma massimo adesso è: metterci una toppa.

sabato 22 gennaio 2022

Chiampa



Francesca Bolino
,
 Sergio Chiamparino: "Io, un orso diventato pop tra i torinesi grazie agli anni da sindaco", la Repubblica Torino, 22 gennaio 2021

È una storia che comincia molto da lontano: il primo settembre 1948. «Sono nato nella periferia della periferia, a Borgo Mercato di Moncalieri. Ha presente quando si prende l’impalcato dell’autostrada da corso Unità d’Italia? Sotto la doppia curva, c’è un nucleo di case. Mio padre Primo era camionista, poi è diventato operaio in una fabbrica che adesso è una discoteca. Ci sono anche andato in una campagna elettorale. Erano le 11 di sera e non c’era ancora nessuno. 
Mia mamma, Elena, faceva la segretaria in una piccola azienda in via Vassalli Eandi». 
Ha fratelli o sorelle? 
«Sono figlio unico. Sono cresciuto con i nonni materni perché i miei lavoravano. Ho fatto le medie al Carlo Alberto perché i miei avevano l’ossessione della cultura, mio padre non era riuscito a fare il liceo e voleva che studiassi. Poi ho fatto ragioneria al Sommeiller». 
C’è stato un oratorio nella sua adolescenza?
«Certo, quello della parrocchia di San Vincenzo Ferreri, una piccola chiesa che adesso è sotto l’impalcato. Era la nostra via Gluck: non c’era niente, solo campi. Un campetto di calcio stretto tra una balera, il Po e il mattatoio. Si andava a fare catechismo nel retro della chiesa e poi si giocava a pallone. 
Giocavamo anche sulla piazza del mercato. Lì davanti c’era la famosa osteria da Gasprin, Gasperino, che aveva ancora lo stallaggio. C’erano la tl, la sala biliardo, il gioco delle bocce». 
Chi erano gli abitanti del quartiere? 
«C’erano tre complessi e le bande di cortile. In uno abitavano i pistoiesi che facevano i carbonai. Gli arrivava il carbone dalle loro colline e loro lo distribuivano con carretti a cavallo. Tutti grandi bestemmiatori, giocatori di carte e biliardo. Noi abitavamo in un alloggio attaccato ad altri due. In tre famiglie avevamo un solo bagno esterno. Negli altri vivevano una famiglia di immigrati ferraresi e una dei primi pugliesi, che erano venuti a fare i barcaioli sul Po. Io mangiavo il “sanguis” con il prosciutto cotto che era considerato quello più da ricchi, i ferraresi la mortadella, i pugliesi il pane di Altamura col pomodoro». 
Quando si è diplomato? 
«Nel ‘66. Ho ricevuto subito un paio di offerte di lavoro in banca, ma non mi entusiasmavano. 
Volevo andare avanti e mi sono iscritto a Economia. E ho cominciato a lavoricchiare facendo dei questionari».
Ma la politica quando è arrivata?
«Nel ‘65 c’era il ventennale della Liberazione e a Moncalieri avevano organizzato un cineforum all’aperto sulla Resistenza. Era venuto tra gli altri Norberto Bobbio. Ero un ragazzino, avevo 17 anni. Mio padre aveva scritto anche una lettera di appoggio a Nasser, gli era poi arrivata la risposta, con gli auguri. Era un comunista molto tradizionalista. Il problema principale di noi ragazzi, giocando a pallone, era non prendere le secchiate d’acqua da quelli che avevano fatto la notte in fabbrica e volevano dormire. Però il cortile era un bacino, dove riecheggiavano questi temi». 
La politica si respirava nell’aria. 
«Abbiamo cominciato a trovarci i sabati o le domeniche sulle panchine intorno al castello per leggere insieme Marx. Lì ho avuto la mia alfabetizzazione. Intanto seguivo i corsi di Economia, ma nel 1969, con la liberalizzazione degli accessi all’università sono passato a Scienze Politiche. Ed era tutto un altro mondo. A Economia eravamo un nucleo di cinque persone scarse di sinistra, era il luogo dove ogni tanto arrivava anche uno dei picchiatori fascisti più famosi, che si chiamava Lerner (non Gad)». (Ride). 
E chi ha conosciuto? 
«Alberto Vanelli con cui poi abbiamo poi fatto tante cose insieme. E i maestri sono stati Siro Lombardini e Bruno Contini. 
Anche Claudio Napoleoni che era un mito, la fonte alla quale andavamo a prendere il sapere marxista. Lombardini era il capo del laboratorio di economia politica. Contini era molto giovane, la prima cosa che aveva detto era: l’econometria è uno strumento utile, ma non pensate che risolva il problema. E mi sono appassionato, ho fatto la tesi con lui. Mi ha molto aiutato». 
Ed è allora che si è iscritto al Pci? 
«Avevamo le nostre teorie che allora si chiamavano entriste, l’obbiettivo era entrare nel partito per far cambiare la politica, portandolo su posizioni rivoluzionarie. Una sera, siamo andati ad un’assemblea in via Cristoforo Colombo a Moncalieri. 
A un certo punto ho chiesto la parola e ho parlato di Cina, movimento studentesco, classe operaia. Quando ho finito si è alzato in piedi il compagno Teresio e mi ha detto, in dialetto: “Bravo, hai parlato bene, ma stasera dobbiamo organizzare la festa dell’Unità e non parlare di politica». (Sorride). 
E così non vi siete iscritti? 
«No, siamo andati al Psiup, che era appena stato fondato. E ci siamo candidati tutti alle prime elezioni, quelle del ‘70. Nel ‘72 il Psiup s’è sciolto. E a quel punto siamo andati a iscriverci al Pci». 
Quindi niente gruppi e gruppetti sessantottini? 
«Il movimento studentesco l’ho vissuto prima ai margini, come curioso, poi dal Pci. Non mi hai convinto fino in fondo il movimentismo, la rottura con la generazione dei genitori. Erano più temi della borghesia che non della mia classe. Per me il pathos era altrove, davanti ai cancelli delle fabbriche». 
A questo punto avrà conosciuto anche l’amore oltre alla politica? 
«Sì, era il ‘73 e ho incontrato Anna che faceva Scienze Politiche e assomigliava vagamente a Françoise Hardy. A una festa in campagna, sulla collina di Settimo, in una casa mezza diroccata che aveva affittato Romano Alquati, un sociologo del gruppo dei Quaderni Rossi dove mi aveva portato Alberto Vanelli». 
E quando vi siete sposati? 
«Nel ’78, in Comune. Era il 21 gennaio la data di fondazione del Pci. Siamo andati ad abitare a Mirafiori, in via Rubino, dove poi nell’80 è arrivato Tommaso, nel giorno del terremoto. Io lavoravo come ricercatore all’università con Contini. Nell’83 Piero Fassino, è diventato segretario della federazione. È cambiato tutto e mi hanno chiamato a lavorare al partito con Mario Virano, Livia Turco, Antonio Carta. E ho lasciato l’università. Abbiamo fatto cose innovative anche se, a raccontarle adesso, sembriamo quelli della battaglia sul Piave! Ma nell’84 abbiamo organizzato un incontro sul futuro di Torino al teatro Nuovo, c’erano anche Berlinguer e Reichlin e molti di quei temi sono ancora attuali». 
Però poi lei ha avuto una rottura con il Pci. Perché? 
«Sulla questione della scala mobile e soprattutto sul referendum, io ero d’accordo con la linea dell’economista Tarantelli che è poi stato ucciso dalle Brigate Rosse e non riuscivo a capire le ragioni della battaglia del partito che, dopo la morte di Berlinguer, si era molto ingessato. Volevo andarmene, ma Fassino mi ha proposto di andare a Bruxelles al gruppo parlamentare. Ci sono rimasto un anno e mezzo. E mi è servito moltissimo, mi ha allargato lo sguardo e finalmente avevo un buon stipendio. Ma sono tornato per la famiglia. Non avevo lavoro, per un anno ho preso la disoccupazione, andavo in via Gioberti a firmare e da Bruxelles mi arrivava lo “chomage”. Poi sono entrato in Cgil come funzionario». 
Lei viene considerato il grande regista dell’operazione che ha portato Valentino Castellani a fare il sindaco. Com’è andata? 
«È stata raccontata come la vittoria della società civile. In realtà è stata un’operazione politica, direi addirittura leninista. È nata da un rapporto molto verticistico tra Enrico Salza, imprenditore illuminato e me». 
E nel 2001 è diventato sindaco lei, ma in circostanze drammatiche: il candidato era Domenico Carpanini che è morto improvvisamente in campagna elettorale. Che ricordi ha? 
«È successo un mercoledì sera, io ero a Roma, stavo cenando vicino al Senato. Fassino mi ha telefonato e mi ha detto: “Toccherà a te, pensaci”. Ho chiamato Carlo Bongiovanni che era l’amico del cuore di Domenico. Proprio perché c’era quest’emozione non volevo passare come un usurpatore. E gli ho chiesto: “Se tu ci stai, io ci sto, se no, no”. E lui mi ha detto che andava bene». (Si commuove). 
L’onda emotiva è stata fortissima. 
«Io ero frastornato. E sentivo la responsabilità: perdere, avrebbe significato tradire Domenico, non corrispondere a quello che aveva rappresentato per migliaia di persone e sostenere la sua eredità. E quindi l’abbiamo presa buttandoci nella mischia, nei mercati e ovunque». 
Lei passa per un orso solitario che ha dovuto trasformarsi in un primo cittadino molto popolare. 
Come c’è riuscito? 
(Sorride). «Non lo so, mi è venuto spontaneo. Credo però di essere abbastanza pop, come dimostra la mia origine. Ancora adesso la gente mi ferma per strada. L’altro giorno mi è capitato a Porta Palazzo, con uno di quegli ambulanti che venivano sempre sotto il comune a protestare. Mi ha chiamato “Chiampa” e mi ha salutato con simpatia. Mi ha fatto piacere». 
Uscito dal municipio dopo dieci anni trionfali è andato a presiedere la fondazione bancaria Compagnia di San Paolo. Aveva fatto un salto definitivo nel sistema e per questo è stato molto criticato. 
«È stato un errore, anche se non ho commesso alcuna scorrettezza. Ma mi aveva preso l’horror vacui. Dopo due anni ho lasciato, non mi sentivo al mio posto». 
Cosa fa quando è libero dagli impegni di consigliere regionale? 
«Vado spesso a Bruxelles a fare il nonno. Tommaso vive lì. Ho quattro quattro nipoti che vanno dai quattro agli undici anni. A Natale, sono partito il 22 e ho riempito la macchina di prelibatezze: vari pezzi di carne per fare il bollito, l’arrosto, i raviolini del plin. Mi sono chiuso in casa di mio figlio e ho cucinato per due giorni». 
Ah, ma allora è anche uno chef? 
«Esageruma nen. Faccio l’arrosto, i risotti, primi con le verdure. Mi piace trafficare in cucina, mi rilasso. Cucino principalmente per me ed Anna. Ogni tanto invito qualcuno ma sono un solitario... 
Dopo cena, mi rinchiudo nei libri. Sono un gran lettore». 
E cosa ha letto recentemente? 
«La mia libreria di fiducia è la Luxemburg. Ho letto la biografia della Merkel di Ursula Weidenfeld. È una interessante contronarrazione, la Germania non sta tanto meglio di noi. E l’ultimo di Ferdinando Aramburu “I Rondoni”, ma “Patria” mi è decisamente piaciuto di più., Poi, durante l’isolamento, mi sono riletto tutto Steinbeck. Che meraviglia». 
E nel tempo libero cosa fa? 
«Volontariato al Cottolengo, do una mano a preparare i pacchi alimentari. C’è una Torino che si dedica al volontariato in modo molto discreto e che fanno del bene alla città. Ne conosco tanti ma non vorrebbero essere citati». 
Qual è il luogo di Torino che le piace di più? 
«Il Po, da dentro e da fuori, quando ci vado in canoa e quando corro sulla riva».

venerdì 21 gennaio 2022

Alfieri e Rousseau


 

Vittorio Alfieri, Vita di Vittorio Alfieri da Asti, 1804, cap. XII

In questo mio secondo soggiorno in Parigi avrei facilmente potuto vedere ed anche trattare il celebre Gian-Giacomo Rousseau, per mezzo d’un Italiano mio conoscente che avea contratto seco una certa familiarità, e dicea di andar egli molto a genio al sudetto Rousseau. Quest’Italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore che ci saremmo scambievolmente piaciuti l’un l’altro Rousseau ed io. Ancorchè io avessi infinita stima del Rousseau più assai per il suo carattere puro ed intero e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe’ suoi libri, di cui que’ pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento; con tutto ciò, non essendo io per mia natura molto curioso, nè punto sofferente, e con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto più orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glie n’avrei restituite dieci, perchè sempre così ho operato per istinto ed impeto di natura, di rendere con usura sì il male che il bene. Onde non se ne fece altro.