venerdì 28 ottobre 2022

I numeri di Giorgia Meloni

Scriveva giorni fa Marco Damilano che al centrodestra manca un radicale progetto di cambiamento. Può essere, se si guarda invece ai singoli partiti della coalizione, forse i progetti non mancano. Manca, se mai, un programma comune. Ma è questo che occorre per vincere le elezioni? A vedere quello che è accaduto il 25 settembre non sono state le singole liste a determinare il risultato ma il profilo dei contendenti e la credibilità dell'offerta politica. È su questo terreno che Giorgia Meloni si è imposta all'attenzione.

Concita De Gregorio, Nascita di una leader. Giorgia l'equilibrista tra alleati "mostruosi, la Repubblica, 26 ottobre 2022


Una grandissima comunicatrice, un’equilibrista, una dissimulatrice: certo. Una che cambia pelle secondo necessità: sicuro. Una politica, insomma. La sua campagna elettorale è stata la migliore di tutte, difatti ha vinto. Draghi l’ha capito bene. Non è questo che conta? Non è saper comunicare, la politica? Quando Meloni dice «sono pronta a fare quello che va fatto a costo di non essere compresa» parla per la prima volta da secoli di clima e non di meteo: dei prossimi dieci anni e non dei futuri dieci giorni. Poi. Voglio discutere di scafisti e di flussi, di merito e di opportunità, di tasse e di diritti. Di cannabis e di mercati criminali, di cosa sia una famiglia e di chi lo decida. Di corpo, di lavoro, di felicità e di abissi. Sarei contenta di discuterne lealmente, senza che ci siano dietro interessi torbidi, convenienze personali, questioni di soldi e di potere. Sarei contenta, «dentro l’Europa», che chiunque possa sovvertire i pronostici. Non credo che nessuno voglia «disturbare chi vuole fare». Lo auguro ai miei figli e anche a chi di figli non ne ha e non ne vuole, dal profondo del cuore. Giochiamocela, questa partita. Speriamo che sia leale, sincera. Una pastiglia per la tosse sempre in tasca, e anche con la febbre – come siamo abituati a fare, direi soprattutto abituate a fare: andiamo a dire la nostra. Andiamo a lavorare.

martedì 25 ottobre 2022

A noi! Fratelli d'Italia sulle orme del Pd

 

 

 Marco Damilano, Meloni premier chiude il trentennio senza politica, Domani, 24 ottobre 2022

Negli ultimi anni l'Italia ha oscillato tra il commissariamento tecnocratico e il populismo, due esperienze che hanno fallito nel tentativo di restituire all'Italia un sistema politico stabile e coerente.
La prima parte dell'ultima legislatura, il governo Cinque stelle-Lega presieduto da Giuseppe Conte, ha rappresentato il punto più alto dell'antipolitica e l'inizio della sua fine. Oggi il movimento 5 stelle, guidato da Conte, è l'opposto del soggetto virtuale delle origini, rappresenta gli interesssi più corposi e materiali dell'elettorato: il sud del reddito di cittadinanza, il ceto medio impaurito dall'impoverimento. Si propone come un sindacato dei cittadini, in difesa dei diritti acquisiti.
La seconda parte è stata caratterizzata dall'unità nazionale di Mario Draghi. Ma ancora una volta la tregua offerta dal governo presieduto dall' ex banchiere centrale non è servita al sistema dei partiti per ricostruire la loro tavola dei valori e la loro presenza nella società. Eppure, trent'anni dopo il 1992, questo serve, partiti in grado di offrire una nuova mediazione, sulla base di valori e interessi. La pandemia, la guerra in Ucraina, l'emergenza energia, la recessione in arrivo, ripropongono l'esigenza per la politica di avere un corpo, cioè l'ossatura fisica di una nuova rappresentanza. La destra, da sempre, conosce bene il proprio elettorato e sa come rappresentarlo e tutelarlo. Il Pd, in crisi di identità, ha una composizione sociale in via di erosione, che è la base del suo declino elettorale.
Giorgia Meloni è in questo punto di incrocio. Incarna una identità politica e culturale di sicura matrice nazional-reazionaria. È una professionista della politica, e della politica di partito, non ha fatto altro nella vita. In più è romana, profondamente romana, da sempre a contatto quotidiano con ik palazzi della politica.  La sua non è dunque la vittoria dell'antipolitica modello Movimento 5 stelle.
Le biografie dei nuovi ministri stanno lì a dimostrarlo: in molti di loro hanno percorso tutte le stagioni, dal 1992-1993 in poi, sono in gran parte leghisti, berlusconiani, post fascisti ormai invecchiati. Per questo non ha ragion d'essere il senso di esclusione storico del post-fascismo italiano che Meloni porta con sé, la carica di rivincita, di riscossa e di vittimismo (nella narrazione meloniana il mondo è popolato dalla sinistra che vuole cancellare le radici, le tradizioni) che arriva arriva nonostanta tanti anni di sdoganamento e di partecipazione alla distribuzione delle poltrone di governo e di sottogoverno.
Più che nel 1922, esercizio sterile, tra le cause che hanno portato la sinistra alla sconfitta, le sue radici vanno cercate nel 1992, quando è cominciata la storia dell'ultimo trentennio, in cui si è svolta tutta l'attività politica di Giorgia Meloni, che coincide con la sua vita.
la sua sfida, per chiudere davvero il cerchio, è costruire un partito nazionale che non sia alimentato da una piccola asfittica comunità di iniziati uniti dal culto del capo, declinato al femminile, vistosamente eccitati per il successo (che non appartiene a loro) e gelosi della loro antica amicizia con la premier, pronti a farle un cordone sanitario attorno contro chi prova a salire sul carro senza militanza pregressa. Una sfida che si gioca nel governo, dalla poltrona centrale della sala del Consiglio dei ministri di Palazzo Chigi dove Meloni si è seduta ieri mattina, dopo aver congedato Draghi.
Il centrodestra torna nei ministeri senza un radicale progetto di cambiamento, dalle prime battute il governo sembra destinato all'ordinaria amministrazione, a<lla gestione dell'esistente, ovvero del potere, vuole distribuire più che governare, lo stesso virus che ha soffocato il Pd. Per chi vuole costruire un'alternativa, per la sistra, la missione è inversa: non si va al governo senza una battaglia culturale e un corpo a corpo nella società. Lasciare alle spalle il trentennio senza politica. Chiudere il cerchio.



lunedì 24 ottobre 2022

La grande sfida

 
 

 
Condorcet

 
 
Al di là del metodo, va sottolineato che per Dahrendorf la concezione delle chances di vita assurge a teoria/filosofia della storia. Nel suo famoso saggio “La libertà che cambia” egli scrive: “Le chances di vita sono le impronte dell’esistenza umana nella società: definiscono fino a che punto gli individui possono svilupparsi (…). La particolare combinazione di opzioni e legami, di possibilità di scelta e di vincoli di cui sono costituite le chances di vita è ciò che ci consente di valutare il senso della storia. Ciò che è decisivo naturalmente non è questa combinazione, ma il fatto che possano esistere chances di vita nuove in senso stretto (…). Se questo genere di considerazioni significa qualcosa, la conseguenza almeno è che si rende possibile un senso della storia. Esso consisterebbe proprio nel creare più chances di vita per più uomini” .
 
 
Giovanni Orsina, La destra orgogliosa e la scoperta dei valori, La Stampa, 22 ottobre 2002
 
La composizione del governo Meloni rende ancor più evidente un dato di fatto che, del resto, è sempre stato sotto ai nostri occhi: alle elezioni ha vinto la destra. Non una destra «estrema» entro i cui confini si aggirerebbero, con sguardo torvo e viso arcigno, «ultra»-cattolici a braccetto con «iper»-conservatori, come troppo spesso si dice in Italia e all'estero con l'intento piuttosto evidente di delegittimare una parte politica appiccicandole addosso un'etichetta iperbolica. Ma nemmeno un centrodestra liberale o al più, com'era Forza Italia nella sua stagione d'oro, liberal-populista. No: una destra solidamente e orgogliosamente tale, popolata di conservatori laici e cattolici. Siamo di fronte a una svolta radicale? Di per sé la nascita di un governo in Italia, Paese di statura media, non è in grado di generare una mutazione storica d'importanza primaria. Può tutt'al più essere la spia di un cambiamento di clima.
E, questo sì, mi pare che il governo Meloni lo sia, che sia la conseguenza della rivolta, visibile su scala planetaria, di settori in genere non maggioritari ma assai consistenti dell'opinione pubblica contro l'accoppiata globalizzazione-individualismo e il suo impatto devastante su identità e legami sociali.
Le prime a essere sfidate da questa rivolta e dalle sue conseguenze sono la cultura e la politica progressiste. Le quali per la verità, almeno finora, non si sono dimostrate granché all'altezza della sfida. Il progressismo ha reagito al montare dell'onda conservatrice facendo forza su una concezione – appunto – progressista della storia: la storia avrebbe una logica e una direzione e, una volta superate certe soglie, indietro non si può più tornare. Da qui l'accusa che vien mossa ai conservatori di essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo, reduci di un'epoca ormai remota e conclusa, «medievali» addirittura.
L'errore è nel manico: la concezione progressista della storia non regge più, e la rivolta contro la coppia globalizzazione-individualismo nasce proprio dalla sua crisi. È perché non credono più che la storia abbia una logica e una direzione, insomma, perché sono spaesati e angosciati dal futuro, che gli elettori votano a destra. E con l'idea di progresso in pezzi, allora, tocca ai progressisti essere disperatamente fuori sintonia col proprio tempo. Sono loro a esser chiamati ad abbandonare ogni pigrizia, ad affrontare seriamente le obiezioni dei propri avversari, a ripensare e ricostruire le proprie ragioni.
Su scala globale, la rivolta dalla quale scaturisce il gabinetto Meloni presenta poi una seconda sfida, più seria ancora della prima: poiché la coppia globalizzazione-individualismo è figlia della democrazia liberale, il suo rifiuto rischia fatalmente di prendere una torsione autoritaria. Tanto quanto appare inequivocabilmente orientato a destra, d'altra parte, allo stesso modo il nuovo governo, nella sua composizione, dimostra anche grande rispetto per la cornice europea e atlantica entro la quale si muove l'Italia. E, di conseguenza, per i valori democratici e liberali che sorreggono quella cornice. Basta dare un'occhiata alle caselle ministeriali fondamentali: Interno, Esteri, Economia, Difesa, Giustizia.
In questa doppia cifra, mi pare, risiede l'aspetto più interessante dell'esperimento di Giorgia Meloni. C'è lo sforzo insistito, esplicito e orgoglioso di restare fedele alla propria storia e ai propri princìpi, e perciò di non abbandonare un saldo ancoraggio a destra. Ma c'è pure lo sforzo parallelo di fare in modo che quella storia e quei princìpi non si contrappongano frontalmente allo status quo, non rischino di esserne respinti in una sorta di ghetto, ma al contrario entrino in dialogo con esso, guadagnino legittimità e forza fino a poterlo modificare gradualmente dall'interno.
L'operazione resta tutt'altro che agevole, soprattutto nelle attuali, complicatissime circostanze storiche. La squadra di governo sarà adeguata a un compito così impegnativo? Non è male, ma forse si poteva far di meglio. Meloni sembra aver scontato due limiti, nel comporla. Il primo ha a che fare col rapporto fra tecnici e politici. In questo gabinetto prevalgono largamente i politici, com'è giusto che sia: un governo è un organismo politico, qualche tecnico può starci ma, in tempi ordinari, dev'essere un'eccezione. Per ragioni storiche, tuttavia, a destra i politici di «rango ministeriale» non abbondano. Il bacino da cui attingere ministri politici, insomma, era un po' a corto di acqua.
Il secondo limite di Meloni è figlio della sua riluttanza ad allargare lo sguardo al di fuori degli ambienti che ha frequentato, nei quali è cresciuta e di cui si fida - riluttanza che già si è manifestata con le liste elettorali, e che la composizione del governo rende ancora più evidente. La prudenza della presidente del Consiglio è comprensibile, certo. Anche in questo caso, però, si tratta di trovare il giusto equilibrio fra due esigenze contrapposte: allargare il gruppo dirigente da un lato, preservarne i rapporti di fiducia interni dall'altro. Per il momento, la seconda esigenza ha preso il sopravvento sulla prima. Aprire un piccolo partito identitario al vasto mondo evitando che si diluisca: questa, in definitiva, è la grande sfida di Meloni, sul terreno ideologico così come nella scelta delle persone.

 

sabato 22 ottobre 2022

Che cosa è stato l'antifascismo

 

Due sono state le novità importanti che hanno accompagnato l'ascesa di Giorgia Meloni al potere. Una è stata la caduta finale del primato berlusconiano a destra. Basterebbe una sequenza fotografica a illustrare il fenomeno. Berlusconi che esce dal palazzo del Quirinale dopo che la delegazione della maggioranza è stata ricevuta dal Presidente della Repubblica e fa il suo ingresso nel cortile. Fisicamente, è l'ombra di se stesso, non si regge in piedi da solo, viene sorretto da Salvini, mentre tenta di appoggiare una mano sulla spalla di Giorgia Meloni, che subito si sottrae alla manovra. L'altra novità è rappresentata dalla caduta temporanea del paradigma antifascista che sembrava ancora dotato di una certa forza alla vigilia delle elezioni. Già al tempo di Fini gli eredi della Repubblica sociale, l'antico MSI diventato Alleanza Nazionale, avevano assunto l'antifascismo tra i loro valori di riferimento. Con Giorgia Meloni possiamo dire che, se l'antifascismo viene meno, neppure il fascismo si porta più tanto bene. Niente di grave: l'adesione alla democrazia resta per ora un elemento costitutivo dello spirito repubblicano nel paese. Succede quello che è successo con il richiamo al trinomio Liberté Egalité Fraternité in Francia. Per i giovani immigrati delle banlieues era diventato uno slogan di facciata, mentre per la destra era ormai privo di una efficacia pratica, vista la spaccatura ormai intervenuta su questo tra le forze politiche. Gli ideali che non si rinnovano tendono a diventare bandiere storiche senza un rapporto vitale con i sentimenti delle masse. Altra cosa è la lezione storica contenuta nella vecchia formula «Il re è morto, viva il re!». L'antifascismo è pronto a rinascere dalla sue ceneri, come dimostra il discorso della signora Liliana Segre al Senato. Deve solo trovare una nuova linfa nel rinnovo dei contenuti, dei riferimenti ideali e delle politiche.

Memoria pubblica dell’antifascismo 

Nicola Gallerano, Le verità della storia, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 89-93   

A differenza del caso francese, dove la Quarta Repubblica poteva contare su radici più lontane e
sedimentate, e di quello tedesco, dove l’antifascismo dei vertici politici costituiva poco più del
riconoscimento della sconfitta subita, in Italia l’antifascismo è stato [...] il fondamento stesso della
Carta costituzionale e lo strumento ideologico di legittimazione reciproca tra le forze politiche che
in quella tradizione si riconoscevano. [...in questo senso] l’antifascismo è stato in Italia una
importante componente ideologica della opposizione politica e sociale, un fattore di identità e un
potenziale di mobilitazione, che hanno agito con continuità fino alla metà degli anni Settanta,
basandosi su e al tempo stesso irrobustendo le sue radici di massa. [...]
In altre parole, l’antifascismo è stato, in fasi diverse della storia del dopoguerra, ora al potere, ora
all’opposizione: non è stato puramente e semplicemente l’ideologia dei vincitori, come sostengono i
suoi detrattori, ma non è stato neppure il fondamento indiscusso dell’identità nazionale, il tramite,
nel bene e nel male, di una costruzione di “cittadinanza”.
Una periodizzazione del suo diverso ruolo e della sua diversa fortuna è stata proposta qualche anno
fa [...] e può qui essere riconfermata. In sintesi, dopo il ’48 e per tutti gli anni Cinquanta, dominati
dalla contrapposizione ideologica e politica tra comunismo e anticomunismo, si assiste a una più o
meno tacita emarginazione dell’antifascismo da parte delle coalizioni di governo.
Gli anni Sessanta – che si aprono con i fatti del luglio – sono gli anni della ripresa di massa
dell’antifascismo e insieme della sua nuova legittimazione istituzionale.
Gli anni che vanno dal 1968 alla metà degli anni Settanta conoscono infine il massimo sviluppo
dell’iniziativa che si richiama all’antifascismo ma anche i primi segnali di logoramento.
Si apre allora una fase di crisi dell’antifascismo [...].
Antonio Baldassarre ha spiegato come negli anni della solidarietà nazionale, nel 1976-1979, il
paradigma antifascista abbia esaurito la sua funzione di strumento di legittimazione dei partiti
dell’arco costituzionale, estendendola al Pci.
Negli stessi anni, anche l’antifascismo come ideologia dell’opposizione sociale subisce duri colpi.
Non solo per la sconfitta del movimento del 1968 che in quegli anni si consuma. Ma perché il
richiamo all’antifascismo suonò allora paradossalmente ambiguo: esso venne surrettiziamente
richiamato dal terrorismo “rosso” come proprio antecedente storico e insieme evocato dai partiti
dell’arco costituzionale come fondamento dell’unità nazionale contro l’emergenza.
L’effetto che ne uscì è difficile da sottovalutare, perché il terrorismo rosso colpiva il radicato
convincimento, confermato fino allora da tutta la storia post-bellica, che l’eversione avesse un
segno esclusivo di destra; e perché la nuova situazione aveva l’effetto di deprimere forme
collaudate di attivizzazione e presenza sociale che nel nome dell’antifascismo si erano coagulate.
Sia pure con un decennio di ritardo [rispetto agli altri stati europei], negli anni Ottanta, anche in
Italia dunque si fanno evidenti i processi di diaspora della tradizione antifascista e resistenziale [...].
Negli anni ’80, inoltre, inizia ad avere spazio e corso l’identificazione dell’antifascismo quale
supporto ideologico del sistema dei partiti e della I repubblica, mentre viene sviluppato il tema della
contrapposizione tra antifascismo, inquinato dalla presenza nel suo seno del totalitarismo
comunista, e democrazia. D’altra parte l’antifascismo non costituisce più l’asse privilegiato della
strategia del Pci, alle prese con un difficile e ambiguo tentativo di ridefinire la sua cultura e la sua
collocazione nel sistema politico.
Questo processo è stato certamente segnato da palesi strumentalizzazioni e da vere e proprie offese
alla verità storica. A parte le compiacenti e consolatorie immagini del fascismo che l’universo dei
media è venuto massicciamente esibendo, è persino mortificante o stucchevole dover ribadire che nel nostro paese l’antifascismo è stato storicamente lo strumento di passaggio alla democrazia moderna: un sistema di regole ma anche un terreno per allargare i confini della trasformazione possibile verso l’uguaglianza e la giustizia sociale; e che l’antifascismo, rifiutando il fascismo, rifiutava l’aggressione esterna e la repressione istituzionalizzata interna. Ma non va neppure passato sotto silenzio che nel corso degli stessi anni Ottanta questo processo ha avuto anche effetti liberatori: rivelando la pluralità e non omogeneità delle componenti dell'antifascismo, eliminando l'equivoco di una sua strumentale utilizzazione da parte del Pci, aprendo la strada a una riflessione più consapevole e matura, e talvolta anche più radicale, sul fascismo. Penso ai risultati di ricerche sulla memoria della deportazione in Germania e alla messa in discussione del luogo comune dell'«italiano brava gente» e dunque agli effetti non superficiali della ideologia e della propaganda del regime. Penso alla ricerca esemplare di Claudio Pavone, e alla sua capacità di rivisitare senza pregiudizi e insieme senza rovesciare i termini del giudizio storico e politico un pezzo di storia lacerante e intricatissimo sul piano delle scelte morali ed esistenziali.
La comparazione sviluppata nella prospettiva della fine del dopoguerra ha messo dunque in luce
percorsi differenziati ma anche alcuni trend comuni. In particolare ha mostrato una tendenza al
logoramento della tradizione antifascista: un processo che si è sviluppato con aspetti e tempi diversi
nei tre paesi [Francia Germania, Italia].
Esistono d'altra parte elementi comuni ai tre casi su cui vale la pena di svolgere una riflessione
conclusiva. Abbiamo ricordato il paradosso di una fine del dopoguerra che al tempo stesso conosce
l'ossessione della memoria del fascismo. Da questo punto di vista, il dopoguerra non è finito. Non è
finito perché le ferite della memoria e la loro riattivazione non sono esaurite. Nel caso francese, è
stata la memoria ebraica, a grande distanza degli eventi, negli anni Settanta, a riaprire il contenzioso
del razzismo e della sua attualità. Nel caso tedesco, è il dibattito sul passato nazista a fornire
alimento al conflitto sui contenuti dell'identità collettiva. Anche nel caso italiano, che appare oggi
quello dove l'intreccio tra memoria storica e suo uso politico appare più strumentale e insieme più
superficiale, abbiamo rilevato l'esistenza di importanti controtendenze. Sono d'altra parte gli stessi
nuovi processi storici a provocare antichi mali - il razzismo, la sopraffazione, la diseguaglianza, la
violenza - e ad aprire - imprevedibilmente - la strada a memorie compresse o soffocate.