sabato 19 dicembre 2020

Appello per una lista civica di centrosinistra



APPELLO PER LA COSTITUZIONE DI UNA LISTA CIVICA DI CENTROSINISTRA

A meno di sei mesi dalle elezioni amministrative, il centrosinistra torinese sembra distratto dalle proprie dinamiche interne: l'ipotesi delle primarie, paradossalmente, ha frenato la discussione sui contenuti e alimentato divisioni, sia nel Partito democratico che all’interno della coalizione. Al tempo stesso, molti esponenti politici si comportano come se la sconfitta della precedente amministrazione di centrosinistra fosse stata un incidente di cui è bene parlare il meno possibile. Non è così: perché tutte le indagini ci dicono che la crisi di Torino ha radici profonde, ben più antiche del giugno 2016, e che la prossima estate la nostra città sarà ancora più povera e arrabbiata.

In questo scenario, ci preoccupa che una destra populista e inadeguata, come ha dimostrato nella gestione della pandemia a livello regionale, possa soffiare sul fuoco della rabbia e della protesta, raccogliendo consensi dietro il volto rassicurante di un imprenditore perbene.

Per contrastare questa deriva, promuovendo un’idea di città inclusiva e attrattiva, serve una forza politica capace di parlare a tutti, e non solo ai militanti: una forza politica che sappia ascoltare e tradurre le preoccupazioni in proposte concrete. In definitiva, servono persone in grado di costruire nuove alleanze, dalle quali possano nascere le risposte ai nuovi bisogni.

Queste alleanze devono trovare una casa, che accolga tutte le esperienze che hanno alimentato un pensiero sul futuro di Torino, coinvolgendo centinaia di persone in un lavoro di mobilitazione politica e culturale. Una casa “civica”, perché le persone che ne faranno parte dovranno portare con sé l'esperienza e le competenze maturate nel mondo delle associazioni, delle professioni e del volontariato. Una casa innovativa, perché dovrà offrire alla coalizione gli strumenti per comporre una nuova mappa dei riferimenti cittadini, superando confini geografici e culturali ormai obsoleti.

Chiediamo quindi ai referenti dei movimenti civici torinesi che questa casa nasca subito, per costruire un’agenda politica che parta dall’ascolto di quanti si sono sentiti abbandonati dalla politica. Oggi, come in altri momenti in cui seppe cambiare il volto alla città, il centrosinistra torinese ha bisogno di una rappresentanza civica qualificata, univoca e coesa, senza i fraintendimenti che possono creare liste civetta messe su all'ultimo minuto per ragioni elettorali.

Torino merita uno sforzo di unità e di volontà: una SOLA LISTA CIVICA che dia forza al centrosinistra, un raggruppamento civico che contribuisca a qualificare un progetto politico e che sia capace di avanzare e sostenere una candidatura unitaria in grado di parlare a tutta la città.

Non perdiamo tempo. Perché di tempo non ce n’è.

Tra i firmatari l'ex sindaco Valentino Castellani, l'ex pallavolista e dirigente sportivo Piero Rebaudengo, il fondatore dei Subsonica Max Casacci, il manager culturale Paolo Verri e il regista Gabriele Vacis, Filippo Barbera, Giuseppe Gattino, Gabriele Magrin, Davide Petrini, Rocco Pinto, Luca Rolandi, Giuseppe Tipaldo

Stiamo cercando di attivare una piattaforma per petizioni. Ma non siamo ancora riusciti a farlo... Per aderire al momento ci limitiamo a chiedere di rilanciarlo.

mercoledì 16 dicembre 2020

Un banco di libri al mercato




Torino è la città delle bancarelle: quegli approdi carichi di libri dove tuffarsi tra edizioni introvabili e dei grandi classici, curiosità fuori catalogo, autori di case editrici ormai scomparse, piccoli tesori preziosi che possono anche costare pochi euro, o magari molto di più, se il commerciante è scaltro, se comprende l'oggetto del tuo desiderio. Poi si trovano contrattazioni che, nella maggior parte dei casi lasciano soddisfatti entrambi i protagonisti. Una volta, di bancarelle ce n'erano di più - come quelle di corso Siccardi demolite dall'ignoranza, il peggior nemico dei libri - ma moltissime resistono, come le storiche di via Po e le tante sparse nei mercati della città, in pimis al Balon. Marco Addonisio - protagonista del godibilissimo volume di Giovanni Carpinelli, edito da Ranieri Vivaldelli nella collana Messidor - è uno dei più noti mercanti in città e il suo banco lo potete trovare ogni giorno in via Nizza. Nella narrazione spiega e rivela le regole del gioco, entra nei meccanismi di passione, curiosità e anche ossessione dei frequentatori. Attorno a lui altri personaggi, , tutti veri, ma qualche volta coi nomi cambiati, che sono clienti, amici, colleghi. Tutti amanti amanti dell'irresistibile religione del libro. I titoli e gli autori sono dappertutto, come una texture tra le pagine, ma interessa relativamente il valore letterario (che c'è) perché conta innanzitutto la scelta individuale, la curiosità dell'acquirente, la sua dedizione nella caccia. Diversi capitoli si concludono con una citazione, dove compaiono intriganti assonanze, riferimenti musicali, poesie. Libro imprescindibile e romantico. Splendide le parole dello scrittore Bergotte [Proust, in realtà] con le quali si conclude il prologo di Mariolina Bertini: "Lo seppellirono, ma per tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre, vegliavano come angeli dal dalle ali spiegate sembravano, per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione." 

"La compagnia del libro" di Giovanni Carpinelli, Raineri Vivaldelli editori, Torino 2020   

Torino magazine, dicembre 2020  

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I versi in epigrafe

Il PULVISCOLO

Osserva infatti ogni volta che i raggi trapelano
e infondono la luce del sole nell'oscurità delle stanze:
vedrai molti corpi minuscoli vorticare
in molteplici modi nel vuoto nella luce stessa dei raggi,
e come in un'eterna contesa muovere contrasti e battaglie
scontrandosi a torme, senza mai trovar pace,
continuamente agitati da rapidi congiungimenti o effrazioni;
così che puoi arguire da ciò quale sia l'eterno
agitarsi degli elementi primordiali delle cose nell'immenso vuoto;
per quanto un piccolo elemento può offrire l'immagine 
di grandi eventi e una traccia per la loro conoscenza.

Lucrezio, La natura delle cose, II, 114-224.












è 








Torino magazine, dicembre 2020


domenica 8 novembre 2020

La compagnia del libro


Diego Gabutti, Lascia la fabbrica e vende libri, Italiaoggi, 7 novembre 2020

Non è ancora fuori corso come l'hula hoop, l'orologio da taschino o le radio a transistor ma poco ci manca. Per il libro in carta e inchiostro sono tempi difficili. Non che sia morto, o stia per morire: il libro cartaceo sopravvive agli eBook di Amazon e delle altre librerie digitali proprio grazie alle librerie on line, che in 24 ore recapitano a casa di chi li ordina libri d'ogni ordine e specie (compresi i libri di editori periferici, e a malapena conosciuti, che sarebbe impossibile trovare sia nella piccola libreria di quartiere sia nei grandi stores del centro). Davvero fuori corso, di questi tempi, sembra essere soprattutto il libro usato, il libro da bouquin, da bancarella (insieme a tutto ciò che non riguarda l'immediato, il talk show permanente dei libri effimeri, ma la memoria, le spalle dei giganti sulle quali si sono issati i nani e le ballerine del tempo presente). Morti i grandi cataloghi editoriali, moribonde le biblioteche, svaniti les livres d'antan, restano le novità del giorno, per chi se ne accontenta. Nessuno, o ben pochi, cercano vecchi libri sulle bancarelle, sempre meno numerose, ma ecco che un ex operaio torinese lascia la fabbrica e si dà al commercio di libri usati, come racconta questo memoir a più voci sulle avventure d'un bouquiniste sabaudo. Aprire una bancarella, impilare all'inizio titoli di scarso interesse, scelti senza una particolare competenza, per lo più fondi di magazzino, robe invendibili, sembra il peggiore dei business possibili, ed effettivamente lo è. Ma il libraio (e avventuriero) in questione, Marco Addonisio, impara in fretta a distinguere il bene dal male, i libri sensati da quelli senz'arte né parte, le prime edizioni da quelle meno blasonate, la clientela passionale da quella no.
Nel libro curato da Giovanni Carpinelli, cultore (la parola è grossa, ma appropriata) del libro usato, la storia di Marco Addonisio e del suo commercio di vecchi libri, venduti nelle fiere, su eBay, nei mercatini rionali, diventa il racconto esemplare d'una vocazione a trasmettere non diciamo la «cultura» (questo sì, sarebbe un parolone) ma lo splendore letterario del mondo di ieri. La compagnia del libro non si limita a parlare di letteratura (in senso borgesiano, dove tutto è letteratura, anche la scienza, anche la teologia) e neppure s'accontenta di celebrarla ma è letteratura esso stesso.
Qua e là, diciamolo, esagera e drammatizza il valore del libro, fino a prendere partito per il bibliofilo, che ama i libri per il loro contenuto, e contro il bibliomane, che stravede feticisticamente per l'oggetto in sé. Personalmente, se posso dirlo, io tifo per il bibliomane, perché somiglia più al maniaco sessuale, o peggio al filatelico, che a Daria Bignardi e Alessandro Baricco , e che si diverte con i libri come un vecchio reprobo nelle serate di burlesque). Leggere libri «per migliorarsi» è molto più disonorevole, se mi è concessa una licenza moralistica à la Baricco o à la Bignardi, che farne puramente e semplicemente incetta (chi vuol migliorarsi davvero non si dia alle buone letture ma alle buone opere). 
Francesista, curatrice e postillatrice dell'opera proustiana, Mariolina Bertini ricorda, nel romanzesco (e toccante) prologo al libro di Giovanni Carpinelli, l'ultima grande stagione delle bancarelle torinesi: gli anni sessanta e settanta, quando leggere, per chi aveva vent'anni, era la più straordinaria delle avventure. Racconta, in particolare, le rocambolesche battute di caccia al libro d'un amico suo (e mio): Paolo Pianarosa, sempre di guardia «tra le bancarelle di Piazza Carlo Alberto», tanto che la sua presenza faceva pensare a «una sorta di genius loci, uno spiritello tutelare che vegliava su quel piccolo mondo e ne conosceva ogni anfratto». Più in piccolo, meno compulsivi, meno ossessivi, c'erano molti altri Pianarosa in giro per bancarelle negli anni intorno al Sessantotto, quando di libri, nelle case della maggior parte dei giovani approdati alla scuola di massa, ce n'erano pochi, anzi nessuno, e leggere era quasi sempre un'esperienza memorabile.
Dentro ogni libro, come giù per la tana del Bianconiglio, c'erano mondi inimmaginabili da esplorare. E sono ancora tutti lì, conservati nel cloud, in forma digitale, oppure sulle bancarelle superstiti, poco frequentate e tuttavia irriducibili.

mercoledì 28 ottobre 2020

Alla scoperta del presente


Stefano Caselli, "Piazze tragiche, ma non si tratta solo di criminali", Il Fatto quotidiano, 28 ottobre 2020


“Sono piazze tragiche, nel senso letterario del termine, perché sono espressione di situazioni nelle quali non si può scegliere tra un bene e un male, tra una soluzione positiva e una negativa. Nelle tragedie, purtroppo, si sceglie sempre tra due mali”. Marco Revelli, torinese, sociologo, di piazze ne ha viste tante, ma mai (o quasi) come quelle andate in scena lunedì sera: “Possiamo dire – sospira – di essere definitivamente fuori dal Novecento”.

Professor Revelli, cosa ci dicono queste “rivolte”?

Sono manifestazioni abbastanza diverse a seconda delle città, ma emergono due protagonisti: i primi, chiamiamoli esercenti, sono espressione di un’estrema fragilità sociale che ormai colpisce anche categorie apparentemente benestanti e che ha forse un precedente nel movimento dei Forconi del 2013. Non sono state manifestazioni di poveri, semmai di impoveriti, colpiti dalla prima ondata del virus e atterriti dall’idea di precipitare definitivamente con la seconda. Il nostro sistema economico e sociale era già gravemente malato prima, la pandemia ha solo portato in superficie il morbo. Poi ci sono gli altri, i protagonisti dei disordini, per certi versi simili ai Gilet gialli francesi, generalmente provenienti dalle periferie, ragazzotti che normalmente nel weekend fanno lo struscio di fronte alle vetrine degli oggetti del desiderio, scesi in piazza con una logica da riot americani, da una parte per esprimere rabbia, dall’altra per soddisfare desideri, come le immagini dell’assalto all’atelier Gucci dimostrano.

Perché parla di uscita definitiva dal XX secolo?

Siamo di fronte al prodotto di classi sociali in decomposizione, attraversate da un forte risentimento e invidia sociale: la pancia della nostra società è un serbatoio esplosivo di rancore e mancanza di speranza. La logica è da guerra di tutti contro tutti.

Con quale obiettivo?

Ogni protagonista di queste proteste vede solo le proprie ragioni – anche valide per carità – ma la mediazione tra le proprie sofferenze e le sofferenze generali non compare mai. È una caduta di orizzonte.

Sono piazza di destra?

Sono molto esposte a tentativi egemonici di destra, che nel tutti contro tutti sguazza molto meglio di chi ragiona in termini di giustizia sociale ed eguaglianza, ma attenzione a liquidare il tutto come fascisteria delinquenziale, sarebbe un inutile esorcismo. Certo, ci sono gli ultras delle curve, ma preoccupiamoci del fatto che queste persone avvertano con chiarezza che esistono momenti di rabbia generalizzata in cui sanno di avere campo libero e molte orecchie pronte ad ascoltarli.

Qual è il nemico numero uno?

Il cosiddetto decisore pubblico, come se chi governa avesse ora a disposizione decisioni in grado di risolverei loro problemi. Ma purtroppo non ce li ha. Siamo in una condizione tragica, e nella tragedia c’è sempre un fatto che si compie rispetto al quale il comportamento degli uomini è destinato alla sconfitta. Si paga per propria colpa e di colpe ne abbiamo tante – alcuni di più, altri di meno –. Il nemico dovrebbe essere il modello di vita e di organizzazione economica che abbiamo costruito negli ultimi 30 anni, ma con il virus alle calcagna sono inutili elucubrazioni. È possibile un dialogo?

Il dialogo richiederebbe di condurre a ragione le questioni, ma non mi pare sia questo il caso. La decisione politica in situazioni come queste (riaprire per non danneggiare, ma rischiare di aggravare l’epidemia) è destinata a sbagliare sempre e comunque.

mercoledì 26 agosto 2020

I misteri di Alleghe



Claudio Giunta, Un noir che era tutto vero, Il Foglio, 22 agosto 2020

La non-fiction criminale ha una tradizione illustre che di solito si fa rimontare a A sangue freddo di Capote (1966) e di solito si fa culminare nell’Avversario di Carrère. Il lettore italiano oggi pensa a Gomorra, ma dovrebbe pensare invece a L’erede di Gianfranco Bettin o al capolavoro che è il memoir-inchiesta L’abusivo di Antonio Franchini, o… Molto prima che la non-fiction andasse di moda, prima anche che il New Journalism somministrasse ai giornalisti-scrittori la sua contaminazione di oggettività e arbitrio narrativo (“L’idea – spiegava Tom Wolfe – era di fornire una piena descrizione oggettiva, con in più qualcosa per cui i lettori si erano sempre dovuti rivolgere a romanzi e racconti: vale a dire, la vita soggettiva o emotiva dei personaggi”), Sergio Saviane pubblicò I misteri di Alleghe.
Saviane (1923-2001) si ricorda oggi soprattutto come giornalista di costume e come uno dei primi critici televisivi italiani (i meno giovani ricordano la sua rubrica sull’Espresso, i non più giovani ricordano il Male, di cui era co-fondatore e redattore), ma era nato come narratore (col romanzo Festa di laurea nel 1960 vince il premio Viareggio per l’opera prima) e critico letterario. Quanto al libro in questione, e alla vicenda raccontata nel libro, conviene partire da più lontano.
Sessant’anni fa esatti al tribunale di Belluno si chiudeva una storia criminale che di anni ne era durati ventisette. Nel maggio del 1933 una cameriera dell’albergo Centrale di Alleghe, Emma De Ventura, era stata trovata morta con la gola tagliata da un colpo di rasoio. Suicidio, secondo il medico del paese e secondo la polizia. “Emilio caro, è trascorso già quattro settimane da che qui più non si vediamo…” – così cominciava una lettera che gli inquirenti avevano trovato nella sua stanza, interrotta dopo le prime righe. Abbandonata da Emilio, scontenta del suo lavoro di cameriera, Emma non aveva resistito e si era tolta la vita. Passa però qualche mese, e a dicembre, in riva al lago semi-ghiacciato, a poche decine di metri dall’albergo, viene trovato il cadavere di Carolina Finazzer, giovane moglie di Aldo Da Tos, uno dei figli del proprietario del Centrale, Fiore Da Tos (i due, Carolina e Aldo, erano appena tornati dal viaggio di nozze nelle città d’arte). Breve indagine, e anche questa morte viene archiviata come suicidio. Il medico condotto conferma, il segretario del Fascio locale, il commendator Raniero Massi, trova il modo di zittire i genitori di Carolina che chiedono indagini più accurate. Arriva e passa la guerra, e in una notte di novembre del 1946 muoiono ammazzati con due colpi di pistola i fornai del paese, Luigi e Luigina Del Monego.
Quattro morti misteriose in poco più di dieci anni, in un paese di qualche centinaio di anime. La voce corre. Alleghe si merita il nomignolo di “Montelepre del Nord” (a Montelepre, vicino Palermo, in quegli anni imperversava il bandito Giuliano), i turisti cominciano a stare alla larga; Giovanni Comisso scrive un racconto intitolato La piccola valle, liberamente ispirato alla vicenda. Per l’assassinio dei Del Monego s’incrimina un balordo del luogo, che però viene presto rimesso in libertà. Più che brancolare nel buio, come nei film, la polizia sembra essersi dimenticata del caso: e del resto è il dopoguerra, le armi che circolano sono tante, e con la guerra e la guerra civile si è fatto il callo alla violenza e alle vendette.
E’ a questo punto che entra in scena Saviane, che ad Alleghe villeggiava da ragazzo, e aveva ascoltato le chiacchiere dei paesani sulle morti del 1933, e i sospetti intorno agli albergatori del Centrale. Conosceva bene i Del Monego, e la notizia della loro morte lo mette in sospetto: che sia legata a quelle di Emma e di Carolina, tredici anni prima? Che i due fornai avessero visto o sapessero qualcosa che non dovevano vedere o sapere? Torna ad Alleghe, discretamente interroga, indaga. Ci torna ancora negli anni successivi, e nell’aprile del 1952 pensa di saperne abbastanza da poter pubblicare un lungo articolo sul settimanale Il lavoro illustrato che riassume la vicenda insinuando il dubbio, o più di un dubbio, circa la ricostruzione degli inquirenti, e parlando di omertà e di testimoni intimiditi: “Se volessimo, pertanto, fare quel passo indietro, non potremmo certo concludere che Emma si sia data la morte con le proprie mani […]; né, d’altro canto, potremmo concludere che la Finazzer si sia buttata da sola nel lago: infatti fu ritrovata col ventre completamente vuoto, i denti stretti, e proprio a due passi dal Centrale, da casa sua cioè”. Inoltre, riferisce Saviane, la notte della morte di Carolina Finazzer i coniugi Del Monego sentirono i passi pesanti di qualcuno che andava verso il lago, al buio: e quel qualcuno, sentendosi minacciato, potrebbe aver voluto togliere di mezzo questi testimoni.
L’articolo viene letto ad Alleghe. Piace a coloro che avevano parlato con Saviane, e che tra mille esitazioni lo avevano incitato a scrivere per far sì che il caso venisse riaperto; non piace a Fiore e ad Aldo Da Tos, che citano in giudizio Saviane per diffamazione e vincono la causa: condanna a otto mesi di reclusione con la condizionale e 700.000 lire ai Da Tos per danni morali.
E’ il febbraio del 1953 e la questione sembra chiusa, ma non lo è. L’articolo di Saviane ha smosso le acque, i carabinieri non archiviano l’indagine e in capo a qualche anno (i tempi non sono strettissimi, qualche indiziato e qualche testimone nel frattempo muore per conto suo, nel suo letto) incriminano la famiglia Da Tos quasi al completo. Il processo si apre nel marzo del 1960 davanti a un folto pubblico di curiosi e di giornalisti (il Gazzettino, annota Saviane, manda addirittura due inviati, con paginate di aggiornamenti e pezzi di contorno, in un’epoca in cui le cronache di nera, se non proprio asciutte, non erano nemmeno soapizzate come sono oggi), e nel corso del dibattimento viene fuori una storia da film horror che conferma nella sostanza i sospetti di Saviane: i Del Monego uccisi perché testimoni dell’assassinio di Carolina; Carolina uccisa perché testimone dell’assassinio della cameriera Emma (il neo-marito Aldo glielo confessa in un momento di tenerezza); e la povera Emma uccisa perché… E qui si apre un prequel raccapricciante, con un figlio illegittimo della signora Da Tos che un giorno forse va a trovare la madre e reclama i suoi diritti sull’albergo, sull’eredità, ma non fa i conti con Fiore Da Tos, che forse lo uccide e lo fa a pezzi (una mano umana viene forse vista da un paio di clienti inorriditi in mezzo alle frattaglie, nella macelleria di famiglia); i pezzi vengono forse trovati per caso da Emma, che parla o vorrebbe parlare, e per questo motivo… Forse: perché è passato un quarto di secolo, e chi c’era allora non sa o non ricorda bene, o è morto.
E nel 1964 Saviane racconta tutta la storia nei Misteri di Alleghe, Mondadori (copertina memorabile coi primi piani degli imputati a processo), un po’ ricamando, da romanziere, sulle parole e i pensieri dei personaggi, ma su una trama di dati oggettivi, verificati con scrupolo di cronista: la ricetta del new journalism secondo Wolfe, appunto.
C’è una poesia famosa di Sereni, Intervista a un suicida, che ha questo finale memorabile: “Pensare … cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai”. Ecco, leggendo I
misteri di Alleghe si trema non tanto per la storia sanguinosa dei Da Tos (Saviane è bravo, ma né la costruzione del racconto né la scrittura sono all’altezza di una vicenda che avrebbe meritato un Capote o uno Stephen King) quanto perché si ricava, fortissima, l’impressione di cosa volesse dire vivere in un paesino isolato fino alla metà del Novecento, cioè prima dell’automazione di massa, della tv, della lavatrice, degli impianti sciistici, uno di quei borghi che si ravvivavano per poche settimane d’estate, per l’arrivo di una manciata di villeggianti, e poi per il resto dell’anno si addormentavano nel gelo. Ci si ricorda di quanto fosse facile morire bambini, soprattutto se indigenti, con nidiate di cinque, sei fratelli dei quali solo un paio arrivavano alla maggiore età. Ci si ricorda di quanto fosse grama la vita delle ragazze povere in età da marito, costrette a servire o a fare da balia, e come unica via d’uscita il matrimonio con un semi-sconosciuto oppure l’adulterio e l’infamia. E delle malattie nervose si diffidava, si aveva paura, perché nessuno sapeva bene che cosa fossero. Aldo da Tos, forse omicida forse solo correo o testimone, macellaio di professione, soffre chiaramente di mal caduco o epilessia o narcolessia, o comunque precisamente si chiami la malattia che ha queste spaventose manifestazioni: “in paese dicevano che era affetto da mal caduco, quando lo vedevano saltare per terra o perdere i sensi, lasciarsi cadere d’un tratto, abbandonando il bicchiere o le carte da gioco, con lo sguardo nel vuoto”. Ma il medico condotto dice che non c’è da preoccuparsi, e la famiglia è d’accordo, e Aldo viene trattato come il figlio scemo da mettere sotto tutela.
E la semplice impossibilità di sapere, di informarsi. Gli articoli, stampati un certo giorno, già il giorno dopo non si trovano più. Il carabiniere che indaga sugli omicidi ha saputo per caso dell’articolo di un giornalista passato da Alleghe, nessuno si ricorda bene il nome. Il carabiniere cerca di recuperare l’articolo, ma invano. “Le poche persone che glielo potevano far leggere avevano bruciato il giornale e non era facile trovarlo. Erano rimasti con la curiosità per molto tempo. Finché, pochi mesi prima dell’arresto di Gasperin, Ermanno De Toni gliel’aveva fatto leggere”. E così il carabiniere Ezio Cesca capisce che lui e Saviane hanno seguito la stessa traccia, “fatto le stesse supposizioni, legando i delitti tra di loro”. Mancando la memoria dei giornali e della tv, i contatti essendo radi e difficili, fioriscono le fake news, proprio come oggi, ma più di oggi ardue da confutare. Così qualcuno dice che Sergio Saviane è morto e non può più parlare dei fatti di Alleghe, e nessuno lo cerca più: ma in realtà il morto è un cugino di Saviane.
In più, tutto comincia nei primi anni Trenta, col fascismo in piena salute, e, come s’è accennato, un qualche ruolo nella vicenda ce l’ha, tra gli altri, il segretario del Fascio, che quasi certamente copre i colpevoli e intimidisce i testimoni, o dà man forte agli intimidatori, e poi la fa franca, uscendo pulito anche dal processo del 1960, bell’esempio di continuità tra fascismo e post-fascismo: “Il commendator Raniero Massi, dopo aver rischiato di essere incriminato per reticenza e per le contraddizioni in cui cadeva di continuo […] è tornato alla sua esistenza di vecchio pensionato”.
Ma soprattutto, chi oggi è turbato dalla violenza dei social network può fare un’utile gita d’istruzione in un mondo nemmeno così remoto in cui, un po’ come nel vecchio West, il tutore della legge, il prete e i maggiorenti locali decidevano per il bene o per il male della vita di tutta una comunità, e poteva accadere che un villain da romanzo come Fiore Da Tos – uomo avido, dispotico, maritato alla figlia dei padroni dell’albergo Centrale, ossessionato dal pensiero che un figlio non suo potesse mettere le mani su un pezzo del suo patrimonio, su un frammento della sua roba – per un quarto di secolo tenesse in ostaggio dell’omertà un intero paese e trasformasse in criminali tutti i suoi familiari: “Fiore era lucido nelle sue supposizioni. Ora che aveva coinvolto i figli, era sicuro di averli completamente in mano. Li aveva messi tutti alla pari. Elvira ci aveva impiegato parecchi anni a capire il marito e s’era sottomessa con fatica, ma i figli e il genero, abituati sempre ad obbedire, a non giudicarlo, a non discutere i suoi voleri, s’erano piegati senza sforzo ad ogni suo desiderio”.
Storia tremenda e affascinante, in America sarebbe già una serie tv; ma intanto si potrebbe ristampare il libro, che merita, e avrebbe un pubblico.

domenica 23 agosto 2020

Praga, agosto 1968




LA TESTIMONIANZA. TRA IL 21 E IL 22 AGOSTO NELLA CAPITALE DELLA CECOSLOVACCHIA CON I CARRI ARMATI SOVIETICI NELLE STRADE E LA GENTE CHE URLAVA «SVOBODA» (LIBERTÀ): L’ODISSEA DI CHI SI TROVAVA PRESENTE E FUGGÌ DAL PAESE INVASO
Quella notte del ’68 a Praga, io c’ero


La notte tra il 20 e il 21 agosto 1968 uscivamo con alcuni amici dal teatro della «Lanterna Magica», a Praga. Piccoli capannelli di persone discutono animatamente, ma non pensiamo di domandare se sia successo qualcosa: erano evidentemente locali e parlavano la loro lingua. Perciò prendiamo il primo tram che ci porta verso il nostro albergo, lontano dal centro. È tardi, e la mattina successiva avremmo dovuto alzarci presto per andare al Castello di Karlstein.
Eravamo arrivati a Praga due giorni prima, dopo un lungo giro in Scandinavia, Russia e Polonia: diciassette studenti dell’Università di Roma. Tutto tranquillo in città: piena di turisti occidentali, grande eccitazione per la «primavera» iniziata diversi mesi prima grazie al nuovo segretario del Partito Comunista, lo slovacco Dubcek. In quella notte tra il 20 e il 21 agosto, verso le 5, mi sveglio e scorgo dalla finestra lunghe file di carri armati con il simbolo del Patto di Varsavia. Assonnato, non ci faccio molto caso, penso a delle manovre e torno a letto. Verso le 6 un amico del gruppo, originario di Lecce, mi scuote con violenza dicendomi di alzarmi e di scendere di corsa nella hall a parlare con il cameriere, perché posso comunicare in tedesco. Lo mando a quel paese, pensando all’imminente levataccia per la gita a Karlstein. Ma lui insiste, dice che gli sembra di aver capito che sono arrivati i russi. Scendo in pigiama, parlo col cameriere: il quale dichiara senza esitazioni che, appunto, «sono arrivati i russi». Evidentemente, avevano attraversato le frontiere di notte, già prima che noi uscissimo dal teatro, ed erano ormai arrivati nella capitale. Non erano, come poi scoprimmo, solo russi, ma di tutti i Paesi del Patto di Varsavia, ma quelli dell’Unione Sovietica erano nettamente prevalenti. Esco, con il cameriere, per strada. I carristi sporgono dalle torrette dei tanks e guardano stralunati i nomi delle vie: sono in caratteri latini, loro leggono soltanto il cirillico.
È ormai chiaro che si tratta di un’invasione. In cinque minuti, afferro qualcosa da mangiare per colazione, risalgo in camera, mi vesto, riscendo, ed esco di nuovo. Saranno le 8, a questo punto. Lo spettacolo è completamente cambiato. Le strade sono piene di cechi vocianti. Alcuni si arrampicano sui carri armati, sputano in faccia agli stupiti carristi, cercano di discutere con loro in russo. Tutti urlano «Dubcek-Svoboda!».
Svoboda è il presidente della Repubblica Cecoslovacca, ma la parola significa «libertà». È uno spettacolo travolgente, incredibile, ben diverso da quello che avevo visto ad Atene l’anno prima, quando il 21 aprile 1967 i carri armati dei Colonnelli presidiavano Piazza Syntagma per il colpo di Stato. Silenzio di tomba sotto l’Acropoli, il terrore sui visi, la paralisi. Il caos e il chiasso, invece, a Praga. A restare muti e immobili sono, incredibilmente, gli invasori. Non muovono un muscolo davanti agli insulti, non li scalfiscono gli sputi, non rispondono alle domande. Soprattutto, non tirano fuori le armi.
Il nostro gruppo decide che bisogna fuggire il prima possibile, ma non è cosa facile: siamo legati ai mezzi pubblici, e aeroporto e stazione centrale sono tra le primissime cose che gli invasori hanno bloccato. Vengo spedito con un altro all’ambasciata italiana per cercare aiuto. I tram per il centro non funzionano. Ci avviamo a piedi per una lunga camminata. Trecento metri dopo, un soldato ci ferma, punta il mitra contro la nostra pancia, e gentilmente ma fermamente dice «Niet». Provo a spiegargli, in russo a brandelli, in tedesco, in italiano, che siamo italiani (abbiamo con noi i passaporti) e che vogliamo andare all’ambasciata del nostro Paese. Niente da fare: il «niet» è sempre gentile, ma la pressione del mitra sull’ombelico si fa un po’ più forte. Torniamo in albergo con la coda tra le gambe.
Siamo in una impasse, confinati nell’hotel. Quel pomeriggio e quella sera, il 21 agosto, succedono tre cose. La prima è che a un certo punto del pomeriggio mi ritrovo in un salottino con un gruppo di tedeschi provenienti dalla Germania dell’Est, quella comunista. Sono tutte coppie sui cinquanta, sessant’anni. In quel salottino c’è un grande apparecchio radiofonico, e tutti noi stiamo ascoltando la Radio Cecoslovacchia libera, che trasmette in inglese, francese, tedesco e i cui speaker si spostano di continuo, dentro Praga, di edificio in edificio, inseguiti dai servizi segreti degli invasori. Verso le 17,30 lo speaker annuncia in tedesco che Germania (Occidentale), Romania e Jugoslavia hanno decretato la mobilitazione generale. Non è vero, ma noi non abbiamo modo di controllare: ci crediamo. «Es ist der Krieg», è la guerra, cominciano a mormorare i tedeschi nel salottino. Mi vengono i brividi, lunghi e ricorrenti. Conosco l’espressione «mobilitazione generale» solo dai libri di storia, e mi pare cosa enorme. Ritorno dai miei amici con aria depressa, portando le notizie che ho sentito alla radio.
Comincia il secondo evento di quel pomeriggio. Qualcuno suggerisce di telefonare all’ambasciata italiana e vengo incaricato di farlo. Mi dicono di avere organizzato un convoglio di auto private precedute da una dell’ambasciata per condurre i connazionali fuori dalla Cecoslovacchia, ma di non avere posto per diciassette persone. Che fare? Gli amici, e soprattutto le ragazze, mi spingono a chiamare altre ambasciate: ricordo di aver provato con tutte quelle dell’allora Comunità Europea – Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo. Provo con gli svizzeri; con gli inglesi; con gli americani. Persino con il Nunzio Apostolico, che poco mancò mi mandasse a quel paese. Alla fine, qualcuno suggerisce di interpellare l’ambasciata dell’Unione Sovietica. Ci avevano cacciato loro in questo pasticcio, che ci tirassero fuori loro! I russi sono gentilissimi e concreti: propongono di mandare un bus la mattina successiva per portarci al confine più vicino: immaginai, con la Germania. Accetto, ringrazio, e riferisco ai compagni.
Scoppia subito una accalorata discussione se ci si poteva fidare. C’è chi aveva paura di finire in Siberia, chi in qualche fossa lungo una strada. Le ragazze hanno il terrore dei cosacchi. Che, in effetti, sembrano materializzarsi immediatamente. Eravamo stati avvertiti che le truppe «alleate» giravano a controllare gli ospiti degli alberghi. Il personale dell’hotel aveva chiuso il portone. Era la sera del 21 agosto, cominciava a far scuro. Scrivo una gran cartolina indirizzata a me stesso, a Roma. Diceva: «I russi sono a Praga». All’improvviso, bussano forte al portone. Il direttore dell’albergo va ad aprire: sono tre ufficiali con tanto di mitra. Ci sorridono e dichiarano di essere polacchi. Poi, aprono i mitra ed estraggono le cartucce, ce le consegnano e dicono che così saremmo stati sicuri che non le avrebbero mai usate contro di noi. Grande sospiro di generale sollievo. Dopo un po’, gli ufficiali scompaiono nella notte e noi, esausti, andiamo a letto pensando all’autobus sovietico della mattina successiva, che sarebbe dovuto arrivare alle 9.
Alle 8, mentre siamo in trepidante attesa, compare all’improvviso Kamila, la nostra guida. Rivela di aver saputo che da una stazione periferica dovrebbe partire un treno diretto a Norimberga, in Germania. Ha inizio allora una vera e propria odissea per via tramviaria. Cambiamo non so quanti tram. Appena saliamo su uno, gli altri passeggeri ci riempiono di volantini implorandoci di portarli in Occidente, di raccontare la verità al di là della Cortina: non è stato un soccorso dei fratelli socialisti, ma un attacco vero e proprio, una invasione con tanto di repressione. Li conservo ancora. Alcuni sono diretti, in tre o quattro lingue (russo, tedesco, polacco, bulgaro) alle truppe occupanti: dicono che non sono state «invitate», che nessuno, qui, le vuole.
Quando infine arriviamo alla stazione, Kamila si precipita a raccogliere informazioni. Ritorna con una brutta faccia: quasi piangendo, ci dice che non c’è nessun treno per Norimberga, gli invasori hanno già sigillato la frontiera con la Germania occidentale. Da lì, non si passa. Però il capostazione ha fatto un paio di telefonate in sua presenza ed è venuto a sapere che forse, forse, c’è un treno da un’altra stazione periferica, dalla parte opposta della città, diretto in Austria. Riprendiamo i tram, sui quali riceviamo nuovi manifestini , e circa un’ora dopo raggiungiamo la fatidica stazione. Questa volta, il treno c’è per davvero, o meglio ci sarà fra un paio d’ore. Si uniscono cinque francesi, anch’essi intrappolati a Praga. Salutiamo e ringraziamo Kamila per tutti i suoi sforzi e saliamo sul treno, affamati ma contenti.
Una mezz’ora più tardi, mentre il treno è in marcia verso Sud, passa il controllore, al quale mostriamo il biglietto cumulativo per tutto il viaggio: lo accetta senza battere ciglio, anche se le date sono ormai sfasate. Gli domando in tedesco a che ora pensa che arriveremo a Linz, in Austria. Mi guarda sbalordito e dichiara che il treno non va affatto in Austria, ma che se vogliamo provare ad arrivare là dobbiamo cambiare a Ceske Budejovice. Con un po’ di acrobazie, ce la facciamo. Il treno sul quale saliamo è un trenino probabilmente di prima della Guerra, con compartimenti piccoli e finestrini non apribili, scomodo, rumorosissimo e a vapore. Passa anche qui il controllore, al quale domando a che ora dovremmo arrivare in Austria. Mi risponde, stupito come il suo predecessore, che il treno non va in Austria, ma si ferma all’ultima stazione prima del confine, qualcosa che termina in Droste.
Mi suggerisce di scendere e da lì telefonare agli austriaci perché mandino un treno a prenderci. Figurarsi se gli austriaci, penso io – pensiamo tutti – possono prendere in considerazione di mandare un treno a prelevare, al di là della Cortina di Ferro, sedici italiani, un somalo e cinque francesi!
Nel frattempo, un fatto nuovo interrompe le nostre meditazioni. La ferrovia corre parallela alla strada automobilistica che conduce al confine. E c’è una fila ininterrotta di carri armati che si dirigono verso Sud, evidentemente per sigillare anche quella frontiera. Non c’è modo di accelerare un po’ la nostra andatura da carrozza ottocentesca, domando al controllore quando ripassa, additandogli i tanks. Mi risponde di non preoccuparmi: basta che io convinca gli austriaci.
Finalmente, arriviamo a Dolní Dvo?išt?, e io sono pronto a scattare per andare a cercare un telefono, ma vengo fermato da un’enorme donna in uniforme che annuncia: «Ispezione doganale». Le dico che devo scendere per andare a telefonare agli austriaci che mandino un treno, eccetera. Ma quella mi blocca. Sembra sapere tutto di noi. Dice: tranquilli, vi portiamo noi in Austria. A questo punto, pensiamo di ripartire dopo poco. Invece, il treno comincia a fare strani movimenti: va avanti di qualche metro, sembra urtare contro qualcosa, arretra di una decina di metri. Intanto, si fa buio. Non c’è traccia dei «russi», forse hanno preso un’altra strada. All’improvviso, si accendono enormi riflettori e si sentono cani abbaiare furiosamente. Ci dicono che stanno dando la caccia a uno che voleva scappare a Ovest. Un’ora più tardi i riflettori si spengono, i cani tacciono – e il treno si muove lentamente, molto lentamente dentro la terra di nessuno verso l’Austria.
La mattina dopo siamo a Innsbruck, dove mangio il più grosso e più buon pezzo di strudel mai assaggiato. Al Brennero i carabinieri, dicendo che noi siamo i “dispersi” in Cecoslovacchia, ci danno Chianti e panini. Proseguo verso Roma. Un mese dopo, arriva la cartolina che avevo imbucato a Praga il 22 agosto. Ancora oggi, è in una teca nell’ingresso di casa.
Il Sole 24 ore, 23 agosto 2020

domenica 9 agosto 2020

Kunderiana





Francesco M. Cataluccio
AMORE. Vedi alla voce LITOST.
ARTE DEL ROMANZO. "L’arte del romanzo" (1988) inizia così: “Nel 1935, tre anni prima di morire, Edmund Husserl tenne, a Vienna e a Praga, alcune famose conferenze sulla crisi dell'umanità europea. L'aggettivo "europeo" designava per lui quell'identità spirituale che si estende al di là dell' Europa geografica (all'America, per esempio) e che è nata con la filosofia greca classica. Questa, secondo lui, per la prima volta nella Storia, intese il mondo (il mondo nel suo insieme) come una questione da risolvere. Lo interrogava non per soddisfare questo o quel bisogno pratico, ma perché l'umanità era pervasa dalla passione del conoscere”.
CARATTERE BOEMO. I protagonisti delle storie di Kundera sono quasi tutti dei perfetti fratelli o cugini di Sc'vèik, il buffo e tremebondo soldatino protagonista dell'esilarante libro, molto amato da Kundera, di Jaroslav Hašek. Kundera, invece di una comprensione umana per la debolezza del carattere dei sui connazionali, cerca di mettere in evidenza i chiaroscuri dei loro atteggiamenti, evitantando però accuratamente di assumere delle posizioni moralitste. Tutti i suoi "eroi", in fondo, sono un po' meschini, ma anche malinconicamente umani e simili a tutti noi, votati alla sconfitta o alla sottomissione: "I suoi connnazionali, i quali, com'è noto non amano la parte dell'eroe (che lotta e vince), ma piuttosto quella del martire: infatti i martiri li rassicurano, confermandoli nella loro legale inazione e confermando che la vita offre solo due alternative: la rovina o l'obbedienza" .
CINEMA E DONNE. La nouvelle vague (Nová vlna ) cecoslovacca degli anni sessanta, uno dei fenomeni più belli e meno conosciuti della storia de cinema, è la scuola dove si forma Kundera. Un cinema che, grazie a registi come Jiri Menzel, Milos Forman, Vera Chytilová, Jaromil Jires, Juraj Jakubisko si intersecava di continuo con la letteratura. Giovani scrittori (come Skvorecky, Kima, Vaculik, Hrabal e lo stesso Kundera) e giovani registi sembravano andare all'unisono, scambiandosi in continuazione materiali e storie. Jires traspose, ad esempio, mirabilmente, nel 1968, Žert (Lo scherzo) di Kundera, che insegnava alla Scuola di cinematografia di Praga. La scrittura di Kundera, se messa vicino a quei film, appare contaminata sia nello stile, asciutto e surreale, che nei contenuti: tante piccole e poetiche storie di uomini e donne comuni che si arrabattano in un universo assurdo.
COMPASSIONE. “Nelle lingue derivate dal latino la parola compassione significa: non possiamo guardare con indifferenze le sofferenze altrui; oppure: partecipiamo al dolore di chi soffre. È per questo che la parola compassione generalmente ispira diffidenza: designa un sentimento ritenuto mediocre, di second'ordine, che non ha molto a che vedere con l'amore.
Nelle lingue che formano la parola compassione non dalla radice sofferenza (passio) bensi dal sostantivo "sentimento", la parola viene usata con significato quasi identico. Avere compassione (co-sentimento) significa vivere insieme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore. Nella gerarchia dei sentimenti è il sentimento supremo.” (L’insostenibile leggerezza dell’essere, p.10)
DiO VIGLIACCO. Secondo il mio rimpianto amico Guido D. Neri, autore del pionieristico "Aporie della realizzazione. Filosofia e ideologia nel socialismo reale" (Feltrinelli 1980; Unicopli, Milano 2015), che aveva abitato a Praga prima del '68, e col quale discutevamo spesso di Kundera, il suo capolavoro era il racconto Io dio vigliacco. Una storia di un'ironia tremenda. Un uomo innamorato di un'allieva del conservatorio, non riuscendo a sedurla, la fa incontrare con un amico greco, spacciandolo per il direttore dell'opera di Atene. Giovanna si concede a lui convinta di dare tutta stessa all'arte. Avrà un bambino. I due uomini, che non possono scoprirsi, soffriranno impotenti. Il protagonista (l'io narrante) si sente l'artefice, come in una commedia, di tutta la storia di cui finirà con l'essere la prima vittima: "Ho organizzatto tutto io, per divertirmi. Ho inventato io tutta la storia. Sono io il dio di questa storia. Ma che dio vigliacco..." La morale, come in tutte le storie di Kundera, è che le nostre azioni finiscono sempre con l'acquistare un senso opposto a quello da noi attribuito a priori: hanno una vita propria, indipendente da noi.
DIRITTI DEGLI ANIMALI. Il personaggio più dignitoso e coerente nell’amore, nell’Insostenibile leggerezza dell’essere) è il cane Karenin. Kundera fa un’impietosa analisi dei rapporti tra uomini e animali, a partire dalla Genesi: “Subito all'inizio della Genesi è scritto che dio creò l'uomo per affidargli il dominio sugli uccelli, i pesci e gli animali. Naturalmente la Genesi è stata redatta da un uomo e non da un cavallo. Non esiste alcuna certezza che dio abbia affidato davvero all'uomo il dominio sulle altre creature. È invece più probabile che l'uomo si sia inventato dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca e sul cavallo. Sì, il diritto di uccidere un cervo od una mucca è l'unica cosa sulla quale l'intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose. Questo diritto ci appare evidente perché in cima alla gerarchia troviamo noi stessi. Ma basterebbe che nel gioco entrasse una terza persona, ad esempio un visitatore da un altro pianeta, il cui Dio gli abbia detto: ‘Regnerai sulle creature di tutte le altre stelle!’, e tutta l'evidenza della Genesi diventerebbe di colpo problematica. Un uomo attaccato a un carro da un marziano, o magari fatto arrosto da un abitante della Via Lattea, si ricorderà forse della cotoletta di vitello che era solito tagliare nel suo piatto e chiederà scusa (in ritardo!) alla mucca”.
La misura della nostra umanità è nel repporto che abbiamo verso gli animali.
DOMANDE. Kundera è convinto che la stupidità derivi dall'avere una risposta per ogni cosa e la saggezza derivi invece dall'avere, per ogni cosa, una domanda. Come disse a Philip Roth che lo intervistava: “Il romanziere insegna alla gente a cogliere il mondo come una domanda”. (Philip Roth, The Most Original Book of the Season, “New York Times”, 30 novembre 1980).
ENTUSIASTI CRIMINALI. Ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, Kundera affida a Tomáš una riflessione assai lucida e impietosa sulle responsabilità dei comunisti: “Chi pensa che i regimi comunisti dell'Europa Centrale siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità fondamentale: i regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti di aver scoperto l'unica strada per il paradiso. Essi difesero con coraggio quella strada, giustiziando per questo molte persone. In seguito, fu chiaro che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano quindi degli assassini. Allora tutti cominciarono a inveire contro i comunisti: Siete responsabili delle sventure del paese (è impoverito e ridotto in rovina), della perdita della sua indipendenza (è caduto in mano alla Russia), degli assassinii giudiziari Coloro che venivano accusati rispondevano: Noi non sapevamo! Siamo stati ingannati Noi ci credevamo! Nel profondo del cuore siamo innocenti! La discussione si riduceva a questa domanda: Davvero loro non sapevano? Oppure facevano solo finta di non aver saputo nulla? Tomas seguiva la discussione (così come la seguivano tutti i dieci milioni di cechi) e si diceva che tra i comunisti c'era sicuramente chi non era del tutto all'oscuro (dovevano pur sempre aver sentito parlare degli orrori che erano stati commessi e che venivano ancora commessi nella Russia postrivoluzionaria). Ma era probabile che la maggior parte di loro non ne sapesse davvero nulla. E si disse che la questione fondamentale non era: Sapevamo o non sapevamo?, bensì: Si è innocenti solo per il fatto che non si sa? Un imbecille seduto sul trono è sollevato da ogni responsabilità solo per il fatto che è un imbecille? Ammettiamo pure che un procuratore ceco che all'inizio degli Anni Cinquanta chiedeva la pena di morte per un innocente sia stato ingannato dalla polizia segreta russa e dal proprio governo. Ma ora che sappiamo tutti che le accuse erano assurde e i giustiziati innocenti, com'è possibile che quello stesso procuratore difenda la purezza della propria anima e si batta il petto: La mai coscienza è senza macchia, io non sapevo, io ci credevo. La sua irrimediabile colpa non risiede proprio in quel 'Io non sapevo! Io ci credevo!'? Fu allora che a Tomas tornò in mente la storia di Edipo: Edipo non sapeva di dormire con la propria madre ma, quando capì ciò che era accaduto, non si sentì innocente. Non poté sopportare la vista delle sventure che aveva causato con la propria ignoranza, si cavò gli occhi e, cieco, partì da Tebe. Tomas sentiva le grida dei comunisti che difendevano la loro purezza interiore e diceva tra sé: Per colpa della vostra incoscienza la nostra terra ha perso, forse per secoli, la sua libertà e voi gridate che vi sentite innocenti? Come potete ancora guardarvi intorno? Come potete non provare raccapriccio? Siete o non siete capaci di vedere? Se aveste gli occhi, dovreste trafiggerveli e andarvene da Tebe!”
EROTISMO. Nonostate le apparenze, l'erotismo per Kundera non gioca quel ruolo che sembrerebbe derivare dal fatto che tutti i suoi protagonisti sono fortemente condizionati dal sesso. L'atmosfera languida e dolcemente erotica che si respira nelle sue pagine è quella di certi film degli anni sessanta (-> Cinema e donne), come Gli amori di una bionda di M. Forman o Un'estate capricciosa di J. Menzel. Ružena, de Il valzer degli addii assomiglia perfettamente alla protagonista sognante de Gli amori di una bionda. Ma per Kundera, il sesso rimanda sempre ad altro: "Nell'erotismo non cerchiamo che l'immagine della nostra importanza e dei nostri successi" . In fondo, come per gli slavi, quello che conta è l'amicizia: "Ho avuto abbastanza storie con le donne, nella mia vita, e questo mi ha insegnato a rispettare l'amicizia tra gl uomni. Questo rapporto non sporcato dalle cretinaggini dell'erotismo è l'unica cosa valida che io abbia mai conosciuto in vita mia" .
FILOSOFIA. I romanzi di Kundera sono sempre stati preceduti da grandi letture filosofiche e si sente che le sue storie sono spesso trattate come "novelle esemplari" di un particolare filone di pensiero. Prima de La vita è altrove rilesse tutto Heidegger; prima de Il valzer degli addii: quattro tomi sulla vita dei santi, Freud, studi sulla pittura religiosa, Bataille. I suoi autori preferiti, tra i filosofi e gli scrittori-filosofi, sono: Platone, Rabelais, Sterne, Diderot, Nietzsche, Kafka, Broch, Heidegger, Bataille e Gombrowicz, Husserl: "La mia passione per la filosofia è tipica di un eclettico, tutti i romanzieri sono banalmente eclettici quanddo parlano di filosofia. Io non ricerco una verità: cerco la ricchezza di possibilità di vedere il mondo. la Fenomenologia è il punto di incontro tra la filosofia e i romanzo. Essa è la filosofia delle cose che sono evidenti, prima che la scienza le matematizzi (...) In generale tutti i pensieri che arrivano troppo facilmente ad un sistema, a un dogma, mi repugnano" .
FOTOGRAFIE. Per Kundera, il Potere nei paesi del socialismo reale si presenta come un'enorme macchina che tutto cancella: la memoria, il passato di tutta la nazione e di ogni individuo. (☞ Oblio) In particolare questa cancellazione avviene nelle fotografie. In Kniha smichu a zapomnêí (Il libro del riso e dell'oblio, Kundera racconta di come venen cancellato il premuroso ex ministro Clementis: “Nel febbraio 1948 il dirigente comunista Klement Gottwald si affacciò al balcone di un palazzo barocco di Praga per parlare alle centinaia di migliaia di cittadini che gremivano la piazza della Città Vecchia. Fu un momento storico per la Cecoslovacchia. Un momento fatale, come ce ne sono uno o due in un millennio. Gottwald era circondato dai suoi compagni e proprio accanto a lui c'era Clementis. Faceva freddo, cadevano grossi fiocchi di neve, e Gottwald era a capo scoperto. Clementis, premuroso, si tolse il berretto di pelliccia che portava e lo posò sulla testa di Gottwald. La sezione propaganda diffuse in centinaia di migliaia di esemplari la fotografia del balcone da cui Gottwald, con il berretto di pelo in testa e il compagno a fianco, parlava al popolo. Su quel balcone cominciò la storia della Cecoslovacchia comunista. Dai manifesti, dai libri di scuola e dai musei, ogni bambino conosceva quella foto.
Quattro anni dopo Clementis fu accusato di tradimento e impiccato. La sezione propaganda lo cancellò immediatamente dalla storia e, naturalmente, anche da tutte le fotografie. Da allora Gottwald, su quel balcone, ci sta da solo. Lì dove c'era Clementis c'è solo la nuda parete del palazzo. Di Clementis è rimasto solo il berretto che copre la testa di Gottwald”.
In seguito vennero cancellati tutti i protagonisti e le vicende dalla Primavera di Praga. Le loro immagini erano tassativamente vietate. Cancellare una foto è cancellare la storia: "La deportazione di mezzo milione di lituani, l'assassinio di centinaia di migliaia di polacchi, la liquidazione dei tatari in Crimea, tutto ciò è rimasto nella memoria senza documenti fotografici e quindi, in fondo, come qualcosa di indimotrabile che, prima o poi, sarà fatto passare per una mistificazione".
GIOVANE POETA. Il romanzo "La vita è altrove" è la storia di Jaromil (che significa: "colui che ama la Primavera" o ""colui che è amato dalla Primavera")- e si noti l'ironia con la cosiddetta "Primavera di Praga"- bambino-poeta condannato all'immaturità da un atroce, risucchiante amore materno. La madre insegna al piccolo il valore delle parole perché egli è destinato a fare il poeta. Infatti, vivrà e morirà da poeta, a vent'anni. La sola volta che, nel suo desiderio di virilità, agisce con le parole sulla realtà, diviene, con slancio lirico e ottima coscienza, la spia della polizia e condivide di tutto cuore il sadismo degli aguzzini.
Il valzer degli addii è ambientato in una stazione termale per donne sterili. La protagonista, l'infermiera Ružena, cerca un padre per il bambino che ha in pancia e si scontra con Klima, famoso trombettista che sfiora la verità in un ballabile di menzogne e cerca di farla abortire per non avere il figlio.
Kundera stesso al'inizio della sua carriera artistica è stato un poeta. Esordì con due raccolte: L'uomo è un grande giardino (1953) e Monologhi (1957) . Me le regalò, a Milano, la dolce amica dottoressa Vlasta Feslova, compagna di gioventù di Kundera, raccomandandomi di partire da lì per imparare il cèco.
GOMBROWICZ WITOLD. Uno dei motivi per i quali amo Kundera è perché, tra gli scrittori, è colui che ha capito meglio il romanziere polacco che più ammiro. Nelle sue interviste e negli scritti teorici , Kundera fa spesso afferazioni di questo tipo: "Considero Ferdydurke uno dei tre o quattro più grandi romanzi scritti dopo la morte di Proust" . A Gombrowicz, Kundera dedica pagine molto belle sia ne L'arte del romanzo che ne I testamenti traditi. Ma, soprattutto, si serve di Gombrowicz per spiegare il suo disagio di esule che potrebbe, passata la dittatura, tornare in patria e non ci riesce: "Penso spessoa Gombrowicz in quei giorni di Berlino, al suo rifuto di rivedere l Polonia: dipendeva dalla sua diffidenza verso i regime comunista allora la potere? Non credo: il comunismo polacco comincava già a sgretolarsi, gli uomini di cultura militavano quasi tutti nelle file dell'opposizione e avrebbero trasformato la visita di Gombrowicz in un trionfo. Le ragioni vere di quel rifiuto non potevano essere altro che esistenziali. E incomunicabili. Incomunicabili perché troppo intime. incomunicabili, anche, perché troppo offensive per gli altri. Certe cose si possono solo tacere" . Quale modo migliore per spiegare ai propri connnazionali offesi dalla sua ostinazione a starsene a Parigi (e, addirittura, scrivere direttamente in francese) che questo richiamo alle ragioni intime di Gombrowicz, ben comprensibili del resto nel suo Dziennik (Diario)!
IMMATURITÀ. Tutti i protagonisti delle storie di Kundera sono degli immaturi che non trovano nella realtà, nella Storia dal volto mostruoso, un luogo e un modo per realizzare pienamente la loro condizione umana. Kundera riprende il tema dell'infantilismo, caro allo scrittore polacco Gombrowicz (☞ Gombrowicz Witold), sostenendo che ogni sistema totalitario è una macchina che bambinizza gli adulti. Ciò che viene proposto è: dimenticare la libertà, la propria individualità, tornare bambini, smettere di occuparsi delle grandi questioni politiche. Soddisfazione dei bisogni materiali in cambio del sacrificio della libertà. E infatti quei regimi sono crollati quando non sono stati più in grado di garantire più nemmeno i beni materiali,a popolazioni "sempre più esigenti". Kundera scrive una frase di grande profondità, che può essere considerata una chiosa ai tempi moderni: "I bambini non sono l'avvenire perché saranno un giorno adulti, ma perché l'umanità si avvicina sempre più a loro, perché l'infanzia è l'immagine dell'avvenire”. (☞Giovane poeta).
NORMALIZZAZIONE. “L'invasione russa del 1968 ha spazzato via la generazione degli anni sessanta, e con essa tutta la cultura moderna che l'ha preceduta. I nostri libri sono chiusi negli stessi sotterranei insieme a quelli di Kafka e dei surrealisti cechi. I vivi trasformati in morti stanno a fianco dei morti fatti morire due volte. Si cerchi di capirlo, una buona volta: non sono soltanto i diritti dell'uomo, la democrazia, la giustizia, ecc., che non esistono più a Praga. È un'intera grande cultura che a Praga oggi si trova "come un foglio di carta in fiamme dove scompare la poesia". (Intervento sugli effetti della Normalizace, 1981)
KATOWICE. Il 25 e 26 aprile del 1986, alcuni amici polacchi, con i quali avevo condiviso per tre anni il seminario per dottorandi dell'Istituto di studi letterari (IBL) di Varsavia, organizzarono a Katowice un seminario clandestino su Kundera, dove venni invitato. Tutto, all'inizio, fu molto formale, nonostante la censura e il pericolo di esser scoperti: inviti stampati, richiesta del titolo della relazione (la mia si intitolava: La filosofia di Kundera), materiali di documentazione appositamente tradotti dal ceco e dal francese. Arrivammo a Katowice (una delle città più brutte della Polonia: grosso polo industriale al confine con la Germania) alla spicciolata, la sera prima dell'inizio dei lavori: 28 persone provenienti da tutta la Polonia (tra le quali due stranieri: uno svedese ed io) alloggiate posti di fortuna, da amici e anche, come nel mio caso, da persone ignare. Il seminario si tenne in un alloggio da poco abbandonato, al quarto piano di un grigio palazzone di periferia. Tutti seduti per terra ascoltammo 12 relazioni e registrammo cinque ore di dibattiti. Le uniche pause erano per dei veloci pranzetti a base di salsiccie bollite, pane e birra (ce n'erano delle casse piene contro una parete). Il secondo giorno, irruppe in casa la polizia, ma fece finta di aver interrotto una rimpatriata di amici un po' alticci. L'atmosfera era invece quella di una discussione maledettamente seria, di una fraternità e una comunanza spirituale davvero singolari. La sbobinatura di quei materiali fu poi pubblicata in un libro, due anni dopo, a Londra e, contemporanemente, in Polonia, nelle edizioni clandestine. E' convinto considerata tutt'oggi la cosa più completa e interessante uscita sullo scrittore boemo. Debbo a Kundera una delle avventure intellettuali e umane più belle che mi siano capitate e la riprova che "all'Est" c'era un rapporto con la letteratura e la cultura assai più profondo che da noi.
KITSCH. Kundera ha, tra l'altro, il merito di aver sollecitato una riflessione sul kitsch come "essenza del nostro tempo" . Egli prende le mosse dalle riflessioni dello scrittore austriaco Hermann Broch (1886-1951) secondo il quale il kitsch è la riduzione di tutti i criteri di valutazione delle azioni umane alla grandezza dell'effetto che producono. La trasformazione della razionalità nella crudeltà. La crudeltà più terrificante è sempre connessa con la pretesa della letteratura di diventare, essa stessa, la Guida illuminata della Storia. Kundera ha rispreso queste idee e le ha poste al centro della sua poetica. In particolare, nel romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere, prende la merda come misura del kitsch. La merda è negata continuamente e tutti si comportano come se non esistesse. Il kitsch è la negazione assoluta della merda: "Il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile" . Nel regno del kitsch impera la dittatura del cuore, per questo è l'ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e i movimenti politici: "La fratellanza di tutti gli uomini della terra sarà possibile solo sulla base del kitsch". Il kitsch in fondo è un paravento che nasconde la morte. Per questo: "Nessuno di noi è un superuomo capace di sfuggire interamente il kitsch. Per quanto sia forte il nostro disprezzo, il kitsch fa parte della condizione umana" .
Italo Calvino mosse due acute obiezioni a questa teoria di Kundera:
1) terminologica. Kundera prende in considerazione soltanto una delle categorie del kitsch: "Del cattivo gusto della cultura di massa fa parte anche il kitsch che pretende di rappressentare la spregiudicatezza più audace e 'maledetta' con effetti facili e banali. Certo è meno pericolosa dell'altro, ma ne va tenuto conto per evitare di crederlo un antidoto"; 2) metafisica. L'illusione di un mondo in cui non esista la defecazione, perché secondo Kundera la merda è la negatività assoluta, metafisica. Obietterò che per i panteisti e gli stitici (io appartengo a una di queste due categorie, non preciserò quale) la defecazione è una delle più grandi prove della generosità dell'universo. Che la merda sia da considerare tra i valori e non tra i disvalori, è per me una questione di principio".
KUNZE. Rainer Kunze, poeta e scrittore della Germania orientale, autore, tra l'altro, di un piccolo meraviglioso libretto: Die wunderbaren Jahre (Gli anni meravigliosi), che gli costò l'espulsione dal proprio paese. Il libro contiene un perfetto "racconto kunderiano", con un protagonista che incarna bene quel misto di amara ironia e vigliaccheria che caratterizzava lo spirito dei boemi sotto il socialismo ed era la loro forza (l'ironia aiutava a sopportare l'assurdità della dittatura), ma anche la debolezza (tutto veniva preso per grottesco e poco meritevole di un contrasto eroico). Il racconto si intitola: Il mio amico, un poeta dell'amore.
E' uno dei più coraggiosi tra March e Moldava, un frantumatore di tabù, un ironico disgregatore di dogmi: aveva sottoscritto la primavera del '68.
"Verso le tre di mattina una donna si ferma dietro l'uscio e grida il mio nome, e proprio quella notte Alena è da me" disse. Alena è la moglie. Non abitavano a Praga. Ci lavorava soltanto e aveva una camera. "Sai quanto Alena è gelosa"disse. "per fortuna ha il sonno di un bambino. -Quella fuori aspetta, e io rifletto su chi possa essere: jana? Evicka?… Dása? Dása l'avevo conosciuta solo qualche giorno prima. Una ragazza splendida! Ma quando con una ragazza sei andato a letto una volta sola, non basta per riconoscerla subito dalla voce. Quella chiama ancora, bussa. A questo punto si agita anche Alena. Le posò una mano sulla bocca e dico che non si deve muovere, probabilmente è qualcuno al quae hanno chiuso il bar e che vuole continuare a bere. poi sento che va via, esce... Alle sei e mezzo bussano di nuovo. La stessa voce. -Vado ad aprire- dice Alena. -Così non puoi, dico, e cerco di dissuaderla. -sono curiosa, dice lei, e prende la vestaglia. Quando vedo che la catastrofe non è più evitabile, mi trasferisco in bagno. Alena rientra, pallida. Praga è occupata, dice, in piazza Venceslao ci sono carri armati sovietici. -Beh, sapessi cosa successe dentro di me in quel momento: com'ero contento che fossero soltanto i carri armati".
LETTERATURA E POLITICA. Kundera è stato il meno politico, anche se è stato perseguitato da delle autorità burocraticamente ottuse, di tutti gli scrittori appartenti alla cosiddetta "area del dissenso". Dopo il sessantotto, era un uomo deluso e amareggiato: l'impegno politico gli faceva orrore, non voleva sentir parlare né di dissidenti né di socialismo. Difendeva strenuamente l'autonomia della letteratura dall'impegno politico: "La diffidenza del pubblico verso la letteratura dell'Est è in gran parte giustificata. Questa letteratura è infatti sempre la vecchia letteratura 'impegnata', anche se è portatrice di una degnissima testimonianza. Veicola verità preconcette anche se giuste, è a tesi, manichea, noiosa. Per esempio: Il primo cerchio di Solzenicyn, ho provato a leggerlo tante volte ma non sono mai andato oltre la pagina 150; so dalll'inizio cosa mi vuol dire. Lo stesso per un autore come Zinoviev. Personalità rispettate molto e lette poco."
Ciò non gli ha impedito di ingaggiare delle importantissime battaglie culturali in difesa delle "piccole nazioni dell'Europa centrale", di intervenire in difesa della Slovenia: "Il patriottismo degli sloveni mi tocca personalmente, dal momento che si è sempre fondato non su un esercito o su un partito politico ma sulla cultura e, in primo luogo, sulla letteratura. Il loro eroe nazionale non è né un soldato né un prete ma France Presern, il grander poeta romantico della prima metà del XIX secolo". Per queste dichiarazioni Kundera venne violentemente attaccato dal Peter Handke sulle pagine della "Suddeutsche Zeitung", agli inizi di agosto: "Com'è triste e anche scandaloso, quando qualcuno come Milan Kundera separa la Slovenia insieme alla Croazia, dai Balcani serbi, e la sbatta ciecamente in quella spettrale Europa centrale, i cui padroni imperiali un tempo volevano liquidare come linguaggio povero e barbaro anche la lingua slava dei cechi".
Ma anche nei suoi primi romanzi e racconti, che rimangono le sue cose più belle, a volte ho l'impressione che si sia ormai depositata la patina di un passato che sembra lontanissimo: come rivedere certi film di Antonioni degli anni sessanta o riascotare una canzone di Yves Montand. I libri di Kundera sopravvivono nelle parti più "decostentualizzabili", dove vince l'ironia e la pietà per le umane miserie (e lo stile, quello del grande scrittore, non invecchia!).
LITOST. "Litost è una parola ceca intraducibile in altre lingue. Desgna un sentimento nfinito come una fisarmonica aperta, un sentimento che è la sintei di molti altri: tristezza, compassione, rimorso, nostalgia. La prima sillaba di questa parola, che si pronuncia lunga e accentata, suona come il lamento di un cane abbandonato (...). La litost è uno stato doloroso suscitato dallo spettacolo della nostra miseria, scoperta all'improvviso. Tra i rimedi consueti alla nostra personale miseria c'è l'amore. Perchè chi è assolutamente amato non può essere miserabile. Tutti i suoi difetti sono riscattati dallo sguardo magico dell'amore, in cui anche un goffo modo di nuotare con la testa alta sopra la superficie dell'acqua può diventare seducente. L'assoluto dell'amore è in realtà un desiderio di identificazione assouta, il desiderio che la donna nuoti lentamente come noi e non abbia nessun passato individuale da poter ricordare con felcità. Ma da quando l'illusione dell'identità assoluta si rompe (la ragazza nuota rapidamente, ossia ricorda con felicità il proprio passato), l'amore diviene una fonte permanente di quel grande tormento che chiamiamo amore. (...) La litost è un tratto del'età dell'inesperienza. E' uno egli ornamenti della giovinezza" . Ho sempre pensato che la parola litost stia appiccicata all'animo di Kundera come una decalcomania.
LOMBARDO RADICE LUCIO. Scoprii per la prima volta Kundera grazie a una appassionata intervista che Enrico Filippini fece al matematico comunista Lombardo Radice , nella quale si definiva Il valzer degli addii un libro tragico che ogni comunista democratico avrebbe dovuto leggere. Lo andai subito a comprare: mi parve bellissimo e mi fece molto ridere. Ma capii che per uno come Lombardo Radice, che aveva creduto nel "socalismo reale", è un po' ci credeva ancora, doveva essere un pugno nello stomaco. Essendo allora iscritto alla gioventù comunista (ma essendomi già "vaccinato" leggendo Solzenicyn e Herling) contattai Lombardo Radice. Iniziammo uno scambio di lettere e opinioni che assomigliava a quello di due "dissidenti interni". Lo invitammo a un contrastato (dai vari Pajetta, Bufalini, Cossutta e compagnia di succubi dell'Unione sovietica) convegno sul dissenso che si tenne a Firenze nel 1977 (anno nel quale ci fu anche la Biennale del dissenso a Venezia: il primo segno di risveglio di una parte della cultura di sinistra italiana, che i vertici del PCI non capirono e cercarono di ostacolare). Lombardo Radice era un uomo grande, buono e generoso e ammirava molto quegli intellettuali come Havemann, Bahro, Mlynař e Kundera, che "non hanno rotto col socialismo, ma vogliono rinnovarlo". Scrisse su di loro, e in particolare su Kundera, un importante libro- Gli accusati. Kafka, Bulgakov, Solženitsyn e Kundera (De Donato, Bari 1972), che ebbe molta importanza per i giovni di sinistra della mia generazione.della mia generazione. Se rileggo oggi la nostra corrispondenza, la sua amarezza perchè "nel Comitato centrale tanti compagni non vogliono capire", mi viene tristezza perché quel mio caro amico non c'è più, ma anche un senso di spaesamento per delle discussioni che appaiono oggi lontane anni luce e, soprattutto, erano inadeguate alla lotta contro regimi che non meritavano nessuna "comprensione". Dopo la sua morte fu pubblicata una nuova versione del suo libro che conteneva molte delle cose che, dopo i colpo di stato militare in Polonia, aveva deciso di non tenersi più dentro. Kundera naturalmente c'entrava poco con tutto questo.
(☞Letteratura e politica).
MITTELEUROPA. Kundera definisce la Mitteleuropa come quell’area di staterelli collocati tra la Russia e la Germania: "L'Europa centrale in quanto focolaio di piccole nazioni possiede una visione del mondo propria, visione basata su di una profonda diffidenza nei confronti della Storia. La Storia, questa divinità di Hegel e Marx, quest'incarnazione della Ragione che ci giudica ed arbitra il nostro destino, è la storia dei vincitori. E i popoli centroeuropei non sono vincitori. Sono inseparabili dalla Storia europea, non potrebbero esistere senza di lei, ma non rappresentano che il rovescio di questa Storia, le sue vittime e i suoi outsider. E' da questa esperienza di storia disincantata che nasce l'originalità della loro cultura, della loro saggezza, della loro 'mancanza di serietà' che si fa beffe della grandezza e della gloria. (...) Quel che definisce e determina l'insieme centroeuropeo non possono essere le frontiere politiche (che sono inautentiche, sempre imposte da invasioni, conquiste e occupazioni), ma le 'grandi situazioni comuni' che riuniscono i popoli dividendoli in gruppi sempre diversi, fra frontiere immaginarie e sempre mutevoli, entro le quali sussistono una stessa memoria, una stessa esperienza, una stessa tradizione comune" (M. Kundera, Un occidente sequestrato, ovvero la tragedia dell'Europa centrale, "New York Review of Books" (26/IV/ 1984); trad.it. in "Nuovi argomenti", n. 9, Roma 1984). Kundera rivendica con orgoglio la natura di quest’altra Europa: "Spesso mi sembra che la cultura europea conosciuta nasconda tuttora un'altra cultura, sconosciuta, delle piccole nazioni dalle lingue curiose: quella dei polacchi, dei cechi, dei catalani, dei danesi. Si ritiene che i piccoli siano per necessità imitatori dei grandi. E' un'illusione. Essi sono persino molto differenti. La prospettiva di un piccolo non è la stessa di un grande. L'Europa delle piccole nazioni è ancora oggi un' altra Europa, ha un altro punto di vista e il suo sistema di pensiero è spesso il vero contrappunto dell'Europa dei grandi. (...) Gli ebrei e i cechi non hanno avuto la tendenza ad identificarsi con la Storia, a vedere serietà e senso nei suoi spettacoli. Un'esperienza immemorabile li ha disabituati a venerare questa Dea, a tessere elogi della sua saggezza. Così, l'Europa dei piccoli stati, meglio protetta contro la demagogia della speranza, ha avuto un'immagine più lucida dell'avvenire che non l'Europa delle grandi nazioni, sempre pronte ad esaltarsi con la loro gloriosa missione storica".
MUSICA. Figlio del musicologo Ludvìk Kundera, pianista e allievo di Janácek, autore di saggi su Beethoven e sulla musica popolare (si parla di lui anche nell'Enciclopedia della musica della UTET), Milan Kundera ha frequentato è stato educato in un ambiente dove la musica stava al vertice della scala dei valori. Il padre gli raccontava sempre, come ammonimento politico, che i russi, entrati a Varsavia dopo il falimento dell'insurrezione polacca, avevano buttato per spregio, dalla finestra della sua casa, il pianoforte di Chopin (mi ricordo quella casa gialla di Varsavia, in via Nowy Świat -Nuovo Mondo-, accanto alla Facoltà di Filosofia e, uscendo dalla Biblioteca, cercavo sempre di immaginare quel pianoforte che volava giù e si fracassava per strada). In gioventù, Kunderà praticò la musica: "Fino a venticinque anni ero attratto molto più dalla musica che dalla letteratura. La mia cosa migliore di allora fu una composizione per quattro strumenti: pianoforte, viola, clarinetto e batteria. Essa prefigurava in modo quasi caricaturale l'architettura dei miei romanzi, la cui futura esistenza, a quell'epoca, neanche sospettavo" .
I suoi romanzi e racconti, Kundera lo ha ribadito in varie occasioni, sono costruiti come una composizione musicale: "La musica è la più grande scuola di forma che si possa immaginare. Intanto mi ha insegnato cos'è l'economia dei mezzi nell'arte. La più grande ambizione formale di un compositore è di costruire una sonata o una sinfonia con il minimo di motivi e di temi. E' questa economia di mezzi che conferisce coerenza e unità a una composizione musicale. I miei romanzi li ho costruiti dunque su due piani: il piano epico di intreccio degli eventi e il piano musicale di elaborazione e di variazione dei motivi. Nei miei romanzi, le stese situazioni, le stesse frasi, le stese metafore ritornano. Ogni volta sotto una luce nuova, ogni volta con un significato diverso. Le ripetizioni mi permettono di penetrare sino in fondo ai singoli temi. "
Spesso, nelle sue pagine, si trovano delle considerazioni sulla musica (fatte dall'autore o per bocca di qualche personaggio). Interessante è la sua idea della storia della musica ("La musica è l'arte che più si avvicina alla bellezza dionisiaca intesa come eleganza"), che ricalca la sua idea pessimista del cammino della storia umana. Alla origini esiste una "idiozia della musica" (Il libro del riso e dell'oblio) che riflette l'idiozia connaturata con l'essere umano. Con un immenso sforzo della mente e del cuore la musica si è elevata: al tempo di Bach (si dice ne L'insostenibile leggerezza dell'essere) la musica assomiglia a "una rosa fiorita nella sconfinata landa nevosa del silenzio", ma al sommo della sua parabola è diventata ben presto rumore ossessivo ed è tornata allo stato primitivo: il sommo della parabola è l'inizio del Novecento, quando Schönberg fondò "l'impero della dodecafonia", abolendo ogni gerarchia, e dopo Schönberg venne Egar Varèse che sostituì alle note una raffinata organizzazione di rumori. "Schönberg è morto", conclude Kundera, "Ellington è morto, ma la chitarra è eterna. L'armonia stereotipa, la melodia banale, il ritmo tanto più lancinante quanto più monotono, ecco cosa è rimasto della musica, ecco l'eternità della musica" .
OBLIO. "Il libro del riso e dell'oblio" è uno dei libri migliori e più profondi di Kundera: una serie di racconti che mettono a fuoco mirabilmente, e con amara ironia, la realtà dei paesi appressi da regimi totalitari, ma non solo quella. C'è, già nel titolo, racchiuso il senso della filosofia di Kundera: il riso, lo scherzo, lo scherno, la satira che corrode le palafitte del potere e anche la leggerezza come cifra caratteristica della nostra esistenza; l'oblio come violenza della Storia sugli uomini. Nel racconto La madre (Maminka) si narra di una donna, madre del protagonista, che aveva invitato per il 12 agosto 1968 un suo amico farmacista a raccogliere le pere nel suo giardino. A causa de "l'ingresso dei carri amrmati di alcuni paesi stranieri" in Cecoslovacchia, il farmacista non si fece vivo, e nemmeno nei giorni successivi per scusarsi. La signora ci rimase malissimo e non perdonò più l'amico. Il figlio e la nuora furono sorpresie indignati per tanto egoismo per tranto egoismo e tanta incomprensione degli eventi storici. A distanza di molti anni però, sopiti i rancori, attendendo la madre, il figlio riflette su quell'episodio. Le conclusioni alle quali giunge sono un po' diverse da quelle del passato. Tutto sommato non gli appare così sbagliata la prospettiva esistenziale della madre che "in primo piano aveva una grossa pera e da qualche parte, lontano, sullo sfondo, un carro armato non più grosso di una coccinella (slunecko) destinata a volarsene via da un momento all'altro (…) Il carro armato è perituro e la pera è eterna (tank je smertelny a hruska je vecnà)". Karel, il protagonista del racconto, si è oggi costruito un guscio dove fluttuano, e congiurano contro di lui, le figure della moglie Eva e dell'amica Markéta in un intreccio erotico che è insieme desiderio di affermare una vita che, fuoiri dalla dimensione sessuale, appare sempre meno autentica e triste malinconia prodotta con un grande senso di frustrazione per tanti desideri e speranze rimasti schiacciati dai cingoli dei carriarmati. In lui la paura non giocca più nemmeno un ruolo determinante: si è ormai convinto che le pere (che simboleggiano la vita privata quotidiana) sono più importanti dei carriarmati, si è costruito un'ideologia, perfettamente funezionale al potere, che gli permette persino di accettare la propria sconfitta come una vittoria, scambiare la miopia fisica e mentale di sua madre, ma anche la sua, per la vittoria del quotidiano sulla Storia.
Nel volume, la Cecoslovacchia appare come "il deserto dell'oblio organizzato". Mirek -personaggio di un altro racconto: La lettera perduta sostiene infatti che: "La lotta dell'uomo contro il potere è lotta della memoria contro l'oblio"(Boj cloveka proti moci je boj pameti proti zapomneni). Gli individui si agitano nella propria vita quotidiana -e alcuni lottano proprio per uscire da quella cappa di anonimato che costituisce uno degli elementi fondamentali del mantenimento, da parte del Potere, di un consenso passivo della popolazione. Per un paradosso, sostiene Kundera, è negli scaffali della polizia la nostra unica immortalità.
Nel racconto Gli angeli che rappresenta il trionfo dell'incubo dell'infantilismo, la protagonista Tamina si ritrova in un'isola (molto simile alla Cecoslovacchia degli anni Settanta), piena di bambini, soltanto bambini, dove risuona una musica idiota e il "Presidente dell'oblio" (Prezident zapomneni) grida: "Fanciulli, vivere è la felicità!" (Deti, zit, to je stestì!) .
OTTIMISMO. Alla fine de L'insostenibile leggerezza dell'essere, il protagonista del romanzo, Tomas, ammette di essere felice: "Ma è una felicità paradossale, la sua. Ottenuta non 'malgrado' il suo scetticismo, ma 'grazie' ad esso. Tomáš si sente felice nel momento in cui perde il lavoro e tutto ciò che ha considerato come la propria 'missione'. Bisogna piantarla di pensare che l'ottimismo sia legato alla felicità e lo scetticismo all'amarezza. Direi quasi che è vero il contrario"
OROSCOPI. Dopo l'invasione delle truppe del Patto di Varsavia, Kundera perse, come molti altri intellettuali (ma anche operai e impiegati) il posto di lavoro. per campare, scriveva, sotto pseudonimo, oroscopi per un settimanale femminile. Ebbe un tale successo che le mogli dei dignitari del partito telefonavano al suo Direttore per avere degli "oroscopi personalizzati".
PARIGI. Nel novembre del 1981, fuggii a Parigi per non esser costretto ad andar a fare di nuovo il giornalista in Polonia: la situazione laggiù mi immalinconiva e sentivo che stava andando tutto a scatafscio (un mese dopo ci fu infatti il colpo di stato militare). Seppi da un'amica che Kundera teneva delle lezioni in una scuola del'Ecole des Hautes Etudes (al 44 di Rue de la Tour). In una piccola aula dipinta di giallo, con una ventina di studenti, provenienti da tutte le parti del mondo, spiegava la storia della letteratura dell'Europa centrale. Mi colpì un signore anziano, dal voto grifagno, che stava seduto nell'ultima fila e prendeva meticolosamente appunti su un piccolo quaderno nero. Mi ricordava qualcuno. Lo scoprii un pomeriggi che andai a vedere, in cinemino dove davano film italiani in lingua originale, Irene, Irene di Peter Del Monte. Quello splendido magistrato, alla fine della vita, era il mio compagno di banco! Alain Cuny, grande attore disoccupato, seguiva le lezioni di Kundera per "capire qualcosa di più del mondo" (come mi confessò, con un sorriso appena abbozzato, quando presi a salutarlo e a cercare, inultimente, di parlare con lui).
Kundera parlava un buon francese e si capiva che era a suo agio tra gli studenti (prima del 1968 era stato un insegnante). Una volta, dopo un'accesa discussione al termine di una lezione "sull'inferiorità della letteratura russa" invitò alcuni di noi a casa sua: un piccolo appartamento pieno di libri e con moltissimi quadri. Li aveva dipinti tutti lui: quando erano arrivati a Parigi, con la moglie, soffrivano un po' per quelle pareti tutte bianche. Kundera si comprò i colori e le tele e, in poche settimane, trasformò la casa in una galleria (i quadri non erano originalissimi, la maggior parte astratti, ma di buona fattura).
PARTITO COMUNISTA. Kundera aderì al Partito comunista cecoslovacco nel 1948. Fu espulso nel 1950. Fu riammesso automaticamente nel 1956. Venne di nuovo, e definitivamente, espulso nel 1970.
"In passato, anch'io ho creduto che l'avvenire fosse il solo giudice competente delle nostre opere e delle nostre azioni. Poi ho capito che il flirt con l'avvenire è il peggiore dei conformismi, la vile adulazione del più forte. Perché l'avvenire è sempre più forte del presente”.
PIANETA DELL?iINESPERIENZA. Il titolo inizialmente previsto per "L'insostenibile leggerezza dell'essere" era "Il pianeta dell'inesperienza". L'inesperienza come una qualità della condizione umana .
RISATA DI DIO. Nel discorso di ringraziamento per il conferimento del premio alla fiera di Gerusalemme (giugno 1985), Kundera disse: "C'è un bellissimo proverbio ebraico: 'L'uomo pensa, Dio ride'. (…) Mi piace pensare che l'arte del romanzo sia venurta al mondo, con François Rabelais, come eco del riso divino. Ma perché Dio ride, vedendo l'uomo che pensa? Perché l'uomo pensa e la verità gli sfugge. Perché più gli uomini pensano, più i loro pensieri divergono. E, in fine, perché l'uomo non non è mai quello che pensa di essere. (…) Proprio quando perde la certezza della verità e il consenso unanime degli altri che l'uomo diventa individuo. Il romanzo è il paradiso immaginario degli individui; è il territorio dove nessuno possiede la verità" .
Questo atteggiamento di sfiducia radicale nella Ragione, Kundera lo ha sicuramente accentuato con la delusione politica, ma sostiene di averlo appreso negli stessi anni a partire da una frase folgorante del Dziennik (Diario) di Gombrowicz, scritta probabilmente nel 1967, due anni prima di morire: "Tutta l'episteme occidentale è dominata da questa verità: 'Tanto più uno è intelligente, tanto più è stupido'".
SCHERZI. "Al giorno d'oggi non c'è più spazio per gli scherzi, oggi si prende tutto sul serio". Lo scherzo (1967) è il primo romanzo di Kundera. I successivi sono sotto molti aspetti, com'è naturale, delle variazioni di questo tema. Ma quell'allegria, che è insita nella natura della burla, anche se ha conseguenze negative, è venuta a mancare. Gli scherzi non sono una forma di liberazione, sostiene giustamente Kundera. Ma sono una specie di boccata d'aria. Invece: nei drammi e nelle sofferenze dei suoi personaggi, anche nelle situazioni "tragicomiche", è sparita quest'allegra ombra. Sono gli scherzi, la cosa che Kundera, passando a Parigi e adottando la lingua francese, ha lasciato a Praga.
TEMPO TRA IL CANE E IL LUPO. C'è un libro, nella massa di pubblicazioni di narrativa del nostro dopoguerra, che avrebbe meritato maggiore attenzione dal pubblico e dalla critica. E' il romanzo di Vittorio Sermonti, "Tempo tra il cane e i lupo", Rizzoli, Milano 1989). Il titolo traduce l'espressione cèca "cas mezi psem a vlkem": quel momento della giornata fra la scomparsa del sole e l'avvento della notte, quando, specialmente in altre epoche, i cani avevano riparato nel chiuso , e i lupi non erano ancora usciti alla campagna. Una metafora dell'indistinto, dell'ambivalente. Ma anche della Cecoslovacchia in un certo memento della sua storia recente. Questo libro potrebbe averlo scritto Kundera: c'è la stessa atmosfera (non soltanto perché è ambientato a Praga: Sermonti è stato, come giornalista in quella città), alcuni personaggi simili, le stesse storie tragicomiche, quel modo di guardare alla vita con uno scetticismo amaro e lieve.
Il libro infine è costruito per rimandi e approfondimenti a pie' di pagina, come sto tentando di fare anch'io con questo "dizionarietto kunderiano", che imita L'arte del romanzo di Kundera. Forse, parlando della Boemia, del mosaico complicato della sua gente, della sua storia e della sua cultura, non si può trovare mezzo stilistico più efficace.
VALZER DEGLI ADDII. In cinque giorni e cinque atti si svolge questa commedia umana di menzogne, ambientata in una stazione termale per donne sterili. Ruzena, infermiera incinta, cerca un padre per il futuro bambino frutto di una relazione con il trombettista Klima, che cerca di farla abortire. La protagonista verrà avvelenata involontariamente da Jakub, ex vittima delle purghe staliniane (è stato il padre di Ružena a mandarlo in prigione, dove poi è finito anche lui, rimanendovi fino alla morte). "Il valzer degli addii -sostiene Kundera- è il romanzo che in un certo senso mi è più caro. Come Amori ridicoli, l'ho scritto con più divertimento, con più piacere degli altri. in un altro stato d'animo. Anche molto più in fretta (...). Si fonda su un archetipo formale del tutto diverso dagli altri miei romanzi. E' assolutamente omogeneo, senza disgressioni, composto a una sola materia, raccontato con lo stesso tempo, è molto teatrale, stilizzato, basato sulla forma del vaudeville:una forma in cui ha nrme importanza l'intrigo, con tutto i suo apparato di coincidenze inattese ed esagerate".
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MILAN KUNDERA è nato a Brno, nell'allora Cecoslovacchia (oggi Repubblica Ceca), il 1º aprile del 1929. Kundera studiò letteratura e musica a Praga. Dal 1949 studia alla Scuola di Cinema (FAMU) dove si laurea e dove in seguito terrà corsi di letterature comparate. Nel 1948 si iscrisse al Partito comunista, ma ne fu espulso nel 1950 per via di alcune critiche alla sua politica culturale contenute in una lettera a lui indirizzata da un amico (stesa situazione del suo primo romanzo Lo scherzo). Nel 1956 fu riammesso, diventando un punto di riferimento importante nelle discussioni di quegli anni. Nel 1968 si schierò apertamente a favore della cosiddetta "Primavera di Praga", e fu per questo costretto a lasciare il posto di docente e, nel 1970, fu nuovamente espulso dal partito. Nel 1975 emigrò in Francia, ove ha insegnato alle Università di Rennes e di Parigi, dove oggi vive con la moglie Vera Hrabanková. Nel 1979, a seguito della pubblicazione de Il libro del riso e dell'oblio, gli fu tolta la cittadinanza cecoslovacca. Nel 1981, grazie a un interessamento del presidente François Mitterrand, ottenne quella francese. Nel 2008 un documento, rinvenuto negli archivi della Polizia di Praga, avrebbe fatto sospettare una sua delazione, nel 1950, nei confronti di un ventenne impegnato in un'operazione di "spionaggio" tra Germania Ovest e Cecoslovacchia (il giovane venne poi condannato a 22 anni di lavori forzati). Kundera ha sempre negato ogni responsabilità nella vicenda.
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BIBLIOGRAFIA
• Lo scherzo (Žert, 1967) (trad. Arrigo Bongiorno, Mondadori 1969 - trad. Antonio Barbato [= Giuseppe Dierna], Adelphi 1986);
• Amori ridicoli (Směšné lásky, 1968) (trad. Serena Vitale, Mondadori, 1973 - trad. Antonio Barbato [= Giuseppe Dierna], Adelphi 1988;
• Jacques e il suo padrone. Omaggio a Denis Diderot in tre atti (Jakub a jeho pán: Pocta Denisu Diderotovi, 1971 - Jacques et son maître, hommage à Denis Diderot, 1984) (trad. Alessandra Mura, Adelphi 1993);
• Il valzer degli addii (Valčík na rozloučenou, 1972) (trad. Serena Vitale, Bompiani, 1977 - Adelphi 1989);
• La vita è altrove (Život je jinde, 1973) (trad. Serena Vitale, Mondadori, 1976 – Adelphi 1987);
• Il libro del riso e dell'oblio (Kniha smíchu a zapomnění, 1978) (trad. Serena Vitale, Bompiani, 1980 - n. ed. a cura di Alessandra Mura, Adelphi 1991);
• L'insostenibile leggerezza dell'essere (Nesnesitelná lehkost bytí, 1984) (trad. Antonio Barbato [= Giuseppe Dierna], Adelphi 1985);
• L'arte del romanzo. Saggio (L'Art du roman, 1986), trad. Ena Marchi e Anna Ravano, Adelphi 1988);
• L'immortalità (Nesmrtelnost, 1990) (trad. Alessandra Mura, Adelphi, 1990);
• I testamenti traditi (Les Testaments trahis, 1992), trad. Maia Daverio, Adelphi 1994);
• La lentezza (La Lenteur, 1995) (trad. Ena Marchi, Adelphi 1995);
• L'identità (L'Identité, 1997) (trad. Ena Marchi, Adelphi 1997);
• L'ignoranza (L'Ignorance, 2001) (trad. Giorgio Pinotti, Adelphi 2001);
• Il sipario (Le Rideau, 2005), trad. Massimo Rizzante, Adelphi 2005);
• Un incontro (Une rencontre, 2009), trad. Massimo Rizzante, Adelphi 2009);
• La Festa dell'insignificanza (La fête de l'insignifiance, 2013) (trad. Massimo Rizzante, Adelphi 2013)
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(Pubblicato in forma ridotta su "il Foglio" (20/VI/2020) e sul sito di GARIWO (22/VI/2020)