Lev Tolstoj
Guerra e pace
Libro quarto, parte prima, capitolo 16
Il principe Andréj non soltanto sapeva di dover morire, ma si sentiva
mancare, ed era come già morto a metà. Aveva la sensazione di
allontanarsi da ogni cosa terrena e quella di una strana e gioiosa
levità di tutto il suo essere. Senza impazienza e senza ansia,
attendeva il compimento di ciò che incombeva su di lui. Quella
cosa terribile, eterna, ignota e lontana di cui aveva sentito la
presenza per tutta la vita, gli era ormai vicinissima e, per quella
strana sensazione di levità dell’essere, quasi comprensibile e tangibile…
Aveva avvertito la prima volta questo sentimento quando la granata gli
turbinava davanti come una trottola ed egli guardava le stoppie, i
cespugli, il cielo, pur sapendo che dinanzi a lui c’era la morte.
Quando, dopo essere stato ferito, aveva ripreso coscienza e nella sua
anima, in un istante, quasi egli si fosse liberato dal peso della
vita, era sbocciato quel fiore dell’amore eterno, libero, indipendente
da questa vita, egli non temeva più la morte e non vi pensava.
Quanto più, in quelle ore di dolorosa solitudine e di semidelirio, che
aveva trascorso dopo la ferita, rifletteva su quel nuovo principio di
eterno amore che gli si era rivelato, tanto più, senza avvedersene,
ripudiava la vita terrena. Amare tutto e tutti, sacrificarsi sempre
per l’amore, significava non amare nessuno, significava non vivere di
vita terrena. E perciò, quanto più era permeato da questo principio
d’amore, tanto più rinnegava la vita e tanto più distruggeva quella
terribile barriera che, quando non c’è amore, sta tra la vita e la
morte. Allorché, in quel primo tempo, si ricordava di dover morire,
diceva a sé stesso: “Che importa? Tanto meglio!”.
Ma dopo quella notte a Mitisci quando, quasi in preda al delirio,
aveva visto comparire colei che egli desiderava e quando, premendo la
mano di lei alle proprie labbra, aveva pianto silenziose lacrime di
gioia, l’amore per una donna era insensibilmente penetrato nel suo
cuore e lo aveva di nuovo legato alla vita. E turbamenti e pensieri
gioiosi ripresero ad affacciarsi alla sua mente. Ricordando il momento
in cui, al posto di medicazione, aveva veduto Kuragin, non poteva più
tornare ai sentimenti di allora. Ora lo tormentava il dubbio: sarà
ancora vivo? E non osava chiederlo.
La malattia, dal lato fisico, seguiva il suo corso naturale, ma ciò
che Natascia aveva definito “gli è accaduto questo” era avvenuto due
giorni prima dell’arrivo della principessina Màrija. Era stata
l’ultima lotta morale tra la vita e la morte, e la morte era riuscita
vittoriosa. Era stata l’inattesa consapevolezza di amare ancora la
vita, che si raffigurava per lui nell’amore per Natascia, e l’ultima,
dominata crisi di orrore davanti all’ignoto.
Era sera. Come ogni giorno, dopo pranzo, egli aveva un po’ di febbre e
una straordinaria lucidità di pensiero. Sònja era seduta presso la
tavola. Egli sonnecchiava. A un tratto fu assalito da una sensazione
di gioia.
“Ah, è venuta lei!”, pensò.
Infatti ora, al posto di Sònja, era seduta Natascia, entrata senza
fare alcun rumore.
Da quando Natascia aveva incominciato a curarlo, il principe Andréj
provava la sensazione fisica della vicinanza della fanciulla. Ella
sedeva accanto a lui, sulla poltrona, e gli nascondeva con la sua
persona la luce della candela. Lavorava a maglia. (Aveva imparato a
fare la calza da quando, una volta, il principe Andréj le aveva detto
che nessuno sapeva curare gli ammalati così bene come le vecchie
governanti che fanno la calza, e che in quello sferruzzare c’è un
qualcosa di riposante). Le dita sottili della fanciulla si muovevano
rapide sui ferri che di tanto in tanto si urtavano, e il principe
Andréj vedeva nettamente il profilo pensieroso del suo volto. Ella
fece un movimento, il gomitolo di lana le cadde dalle ginocchia. La
fanciulla trasalì, guardò il principe, messa la mano davanti alla
candela, con un movimento cauto rapido e preciso si chinò, raccolse il
gomitolo e riprese la posizione di prima.
Egli, immobile, la guardava e capiva che, dopo aver fatto quel
movimento, ella aveva bisogno di respirare profondamente, ma non si
decideva a farlo e riprendeva fiato a poco a poco.
Al monastero di Tròjtza, il principe e Natascia avevano parlato del
passato ed egli le aveva detto che, se Iddio gli avesse concesso di
vivere, non avrebbe cessato di ringraziarlo perché, grazie a quella
ferita, era di nuovo riunito a lei; ma, da allora, non avevano mai più
parlato del futuro.
“Era o non era possibile che ci fosse un futuro?”, pensava egli ora,
guardando la fanciulla e ascoltando il lieve ticchettio dei lunghi
aghi. “Possibile che il destino mi abbia riunito a lei in un modo così
strano soltanto per lasciarmi morire? E’ possibile che io abbia avuto
la rivelazione della verità della vita soltanto perché vivessi nella
menzogna? Io l’amo più di tutto al mondo. Ma cosa posso fare, se
l’amo?”, pensò e, all’improvviso, si mise involontariamente a gemere,
per l’abitudine datagli dalle lunghe sofferenze.
A quel gemito, Natascia posò il gomitolo, si chinò verso l’ammalato e,
vedendo gli occhi lucenti di lui, gli si avvicinò di più.
– Non dormite?
– No, da un pezzo vi sto guardando. Ho sentito quando siete entrata.
Nessuno, come voi, mi dà quella pace così dolce… e quella luce…
Vorrei piangere dalla gioia…
Natascia si chinò ancora di più verso di lui. Il suo viso raggiava di
estatica gioia.
– Natascia, io vi amo troppo. Più di tutto al mondo!
– Anch’io! – esclamò la fanciulla, e si voltò per un attimo. – Ma
perché troppo? – domandò poi.
– Perché troppo? Ebbene, cosa pensate, cosa sentite in fondo
all’animo? Vivrò? Che ne dite?
– Ne sono certa! Ne sono certa! – gridò quasi Natascia,
afferrandogli tutt’e due le mani con slancio appassionato.
Egli tacque.
– Come sarebbe bello! – E, presa una mano di lei, la baciò.
Natascia era felice e commossa; ma subito pensò che l’ammalato aveva
bisogno di tranquillità.
– Intanto non avete dormito – disse, soffocando la propria gioia. –
Cercate di dormire… ve ne prego.
Egli, dopo averla stretta, lasciò la mano di Natascia, ed ella tornò
verso la candela e sedette dov’era prima. Due volte lo guardò e due
volte vide gli occhi lucenti di lui che incontravano i suoi. Si impose
il compito di fare un dato pezzo di maglia e di non guardarlo più sino
a che non avesse finito.
Difatti, poco dopo, egli chiuse gli occhi e si addormentò. Non dormì a
lungo e ad un tratto si svegliò agitato, coperto da un sudore freddo.
Si era addormentato continuando a pensare a ciò che tanto occupava
allora la sua mente: alla vita e alla morte. E, soprattutto, alla
morte a cui si sentiva più vicino.
“L’amore? Che cosa è l’amore?”, pensava. “L’amore si oppone alla
morte. L’amore è vita. Tutto, tutto ciò che capisco, lo capisco
soltanto perché amo. Tutto è, tutto esiste, soltanto perché amo. Tutto
è legato all’amore. L’amore è Dio e morire, per me, piccola particella
d’amore, significa tornare alla fonte comune ed eterna”. Questi
pensieri gli parevano consolanti. Ma non erano altro che pensieri.
Qualcosa vi mancava, avevano qualcosa di unilateralmente personale, di
intellettuale, erano privi di evidenza. E persisteva la stessa, vaga
inquietudine. Si riaddormentò.
In sogno, si vide coricato nella camera in cui si trovava realmente,
non era più ferito, stava bene. Parecchie persone insignificanti,
indifferenti, apparivano a un tratto davanti a lui. Egli parlava con
loro, discuteva di cose inutili. Esse si preparavano a recarsi in
qualche posto. Il principe Andréj ricordava vagamente che tutto questo
non aveva alcuna importanza, che egli aveva ben altre cose più gravi e
preoccupanti cui pensare, ma continuava ugualmente a parlare,
sorprendendo i suoi ascoltatori con parole futili e spiritose. A poco
a poco, insensibilmente, tutte quelle persone cominciavano a sparire e
tutto cedeva il posto a un solo problema: come si poteva chiudere la
porta? Egli si alzava e andava verso la porta, con l’intenzione di
spingere il paletto per chiuderla. Dal riuscirvi o meno dipendeva
“tutto”. Egli andava, si affrettava, ma le gambe non si movevano, ed
egli sapeva che non sarebbe giunto in tempo a chiudere, tuttavia
tendeva morbosamente tutte le proprie forze. Una paura tormentosa lo
assaliva. Era la paura della morte: essa stava dietro la porta. Ma
mentre egli barcollando, senza più forze, stava per giungere alla
porta, ecco che “quella cosa” orribile, premendo dall’altra parte,
cercava di spingere per entrare e bisognava trattenerla. Egli si
afferrava alla porta, raccoglieva le ultime forze, non già per
chiudere, – ormai era impossibile – ma almeno per trattenerla. Ma
le sue forze erano insufficienti, maldestre e, premuta da
quell’orrore, la porta si apre e si richiude.
Ancora una volta quella cosa premeva dall’altra parte. Gli ultimi,
sovrumani sforzi erano vani: due battenti si spalancavano senza
rumore. Quella cosa era entrata, era la morte! E il principe Andréj
moriva.
Ma, proprio nell’istante in cui moriva, il principe Andréj si era
ricordato che stava dormendo e, fatto un ultimo sforzo, si era
svegliato.
“Già, quella era la morte… Sono morto e mi sono svegliato. Sì, la
morte è risveglio”. La sua anima era stata, a un tratto, avvolta dalla
luce, e il velo che sino a quel momento gli aveva nascosto l’ignoto,
si era sollevato davanti allo sguardo del suo spirito. Si sentì come
liberato da una forza dapprima imprigionata dentro di lui e provò
quello strano senso di levità che non lo abbandonò più.
Quando, destandosi madido di gelido sudore, si era agitato sul divano,
Natascia gli si era avvicinata e gli aveva domandato che cosa avesse.
Il principe Andréj non le aveva risposto e, senza capirla, aveva
continuato a fissarla con uno sguardo strano.
Ecco ciò che gli era accaduto due giorni prima dell’arrivo della
principessina Màrija. Proprio da quel giorno, come diceva il dottore,
la febbre che lo prostrava aveva preso una brutta forma, ma Natascia
non si curava di ciò che diceva il dottore; ella vedeva quei terribili
sintomi morali, che non le lasciavano alcun dubbio.
Pure da quel giorno era cominciato per il principe Andréj insieme con
il risveglio dal sonno, il risveglio dalla vita. E, in relazione alla
durata della vita, esso non gli appariva più lento del risveglio dal
sonno in relazione alla durata di un sogno.
Nulla vi era di terrificante e di brusco in quel risveglio
relativamente lento.
I suoi ultimi giorni, le sue ultime ore trascorsero come al solito,
molto semplicemente. E la principessina Màrija e Natascia, che non si
allontanavano da lui, lo sentivano. Esse non piangevano, non
trasalivano e, negli ultimi giorni, avevano la sensazione di non
assistere più lui (egli non c’era già più, se ne era andato), ma il
suo ricordo più intimo: il suo corpo. I loro sentimenti erano così
forti che il lato esteriore e terribile della morte non le
impressionava più, ed esse non trovavano necessario eccitare il loro
dolore. Non piangevano né davanti a lui né quando erano sole, ma
nemmeno parlavano di lui tra di loro. Sentivano di non poter esprimere
a parole ciò che avevano compreso.
Tutte e due vedevano come egli sempre più profondamente, in modo lento
e tranquillo, si allontanasse da loro, sprofondando chissà dove, e entrambe
sapevano che così doveva essere e che era bene che fosse così.
Il principe Andréj si confessò e si comunicò; tutti vennero a dargli
l’ultimo addio. Quando gli condussero suo figlio, posò le labbra su di
lui e volse il capo, non perché quel saluto gli fosse penoso (la
principessina Màrija e Natascia lo capivano), ma soltanto perché
supponeva che da lui non si esigesse altro. Ma quando dissero di dare
al figlio la sua benedizione, egli fece ciò che gli si chiedeva e si
guardò attorno come per chiedere se dovesse fare ancora altro.
Quando, con gli ultimi sussulti, l’anima si staccò dal corpo, la
principessina Màrija e Natascia erano presenti.
– È finita?! – disse la principessina Màrija, dopo che il corpo di
lui, raffreddandosi già da alcuni minuti, giaceva immobile davanti a
loro. Natascia si avvicinò, guardò quegli occhi spenti e si affrettò a
chiuderli. Li chiuse e non li baciò, ma avvicinò religiosamente le
labbra su quello che era l’ultimo e il più vicino ricordo di lui.
“Dov’è andato? Dov’è ora?”.
Quando il corpo, lavato e vestito, giacque nella bara sopra la tavola,
tutti si avvicinarono per dargli l’estremo addio, e tutti piangevano.
Nikòluska piangeva per lo stupore doloroso che gli straziava il cuore;
Sònja e la contessa piangevano di pietà per Natascia e perché egli non
era più; il vecchio conte piangeva perché sentiva che presto sarebbe
toccato a lui fare lo stesso tremendo passo.
Natascia e la principessina Màrija ora piangevano anch’esse, ma non
per i loro dolori personali; piangevano per la commozione reverente che
aveva invaso le loro anime dinanzi alla coscienza del semplice e
solenne mistero della morte che si era compiuto innanzi a loro.
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