domenica 3 novembre 2024

Il monologo di Molly Bloom

 


Ulisse
di James Joyce (1921), traduzione di Marilena Beltramini

Le ultime parole famose

Che ora bestiale mi dà l'idea che in Cina si stanno alzando a quest'ora e si pettinano i codini per la giornata tra poco le monache suoneranno l'angelus non c'è nessuno che vada a disturbare i loro sonni se non qualche prete per le funzioni della notte la sveglia di quelli accanto al primo chicchirichì mi fa uscire il cervello a forza di far fracasso guardiamo un po' se riesco ad addormentarmi 1 2 3 4 5 che razza di fiori sono quelli che hanno inventato come le stelle la carta da parati di Lombard street era molto più carina quel grembiule che mi ha dato assomigliava un po' solo che l'ho portato solo due volte meglio abbassare la lampada e provare ancora in modo da alzarsi presto voglio andare da Lambes là vicino a Findlaters e farmi mandare dei fiori da mettere per casa nel caso lo portasse qui domani cioè oggi no no il venerdì porta male prima voglio fare un po' di pulizie la polvere sembra che si ammucchi mentre dormo poi un po' di musica e qualche sigaretta posso accompagnarlo prima devo pulire i tasti del piano col latte cosa mi devo mettere porterò una rosa bianca o quelle brioches di Lipton mi piace l'odore di un bel negozio di lusso a sette penny e mezzo la libbra o quelle altre con le ciliegine e lo zucchero rosa 11 pence un paio di libbre di quelle e poi una bella piantina in mezzo alla tavola si trova a minor prezzo da un momento dove le ho viste non è mica tanto io amo i fiori vorrei che la casa nuotasse nelle rose Dio del cielo non c'è niente come la natura le montagne selvagge poi il mare e le onde galoppanti poi la bella campagna con campi d'avena e di grano e ogni specie di cose e tutti quei begli animali in giro ti farebbe bene al cuore veder fiumi laghi e fiori ogni specie di forme e odori e colori che spuntano anche dai fossi primule e violette e questa la natura e quelli che dicono che non c'è un Dio non darei un soldo bucato di tutta la loro sapienza perché non provano loro a creare qualcosa gliel'ho chiesto spesso gli atei o come diavolo si chiamano vadano e si lavino un po' prima e poi strillano per avere il prete quando stanno per morire e perché perché perché hanno paura dell'inferno per via della loro cattiva coscienza ah si li conosco bene chi è stato il primo nell'universo prima che ci fosse qualcun altro che ha fatto tutto chi ah non lo sanno e nemmeno io eccoci tanto vale che cerchino di impedire che domani sorga il sole il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che [gli] feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotto all'anice e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua e il sole splende per te oggi sì perciò mi piacque sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos'è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finchè non mi chiese di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare e pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey e Mr Stanthope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevano loro sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all'elmetto bianco povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e quei pettini alti e le aste [vendite] la mattina i Greci e gli Ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d'Europa e Duke Street e il mercato del pollame un gran pigolio davanti a Larby Sharans e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all'ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello e vecchio di mille anni si e quei bei mori tutti in bianco e turbanti come re che chiedevano di metterti a sedere in quei buchi di botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas fulgidi occhi celava l'inferriata perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte mezzo aperte la notte che perdemmo il battello ad Algeciras il [guardiano] che faceva il suo giro con la lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell'Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dov'ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli /come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco /e io pensavo beh lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio sì. 

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Nicola Lagioia, E Molly (ri)creò il mondo, la Repubblica, Robinson, 3 novembre 2024

Quando ho riletto Ulisse non più ventenne, ma da trentenne e quarantenne, i miei favori e il mio affetto hanno cominciato a spostarsi verso Leopold Bloom. «L’uomo medio sensuale » , come l’aveva definito Ezra Pound, cominciò ad apparirmi ben più eroico (e comico) dello spigoloso Stephen ( Dedalus). Cos’è che ho iniziato ad amare in Leopold? La pazienza, certo, ma anche gli appetiti, la capacità di sopportare dolori e frustrazioni, ma anche la curiosità, la composita natura del combustibile che lo fa errare in lungo e in largo per Dublino.
...  La mia esperienza da cinquantenne dell’Ulisse si concentra invece su Molly. (Non posso non trovare singolare che la mia predilezione, nel tempo, si sia mossa in parallelo a come, nello spazio del romanzo, è dato progressivo risalto ai tre personaggi). Nel dormiveglia di Molly tutto precipita nella notte e tutto si ricompone. È lei in definitiva – Penelope, non Ulisse; la Grande Madre più che il figlio ribelle e il padre putativo – la vera narratrice del romanzo. La tela, del resto, ha che fare con la trama.
Non starò ad analizzare i tantissimi momenti prodigiosi del monologo finale, è stato fatto in maniera eccellente e per fortuna incompleta, dal momento che questo libro non è ancora esaurito dalle interpretazioni di tutti quelli che vi si sono avvicendati. Dirò due piccole cose, minuscole intuizioni da sottoporre a verifica, pronte a essere spazzate da letture più illuminanti.
La prima è che, dietro certi pensieri frivoli di Molly, pulsa una coscienza gigantesca, una conoscenza notturna, sotterranea, acquorea, l’anima del mondo di cui il corpo della donna (indistinguibile a un certo punto dal suo pensiero) è la parte per il tutto. Il ventre per tutti i ventri, verrebbe da dire. È qui che il flusso di Molly-Penelope dialoga, ho l’impressione, con almeno tre gigantesche entità. La prima è l’Odissea anteriore a Omero, cioè il racconto orale (e corale) delle gesta di Odisseo, così mobile e vivo, che ha preceduto per secoli la successiva cristallizzazione nel testo scritto. L’intera cifra di Ulisse,la sua polilingua, elettrica e sensuale, che nel monologo di Molly Bloom raggiunge il suo culmine, si può considerare un tentativo di risvegliare-resuscitare – dall’interno dell’umanità, dal nostro inconscio – quel “morto orale” che è la vera vittima di 2500 anni di letteratura scritta. Gli altri due classici del pensiero occidentale a cui James Joyce, attraverso Molly Bloom, dà del tu nel monologo finale mi sembrano ilDe rerum natura di Lucrezio eLe metamorfosi di Ovidio, libri dei mutamenti e dell’eternità. Il mito (come scopriranno per pochi istanti anche l’Ulrich e la Agathe dell’Uomo senza qualità nelle pagine più belle e struggenti del libro di Musil) non possiede una vera origine, un momento ontologico a cui tornare, tutto il contrario, è l’esito di un gioco infinito ed eterno, il frutto di una continua negoziazione tra le forze più belle e perturbanti del cosmo, alle quali la nostra parte migliore può cercare, quando riesce, di accordarsi.
Questo porta alla seconda piccola intuizione su Penelope. Riguarda il « sì » finale. A una lettura superficiale l’avverbio in questione si riduce a una semplice risposta alle richieste di Leopold, addirittura un cedimento. La classica lettura dell’Ulisse legge quel «sì», piuttosto, come una generale accettazione della vita: tutto ciò che non riescono a risolvere prima Stephen e poi Leopold lo scioglie Molly accogliendo la vita con tutto il suo splendore e i suoi drammi, i suoi dolori e i piccoli momenti di gloria. Da qualche tempo a questa parte, quella parola finale a me sembra, però, anche altro, più potente dell’accoglimento di una richiesta, più vasto persino di un’accettazione generalizzata. Quello di Molly, credo oggi, è anche un « sì » generativo. È pronunciando quella sillaba che Molly Bloom genera la storia che abbiamo appena finito di leggere. Senza quel «sì» le complicate e banali e così care vicende di Molly e Leopold e Milly e Boylan e Rudy non si sarebbero mai intrecciate tra loro, così come non si sarebbero incrociati in quel modo, sul far della notte, Leopold e Stephen. È con quel « sì » che Molly crea il mondo.
«In principio era il Verbo» scrive san Giovanni. Bene. Spostare quel Verbo dalla bocca di Dio ai pensieri di una donna stesa nel suo letto al 7 di Eccles Street, a Dublino, è tra i gesti più audaci che uno scrittore abbia mai compiuto, l’uscita (attraverso un libro magico) di noi lettori dall’incubo della narrazione storiografica, proprio mentre la Storia [...]  si preparava ad allestire nuovi incubi.




sabato 2 novembre 2024

Nietzsche e i filosofi preplatonici



Le lezioni tenute da Nietzsche all’Università di Basilea sui filosofi preplatonici furono pubblicate in tedesco per la prima volta nel 1913. Da Talete a Socrate, il filosofo tedesco in queste pagine rivisita uno per uno i pensatori greci che per primi concepirono e fondarono la filosofia nella sua forma più pura, veri e propri pionieri che transitarono il pensiero greco dal mito alla forma più matura di sapienza, a cui tutta la storia successiva della filosofia è debitrice.

Barbara Castiglioni
, I preplatonici, gli "inventori" della filosofia amati dal Nietzsche più tragico, Il Giornale, 2 novembre 2024

Un giovane professore prematuramente pensionato, afflitto da un'oscura malattia, quasi cieco, in costante movimento tra la riviera italiana e francese
in inverno e l'Engadina d'estate. Questo era Friedrich Nietzsche nel 1879, quando lasciava l'università di Basilea, dando inizio a una vita errabonda.
In sette inverni, cambierà un numero inverosimile di abitazioni, deprecando sempre 
«la sudiceria del meridione», e lamentando di non riuscire a trovare «nulla di adatto ad un essere pensante e pulito come me».

Tra Svizzera, Italia e Francia, con un gigantesco baule che conteneva i fogli su cui scriveva, Nietzsche viaggiava in treno, e lo detestava: odiava il movimento, il continuo traballare, le carrozze non riscaldate, vomitava spesso, e ci metteva giorni a riprendersi da un viaggio. Prima di tutto questo, «l'asceta che ha intorno tutto quanto gli è più spiacevole», però, aveva insegnato, tra il 1869 e
il 1879, Filologia all'Università di Basilea: in questi anni, scriverà la Nascita della tragedia e le Considerazioni inattuali, come ricorda Piero di Giovanni nella sua accurata, vivida introduzione a I filosofi preplatonici (Mimesis), che contengono le lezioni preparate per gli studenti di Basilea tra il 1872 e il 1876. Secondo Nietzsche la tragedia e la filosofia rappresentano quel modo di interpretare l'esistenza umana che la scienza, nella sua dimensione fenomenica, non può cogliere nella sua interezza. E nei suoi presocratici, non ci sono solo Talete, Anassimene o Anassimandro, ma anche Edipo e Dioniso, che rispecchiano quell'atrocità della vita sulla terra che sarà esplicitata dal Sileno nella Nascita della tragedia («Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto»): parole non troppo diverse da quelle del vademecum del pessimista di ogni tempo, il Qohélet: «I morti perché morti io lodo, i vivi no perché vivi. E più di loro il felice che non è ancora stato».

Nietzsche sapeva bene che «il desiderio sempre più forte di bellezza, di feste,
di divertimenti» dell'uomo greco «si era sviluppato dalla mancanza, dalla
privazione, dal dolore»: come quelli descritti dal presocratico che considerava
il suo diretto antenato, cioè Eraclito. «Sublime, solitario, estatico», Eraclito
riesce a concepire l'idea dell'eterno divenire, «che in un primo momento ha
qualcosa di spaventoso ed inquietante»: e solo una forza notevole poteva
trasformare «questo effetto in quello opposto, cioè in quello del grandioso e
dello stupore gioioso». Perché i presocratici vivono nell'età tragica, dionisiaca
dei greci, non quella della decadenza, che inizia con l'Atene di Pericle e avrà il
suo esponente più famoso in Socrate: irascibile, col naso piatto, le labbra grosse
e gli occhi sporgenti, questo «autodidatta etico», secondo le parole di Nietzsche,
non era altro che un incolto plebeo nemico dell'arte, della scienza e della natura.
Decisamente più vicino alla «poderosa formazione dello spirito e del cuore»
nietzschiana era, invece, Empedocle, che nella lotta tra philia (amore) e neikos
(odio) riesce a intravedere il senso del dolore che l'uomo è costretto a vivere e
soffrire nel mondo.

Barbara Castiglioni, laureata in Lettere Classiche e Dottore di Ricerca in Studi
Umanistici presso l'Università di Torino con una tesi sull'Elena di Euripide, si
specializza nello studio della tragedia antica e nella ricezione dei classici. Ha
pubblicato numerosi saggi che analizzano la tragedia greca e il legame tra il
dramma antico e le sue forme moderne.

Amore e Psiche. L'enigma dell'amore, a cura di Barbara Castiglioni
Marsilio, Venezia 2024

La favola di Amore e Psiche, tramandata dalle Metamorfosi di Apuleio, è forse la più affascinante e misteriosa di ogni tempo. Il figlio di Afrodite, Amore, si innamora di Psiche, l’anima, ma il loro amore ha una condizione: Psiche non dovrà mai vedere il volto del suo amato. Amore diventa così lo sconosciuto amante notturno, che la possiede nel buio e all’alba sparisce. Psiche però, vinta dal desiderio di conoscere il suo amante, lo coglie nel sonno e gli illumina il volto con una lampada. Amore fugge, lasciando Psiche nella disperazione, ma i due innamorati, dopo un lungo periodo di peripezie, si ritroveranno e si uniranno in matrimonio: dalla loro unione, nascerà Voluttà. La favola ha dato vita a un numero infinito di variazioni. Secondo La Fontaine, per cui «tutto l’universo obbedisce all’Amore», i due amanti rappresentano la prova che l’illusione e il desiderio, cioè l’amore al buio, siano da preferire alla realtà. Per Keats, che diventa il «sacerdote di Psiche», Amore e Psiche simboleggiano il trionfo dell’amore. Secondo Heine, la colpa di Psiche, che «si lascia morire perché i suoi occhi hanno visto il corpo nudo del suo Amore», rappresenta i mali del cristianesimo. Per Leopardi, la curiosità di Psiche, «che era felicissima senza conoscere», è la prova dei danni della conoscenza. Secondo Pascoli, Psiche è l’emblema dell’impossibilità dell’amore, e non a caso ritroverà il suo Amore solo «oltre la morte». Per Marina Cvetaeva, la favola è il simbolo di quello che l’amore dovrebbe essere: «anima senza corpo». Il significato di Amore e Psiche, quindi, rimane un mistero, che rispecchia, forse, l’enigma dell’amore. (presentazione editoriale)


Maria Jennifer Falcone, il manifesto, Alias, 1 luglio 2024

Erant in quadam civitate rex et regina: «c’erano in una città un re e una regina». È
l’inizio della favola, il ‘c’era una volta’ che subito immerge in un’atmosfera magica e altra:
una città indefinita, un re e una regina, la loro bellissima figlia, così bella da far ingelosire
Venere e da far innamorare di sé Amore in persona. La storia di Amore e Psiche, incastonata
nel centro delle
 Metamorfosi di Apuleio (ora pubblicate dalla Fondazione Valla per le cure
di Lara Nicolini, Caterina Lazzarini e Nicolò Campodonico con la traduzione – qui
riportata – di Luca Graverini) è uno dei grandi classici della letteratura latina: la bella
 
fabella 
affascinante e ricca di interpretazioni – anche molto diverse tra loro – che l’hanno
interessata sin dal Tardo Antico.

La giovane si trova a vivere in una dimora splendente dove ogni notte nel buio
incontra un amante misterioso. Curiosa, non riesce a rispettare il patto di non
vederlo, una notte accende la lampada e una goccia d’olio bollente risveglia Amore.
È la fine: il dio alato scappa via e per recuperare il suo amante Psiche dovrà superare
prove mortali, che affronterà con aiuti non umani; nonostante la sua curiosità alla
fine ritroverà Amore e genererà una figlia divina, chiamata Voluptas.

La trama, di cui quella di Apuleio costituisce la prima versione, ha avuto un’enorme
fortuna, favorita in tempi recenti anche dal successo del film di animazione La
Bella e la Bestia,
 ispirato all’omonima fiaba di G.S. Villeneuve del 1740. Se gli abiti
lussuosi, le danze in salone e le ceramiche parlanti del palazzo disneyano richiamano
alla mente questa storia, narrata da Apuleio in una lingua particolare e ricercata, è
però ben precedente e molto più profondo il rilievo culturale che essa ha esercitato
sulla cultura europea. Un volume della collana «Variazioni sul mito» di Marsilio,
ormai da tempo punto di riferimento riconosciuto nel panorama degli studi sulla
ricezione dei classici (Apuleio, La Fontaine, Keats, Heine, Leopardi, Pascoli,
Cvetaeva, Amore e Psiche L’enigma dell’amore, Marsilio «Letteratura universale,
pp. 264, euro 18,00), curato da Barbara Castiglioni, ne mette in luce alcune tappe
[rilevanti] con una selezione dei testi a volte brevissimi ma sempre significativi.

Come sempre apre il volume il testo classico, vale a dire la narrazione di Amore e
Psiche estratta dalle Metamorfosi di Apuleio. Dopo l’ampio racconto di Jean de la
Fontaine, il lettore si imbatte nella magia poetica di un incontro impossibile
nell’Ode a Psiche di Keats; è quindi accompagnato a rileggere allegoricamente la
vicenda con Leopardi che in una pagina dello Zibaldone (10 febbraio 1821) associa
la figura apuleiana all’uomo della Genesi e riflette sui rischi della conoscenza. I
quattordici versi della Psyche di Heine aprono uno scorcio sui temi della colpa e
della nudità e ci presentano davanti agli occhi una Psiche immutata nel tempo,
iconico emblema della sopravvivenza dei classici («Dopo diciotto secoli, diciotto!, /
di penitenza, lei è ancora lì»). Alla Psiche dei Poemi Conviviali di Pascoli in perfetto
equilibrio tra dottrina e spontaneità segue infine la figura evocativa e rarefatta
dell’«anima senza 
corpo» della Psiche di Marina Cvetaeva.

Come è d’uso in questa collana, tutti i testi (antichi o moderni in lingua straniera)
sono presentati in traduzione italiana. Rendere fruibili le opere letterarie
mantenendone il carattere poetico è un lavoro complesso ed è uno dei meriti del
libro: se la traduzione di Apuleio è quella di Stella Sacchini già pubblicata da
Feltrinelli (2020), sono stati tradotti appositamente per il volume i testi di La
Fontaine (Susanna Spero), Keats (B. Castiglioni), Heine (Maria Grazia Ciani) e
Cvetaeva (Luisa De Nardis).

Nell’introduzione, scritta dalla curatrice, trovano spazio anche molti altri capitoli
della ricezione di questa favola, la cui fortuna ampia e sfaccettata è resa evidente
dalla continuità diacronica e dalla varietà di autori e opere citati. E se Castiglioni
identifica nell’erotismo e nella voluttà il tratto per lei più affascinante del testo di
Apuleio, le letture che popolano le sue pagine mostrano la natura molto più
complessa e decisamente sfuggente del racconto, che si prestava a essere
interpretato in chiave allegorica anche grazie alla scelta del nome proprio della protagonista, Psiche ovvero ‘anima’.

Universale e misteriosa, dunque, e profondamente enigmatica, Psiche è
rappresentata con grazia struggente in particolare da Pascoli; il componimento,
ben introdotto dalla curatrice, è stato studiato a fondo da Lucia Pasetti in alcuni
contributi richiamati nelle note (nelle quali sono spesso suggeriti approfondimenti
critici). Prigioniera e piangente, «tenue più del tenue fumo / ch’esce alla casa»,
la Psiche pascoliana, in linea con la tradizione, perde il suo amato guardandolo con
la lanterna: «E lo sapesti solo allor che sparve, / l’Amore alato». Le prove, il dolore
e l’inedita figura di Pan puntellano i versi; richiami verbali e ripetizioni danno
struttura e creano suggestioni. E così nel finale una Psiche non più prigioniera ma
«fuggitiva» è sparita dalla sua casa «donde più non esce / il tenue fumo»: sparve
(«alla tua casa vuota / di cui sparve il celeste alito in cielo!»), proprio come sparve
Amore. Quasi ‘assunta in cielo’ («Pan l’eterno t’ha ripresa, o Psyche») ha raggiunto
il suo amato in un luogo che tutti cercano e che nessuno può trovare se non nella
magia eterna e sempre nuova della letteratura.












venerdì 1 novembre 2024

Canti cilentani

 


Franco Antonicelli, nel suo racconto del confino, parla delle ottave cilentane. Esistono ormai diverse raccolte di canti popolari pubblicate da editori improbabili che sembrano inventati per l’occasione: Assessorato al Turismo della Regione Campania, Urania, A. Testaferrata, Poligraf art grafiche, Edizioni di storia e folklore del Cilento, Thyrus, Centro di promozione culturale per il Cilento.

Ecco i testi principali:

Guido Gugliucci, Canti e itinerari cilentani, 1954;

Giuseppe Stifano, Canti popolari cilentani, 1973;

Giovanni Rizzo, Raccolta di canti popolari cilentani, 1977;

Giuseppe Stifano, Canti sociali e politici del Cilento, 1978;

Giuseppe Mollo Antonio Orlando, Strambotti: canti e proverbi cilentani, 1990;

Enrico Renna, Carmina Cilenti, 1995;

Canti cilentani di Caterina Scarpa, con il patrocinio del Comune di Ogliastro Cilento, 2010.

Nessuno di questi libri è presente in una biblioteca dell’Italia settentrionale. Tre si trovano alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: Gugliucci, Strambotti di Mollo e Orlando e i Canti cilentani di Caterina Scarpa. C’è da sperare che vi sia un giorno un etnomusicologo disposto a riprendere questi materiali per fare il punto e pubblicare un testo più largamente accessibile. Nel 1978, Silvana Pepe e Giovanni Pico pubblicarono un volumetto dal titolo: Torchiara: canti e tradizioni (Tipografia Europa, Salerno). Contiene una cinquantina di pezzi che spaziano dal tema dell’amore variamente declinato alla devozione religiosa. Uno riecheggia Fenesta ca lucive, ma fa rimpiangere l’originale napoletano. Due sono i temi trattati: l’amore e la fede religiosa. 

Rispetto alla canzone napoletana, una differenza salta all’occhio. La canzone napoletana sembra appartenere a un mondo in cui le differenze sociali non contano. Era de maggio, O' sole mio, ‘E spingule francese, Comme facette mammeta, ‘O surdato nnammurato esaltano la meraviglia dell’esistenza femminile di fronte al desiderio del maschio. Lui corteggia, lei si lascia corteggiare.

Nei canti cilentani, invece, prevale la semplice esibizione del desiderio, con qualche accenno ogni tanto ai problemi posti dalla differenza sociale o lavorativa.

Tu saresti ricca, ma io non è per questo che ti amo.

Bella nun t’amo pe denari
manco si n’avissi nu trasoro
t’amo pe stu genio ca me rai

Trasoro vale tesoro. Genio è “desiderio”. Nun tengo genio sta per non ho voglia. “Non ti amo per soldi, nemmeno se avessi un tesoro” [e non è detto che tu ce l’abbia, questo tesoro]. Ti amo per questa voglia che mi ispiri”.

Ora è la ragazza a parlare: non voglio sposare un contadino ma un pastore, per sfuggire al lavoro nei campi e avere la garanzia del cibo. Questo dicono con un’altra eleganza le metafore del testo.

Mamma nu lu voglio lu ualano
vogliu nu pasturiello ca me cummene
lu ualanu me porta a zappare
lu pasturiello a la seggia me tene
vene nu iuorno ca nun tene pane
na ricuttella fresca me mantene.

Ualano sta per “galano”, gualano [voce dei dial. merid., dal provenz. galan «giovane, garzone»]: nell’Italia meridionale, lavoratore agricolo a contratto annuo, addetto alla custodia di terre o alla cura e al governo di animali (equini e bovini) che impiega nei lavori di trasporto o di aratura (Treccani). Cummene = conviene. Seggia = sedia. Iuorno, giorno.

Non sposare uno di Cicerale, faresti una brutta fine.

Bella figliola te voglio avvertire
a Cicerale nun te maritare
Lu primo iuorno vai cu li scarpuni
e lu sicondo li puorci a guardare
te rano a mangià pane e vezzuni
chistu è lu pane si lu buò mangià
n’anti voglio esse cuonzo re allina
e nu a Cicerale me maritare
.

Negli ultimi versi cambia il soggetto. “Questo è il pane se lo vuoi mangiare” simula una ingiunzione rivolta alla donna dal marito o dalla famiglia di lui. Poi è la donna a prendere la parola: “piuttosto voglio essere una scodella di gallina, e non sposarmi a Cicerale”. Te rano a mangià pane e vezzuni, “ti danno da mangiare pane e fave”.
Lui appartiene a “sangue gentile” e lei è una ragazza di “bassa mano”.

Uocchi neurielli chiù de n’auliva,
ccu bui nun me pozzo apparentare
Mamma toa m’a mannato a dice
ca lu figlio suo nun m vole rare.
Vui pruveniti ra sango gentile
e io puverella da la bassa mano.

Occhi morettini più di un’oliva, con voi non mi posso imparentare. Tua madre mi ha mandato a dire che non mi vuole dare [in sposo] suo figlio”. Ciò nonostante, la ragazza alla fine conclude: “Mamma non vuole e noi ci amiamo”.

C’è perfino una serenata in cui la fanciulla amata viene vista “morta di freddo e insonnolita” e allora viene invitata a chiudere la finestra. Una tale premura concreta sottrae poesia, ma esprime tenerezza e aggiunge verità al gesto galante.

Tutto stanotte voglio ì cantanno
mo ca lu lietto mio nun pozzo rorme
a la funestra me stai aspettanno
morta re friddo e sceccata r suonno
T preo bella mia trasitenne
nu boglio ca p me pierdi lu suonno
Io t’aggio amato iuorni, misi e anni
e mo t’avessa perde p nu iuorno.

Tutta questa notte voglio andare cantando, ora che nel mio letto non posso dormire. Mi stai tutta infreddolita e morta di sonno aspettando alla finestra. Ti prego, bella mia, rientra [in casa], non voglio che tu mi perda il sonno”.

Nel campo della morale sessuale, è interessante la soluzione offerta dal sogno al problema del contatto fisico: l’innamorato riesce a contemplare il corpo nudo della ragazza, ma resta prudente nelle mosse successive.

Sera passai e tu bella rurmivi
tutto lu tuovo ciardino caminai
E te truvai a lietto ca rurmivi
ieri a la nura e te cummegliai
Truvai roie labbra gentili
e pe crianza mia nun le vasai
Ngera lu fuoco
e nun me cagliendai.

Per una volta l’idillio prende forma, emerge una dolce sollecitudine che si esprime in un piccolo gesto e in un atto di muta contemplazione. La chiusura lascia trasparire una certa delusione: c’era il fuoco e non mi scaldai. Rurmivi, dormivi. A la nura: nuda. Cummegliai, coprii. Roie, due. Crianza, creanza, educazione, rispetto delle buone maniere. Vasai, baciai. Ngera, c'era. 

Si capisce che quella cilentana è una società dominata dall’assillo della sussistenza e dall’attenzione per lo svolgimento quotidiano della vita. Francesco Volpe, nel suo libro sul Cilento nel secolo 17 (Ferraro, Napoli 1981), fa notare la grande importanza che viene attribuita nella mentalità locale al possesso della roba, della proprietà e dei beni materiali.



giovedì 31 ottobre 2024

Pretese di grandezza nel mondo



Andrea Graziosi
, I Maga di tutto il mondo, Il Foglio, 31 ottobre 2024

... Il caso di Maga [Make America Great Again = pretesa di grandezza] più tragico e terribile, prima di tutto per gli altri, ma quasi sicuramente anche per la stessa Russia, è quello si sta sviluppando da circa vent’anni in una Mosca educata già ai tempi sovietici al culto della conquista di Berlino, Varsavia e Praga. Pur essendo dovuto a cause essenzialmente interne (ricordiamo che agli inizi degli anni Ottanta del Novecento l’attesa di vita dei maschi sovietici era di circa 15 anni inferiore a quella occidentale, e gli aborti superavano di diverse volte le nascite), il tracollo dell’Urss, infinitamente più drammatico del lento declino europeo e di quello relativo statunitense, ha nutrito il violento, velenoso e irrealistico desiderio di fare la Russia di nuovo grande di Vladimir Putin, anticipato in sedicesimo, e con differenze importanti, da quello del serbo Miloševic. Al di là delle strade aggressive e omicide da esso imboccate e delle sofferenze umane che ha già provocato (ricordiamo che la sola aggressione all’Ucraina ha fatto sinora circa un milione tra morti e feriti), il tentativo di rifare un “mondo russo” stride con il peso tecnologico e demografico di una Russia che ha un decimo della popolazione indiana o cinese e produce semilavorati e materie prime. Quel tentativo ha quindi tratti anche grotteschi, come lo furono quelli di altri nazionalismi dalle ambizioni smisurate (tra cui il nostro), ma non per questo meno tragici per gli altri, ceceni, georgiani e ucraini prima di tutti, ma anche noi europei e gli stessi russi. Diversi fattori rendono tuttavia difficile che il prezzo che Mosca sarà prima o poi chiamata a pagare venga presto esatto. Vi si oppongono l’arsenale nucleare russo, rafforzato nel 1993 dalla decisione di far consegnare a Mosca gli arsenali atomici ucraino e kazaco presa in una Washington che ragionava ancora, comprensibilmente ma ingenuamente, in termini bipolari, un arsenale la cui presenza basta a “calmierare” il sostegno militare statunitense e europeo all’Ucraina; l’appoggio cinese a Putin, a sua volta alimentato dalla attraente e realistica prospettiva di sottrarre al vecchio Occidente le straordinarie risorse naturali russe; e infine i proventi di queste stesse straordinarie risorse, soprattutto ma non solo energetiche, che rendono possibile alla Russia affrontare scosse economiche e sociali che scuoterebbero altri paesi.

Ma sono oggi all’opera nel mondo anche altri Maga, prima di tutto quello cinese e quello indiano che guardano a passati più lontani di quello della “grande” Europa padrona del pianeta, ma altrettanto gloriosi del suo. Malgrado le notevoli differenze che li separano, si tratta infatti degli altri due principali “fuochi” della civiltà umana (quello del Medio oriente è un caso più complesso e comunque legato al Mediterraneo e all’Europa). E se la Cina di Xi Jinping pensa di poter tornare a occupare il centro del mondo, una posizione che ritiene ingiustamente strappatagli dal mondo bianco nel XIX secolo, l’India prima che a una rivalsa su un “Occidente” che sa avergli dato molto oltre che imposto un pesante fardello, pensa prima di tutto a quella sui musulmani che la sottomisero secoli prima dell’arrivo degli europei.

L’ascesa di questi due nuovi giganti, che contano circa un miliardo e mezzo di abitanti ciascuno (anche se l’ex Raj britannico potrebbe essere coinvolto da nuove “partizioni” dopo quelle che hanno portano al distacco della Birmania, del Pakistan e infine del Bangladesh), ha fatto emergere con nettezza la forte, ancorché banale verità di quella che si potrebbe chiamare la “legge di Charles Henry Pearson”. Uno dei più acuti analisti britannici di fine XIX secolo, questi vide già allora con chiarezza che in un mondo dove istruzione, conoscenze e competenze si diffondevano in modo grosso modo uniforme, non c’era in futuro spazio per il dominio di piccoli paesi, come quelli europei, che dovevano la loro posizione al monopolio sulla rivoluzione scientifico-tecnologica.

E’ quindi lecito chiedersi cosa vuol dire oggi questo per la nostra Europa continentale “napoleonica”– che a questo è ridotta, speriamo non per sempre, l’Unione europea dopo aver perso Londra e Mosca. Per essa e i paesi che la compongono è difficile sognare e perseguire un ritorno alla grandezza perché il continente nel suo insieme e i suoi stati presi singolarmente vengono tutti, Francia compresa, da un secolo di sconfitte, certo mitigate dai “miracoli” del secondo dopoguerra. Tutte o quasi le loro capitali sono state occupate da uno o due eserciti invasori e la decolonizzazione ha poi fatto giustizia di un plurisecolare dominio sul mondo. Il fenomeno ha quindi preso finora fattezze peculiari: in Italia, per esempio, quelle innovatrici del Berlusconi che prometteva un nuovo, grande miracolo italiano. Ma, anche a voler escludere un Maga tedesco, che è difficile augurarsi, un grande passato chiuso da grandi sconfitte può anche nutrire stagioni di chiusura e depressione altrettanto autolesioniste, ancorché meno aggressive, dei tentativi di tornare potenti.

Vedere e accettare la realtà, cioè vivere al meglio per come si è, aprendosi al mondo e al futuro è l’unica risposta sensata, e proporre di diventare saggiamente “vecchi” non è la soluzione giusta, perché le popolazioni (un termine che preferisco a popoli) europee, e non solo loro, non sono super-individui con una sola età ma aggregati formati da milioni di persone diverse, tra cui oggi molti vecchi ma anche tanti giovani che hanno il diritto di essere e sentirsi tali. Piuttosto, nel mondo intravisto a fine XIX secolo da Pearson e che oggi è sotto i nostri occhi, un’Unione europea capace di farsi più stato è l’unica ragionevole priorità, che tutti sono in grado di capire, fosse solo per evidenti ragioni di scala e per i pericoli che si corrono a navigare su piccoli vascelli un mare popolato da giganti. La sua costruzione, anche ma non solo in campo militare, è quindi la vera, seria sfida per una rinascita lontana dai velenosi desideri di tornare grandi. Non è detto ci si riesca, perché farlo è molto più difficile che capirlo, e naturalmente, per tornare da dove abbiamo cominciato, un’eventuale vittoria di Trump renderebbe la cosa certo più urgente, ma ancora più difficile. Ma sarebbe fondamentale almeno provarci.



mercoledì 30 ottobre 2024

Pasolini com'era


 


Aldo Cazzullo  Roberta Scorranese, Io, Moravia e le voci che scrivesse per me
Corriere della Sera, 30 ottobre 2024
Intervista a Dacia Maraini 


«Per anni, in tanti hanno sostenuto che l’autrice dei miei libri non fossi io». Dacia Maraini si racconta. «Pasolini si ritraeva se una donna lo toccava. Vanoni una grande amica».


Lei scrive il suo romanzo d’esordio, «La vacanza», dopo la separazione da Pozzi e nel dolore per il figlio perduto.

«E con i pregiudizi che all’epoca accompagnavano una donna aspirante scrittrice. Finii La vacanza e cominciai a proporlo agli editori. I commenti erano sempre del tipo “bravina, ma perché non se ne sta a casa invece di scrivere?”. Solo l’editore Lerici rispose, ma pose una condizione: che la prefazione fosse firmata da uno scrittore famoso».

E il più famoso di tutti, Alberto Moravia, accettò.

«Stendhal diceva che ci si innamora delle persone che fanno bene il mestiere che ci appassiona. Fu questa la prima impressione che ebbi di Alberto. Serio, attento, generoso. Non ha aiutato soltanto me, ma molti altri giovani. Purtroppo per decenni in tanti hanno sostenuto che i libri me li scriveva lui».

Lei era bellissima, e questo forse con Moravia la aiutò.

«Non andò così, il primo approccio fu al contrario puramente letterario. Insomma, non ci provò».

Lei aveva poco più di vent’anni. Quando vinse il Premio Formentor, il Corriere scrisse che la somma del riconoscimento assegnato «alla bella esordiente a qualcuno sono parsi un riconoscimento eccessivo».

«Ma non erano solo gli uomini ad attaccarmi. Maria Bellonci, madre del Premio Strega, commentò: “Questa ragazza ne deve mangiare di minestre prima di diventare una scrittrice”. Ma io sentivo di vivere dentro una grande famiglia, fatta di scrittori, registi, poeti. Ci vedevamo a Roma da Rosati. Ci trovavi Garboli, Citati, Bassani. Si andava a cena con Fellini, lui mi chiamava Dacina. Tutti pensavamo che fosse solo lui a tradire Masina, ma poi più tardi abbiamo scoperto che anche lei ha avuto vari amori».

In effetti Valentina Cortese ha raccontato che suo marito la tradiva con Giulietta.

«Giulietta e Federico erano alla pari». 
Com'era la vita con Moravia?

«Aveva una vitalità inesauribile. Una volta andammo in Africa con Pasolini. Avevamo viaggiato tutto il giorno sulla jeep, arrivammo stanchissimi e impolverati in un villaggio. Alberto non volle sentire ragioni e ci trascinò a ballare».

Con Pasolini siete stati in Africa altre volte.

«Arrivammo in un luogo remoto, eravamo io, Alberto, Pier Paolo, Franco Citti, Ninetto Davoli. Si sparse la voce che in quel villaggio viveva una tribù di cannibali che si nutriva del cervello per appropriarsi dell’intelligenza. Eravamo tutti spaventati. A un certo punto Citti disse a Davoli: “A Nine’, prima se magneranno Moravia, Pasolini, Dacia. Arriveranno a noi che so’ sazi...”. Ridemmo molto».

Moravia e Pasolini.

«Alberto era tutta ragione, Pierpaolo tutta sensualità. Andammo in India. Al ritorno uno scrisse Un’idea dell’India, l’altro L’odore dell’india».

Pasolini.

«Affettuosissimo. Ma senza contatto fisico, perché lui si ritraeva davanti al tocco di una donna. Una volta, in osteria al ghetto, cadde a terra. Ulcera. Perdeva sangue. Lo presi tra le braccia e non dimenticherò mai il suo sguardo: era come se stesse guardando sua madre. Non è vero che non si sia mai innamorato delle donne. Ha amato Maria Callas, ma era un amore senza fuoco, di testa. Lei ne soffrì, avrebbe voluto di più. Però lui nel corpo femminile ritrovava sua madre».
Cercava i ragazzi.

«Ma per sedurli, non per usare violenza. Eravamo in Africa, io lui e Alberto. Pier Paolo uscì, cercava amore. Tornò che era tardi, sconsolato. Ci disse che un giovane lo aveva rifiutato quasi con terrore, facendosi il segno della croce, come per allontanare un demonio. Ne era rimasto colpito, non capiva perché altri vedessero violenza nella sua ricerca dell’altro. Lui, che era profondamente cristiano e mai avrebbe voluto fare del male a qualcuno».

Lei collaborò alla sceneggiatura de «Il fiore delle mille e una notte», il penultimo film di Pasolini.

«Sul set avevamo bisogno di un leone. L’animale arrivò con il domatore, ci assicurarono che era innocuo. Ma a un certo punto piantò le zampe sulle spalle di Ninetto Davoli, lo ferì in modo abbastanza serio. Ci prendemmo un grande spavento. Ninetto urlava. E il domatore: “Tranquilli, vuole solo giocare!”».

Dov’era quando le dissero che Pasolini era morto?

«A Rimini, a un incontro femminista. Non volevo crederci, aveva appena 53 anni, era sano, pieno di progetti. Non toccava alcol, beveva solo latte, anche a tavola: suo padre era diventato alcolista dopo essere stato in un campo di concentramento in Africa e usava violenza contro la moglie. L’amore di Pier Paolo per la madre nasce da questo».

Che idea si è fatta di quella notte del 2 novembre 1975, a Ostia?
«Se finora non è emersa una verità chiara, qualcosa dietro deve esserci. Un mistero più grande di noi».

...

Moravia ha influenzato la sua scrittura?
«No, semmai l’ha fatto mio padre. Moravia si rifiutava di rivedere i miei scritti, per me non voleva essere un maestro».

Lo sogna spesso?

«Sogno spesso Pasolini. Ed è sempre giovane e bello».